Due coni gelato by Marcello Nicolini is licensed under a Creative Commons Attribuzione - Non opere derivate 3.0 Unported License.
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A Mosca sulla Piazza Rossa c’era un chiosco dei gelati e una giovane mi chiese di comprargliene uno.
Andai dal gelataio e dissi: «Dvie moroshnaja.» e cioè “due gelati”. Lui era grasso e aveva un piccolo cappello bianco in testa. Mi diede ’sti due coni alla panna, minuscoli e chimici che io presi con aria trionfale, perché avevo ordinato da solo la mia prima cosa in Russia. Portai i coni alla ragazza con un sorriso e la guardai. Lei prese il suo e cominciò a mangiarlo.
Cristo di Dio, mi sembravano ricordi lontani, mi sembravano innesti di qualcun altro fatti su di me, eppure era la vita che stavo vivendo in quell’attimo. Ero io, sul serio, quello che comprava i gelati alla ragazza.
«U tiebja brat?» le domandai. “Hai un fratello”?
«Da, u menja. Jevo zavut Arthur.» disse: “sì, ce l’ho. Si chiama Arthur”. Da allora, non so perché, quel nome mi è rimasto in testa. Penso sempre a cosa direbbe Arthur del mio comportamento, a cosa farebbe se mi vedesse baciare sua sorella. Io non l’ho mai conosciuto, Arthur. Non so neanche se esista o se sia un’invenzione di Sniega. Perché bisogna stare attenti con lei: ha gli occhi azzurri e obliqui. A volte mi sembra un serpente.
Ero nel 2002 e Sniega studiava alle superiori. Avrebbe voluto diventare oftalmologa, ma poi l’amore per la patria socialista dell’RSUB se l’è presa. Come s’è presa me.
2002. Avevo azzeccato subito l’anno, il mese, la settimana, il giorno, l’ora e il secondo – Sniega mi aveva chiesto di provarci – et voilà, ecco fatto.
Lei in quell’anno non mi conosceva ancora, se non per qualche riga sui giornali russi delle mie imprese.
Quando eravamo su a Minsk, mi chiedeva di guardare le pozzanghere e di concentrarmi su di lei bambina. Allora lo facevo e riuscivo a farle vedere il passato: quando era piccola e correva per le strade della città con le sue amiche.
Tuttavia, più andavo indietro nel tempo, più mi facevo impreciso, riuscendo a beccare, al massimo, la stagione.
Mangiammo il gelato davanti alla fiamma eterna. È questo un fuoco che scaturisce dal terreno, nella Piazza Rossa e si dice che dal ’45 non si sia mai spenta. Se dovesse accadere, sarebbe una catastrofe per la Russia.
Un soldato stava a guardia della fiamma.
Io guardai la Sniega del 2002, conscio che, da qualche parte, un’altra Sniega ci stesse scrutando.
«Kak tiebjia zovut?» “come ti chiami”, le domandai.
«Irina.» disse.
«Ja Flavio.» risposi, indicandomi col cono gelato.
Sniega aveva gli occhi obliqui, gli zigomi alti, il viso delicato e una coda di cavallo bionda. Era la stessa donna che giaceva morta nel Maggio 2012 in una strada fuori Monza, uccisa dal collega Misha di proposito, per attirare Rainman, che poi sarei io.
La stessa donna che avevo accettato di servire, tornando indietro a qualche ora prima del suo omicidio, arrendendomi a lei e portandola nell’al-di-qua, come io chiamo il mondo che credo reale.
La cosa buffa è che abbiamo sottratto il suo cadavere alle autorità italiane, con buona pace del mio amico maresciallo Sannuto, e l’abbiamo portato a Minsk con un C-130 dei servizi segreti di Roma. Accordi presi da Sniega: io non ne so niente.
Ricordo il viaggio: stipati in questo dinosauro volante senza sedili, col culo su una specie di barella, attaccata alla fusoliera e lo sguardo sul cadavere della donna che mi stava accanto.
Sniega s’è seppellita da sola nel cimitero ortodosso di Minsk. Una volta la Repubblica Socialista di Ucraina e Bielorussia proibiva totalmente le funzioni religiose, ma oggi non è più così e c’è una sorta di ammorbidimento, almeno su questa cosa.
Mi chiedo: è il destino che le ha fatto scegliere me per quel gelato? Avrebbe potuto chiedere a chiunque di comprarglielo, come fanno le giovani qui e a Minsk. È usanza.
Invece ha domandato a me. Stavo guardando la tomba di Gagarin, ricordo. La, sulla Piazza Rossa.
«Ochen priatna.» mi disse, dandomi la mano e sorridendo.
«Ochen priatny.» risposi.
Molto piacere.
La guardai ancora di sottecchi, diedi un morso al gelato e poi dissi: «A sdies shto delajesh?» e che fai qui?
«Oh, sono in permesso studio da alcuni parenti.» rispose. «E mi piace girare per Mosca. È bellissima.»
«Già. Quindi non sei di Mosca?» domandai.
«No. Di Minsk.»
«Ah, Bielorussia.»
«Da.»
La guardai leccare il gelato, sorridendo al pensiero di quello che mi avrebbe detto dieci anni dopo, d’estate, offrendomene uno in Italia. Il mio stava colando tutto sulla mano, mentre lei non aveva neanche una macchia. Mi guardò e mi disse: «Voi uomini non sapete leccare il gelato. Si vede.»
Che stronza. Battute imbecilli.
Non so, era strano stare fianco a fianco con questa ragazza che già conoscevo, di cui sapevo vita morte e miracoli riguardo al carattere, ai modi di fare. Mi sentivo avulso dal contesto, mi sentivo come il personaggio di un videogioco.
E cominciavo a chiedermi – anzi, per la verità me lo chiedo sempre – se la “gita” di Sniega a farmi incontrare lei con dieci anni di meno fosse solo una “gita”.
Girai la testa a sinistra: la cattedrale di San Basilio svettava come una serie di coni variegati ai mille gusti.
Dietro di noi c’era l’enorme complesso dei magazzini GUM.
«Ti va un caffè?» domandai.
Lei mi guardò e sorrise, poi guardò la fiamma e ancora me, quindi spostò gli occhi verso il militare.
«Non so se... » disse.
Certo, non te lo puoi permettere, pensai. Come non ti puoi permettere il novanta percento delle cose che ci sono in questa città.
«Dai, offro io.» dissi.
Lei sorrise.
Ci avviammo verso l’enorme edificio che in periodo sovietico era famoso per gli scaffali spesso vuoti e per le vecchie babushke che stavano lì coi loro banchetti a vendere cetriolini, immagini sacre e matrioske.
Ora era pieno di guardie del corpo e autisti che gravitavano attorno alle Mercedes nere dei ricchi, aspettando che il padrone o la padrona finissero di fare shopping.
I magazzini sono enormi: chi non ci è stato non può capire.
Impiegammo un po’ a trovare un angolo che conoscevo, al secondo piano verso destra. Lì si beve ancora un illy della madonna fatto con la Bialetti. Ma non lo fa più Natascia, che nel 2002 aveva ventun anni. Menomale, anche perché fare il caffè al bar dei magazzini GUM per dieci anni non è che sia esattamente una buona prospettiva di lavoro per un giovane.
All’epoca, io e Sniega ce lo bevemmo porto da Natascia con un sorriso. Tra donne si guardarono: Natascia parve dire a Sniega “che cazzo ci fai qui provinciale bielorussa? E con che soldi puoi anche solo mettere piede nei magazzini?”.
Non so cosa le disse Sniega col linguaggio non verbale. Ora che ci penso, spero che il fatto di non vedere più Natascia al bar dei magazzini non abbia a che fare con la pistola di Sniega.
Eravamo seduti ad uno dei tavoli; ogni tanto io la guardavo negli occhi e tutti e due sorridevamo. Lei era genuina e le rughe attorno alla bocca sapevano di pura allegria. Le piaceva sinceramente fare la mia conoscenza o almeno così mi parve. E io?
Ero attratto da Irina, certo. Ma ormai conosco questo genere di persone: non ti danno niente; arrivano e passano come la risacca sulla spiaggia. C’è un momento di breve, intensa eccitazione, un attimo di pura gioia e tutto svanisce e si passa alle pretese, alle incomprensioni, agli ordini dettati come da tanti marescialli sovietici. Avevo già visto quel film, ne sapevo a memoria ogni battuta. Sapevo che a forza di sorrisi, di gelati, di caffè, di passeggiate, di baci, ci saremmo infilati in una galleria sterile da dove non c’è sbocco. Anche se non lavorassi alle dipendenze dei servizi segreti RSUB, mi dissi, cosa potrei costruire con questa persona o col suo alter ego del 2012? Assolutamente nulla. Sniega, come gran parte delle sue connazionali, era una persona che arrancava nella vita risparmiando ogni rublo e che non aveva mai soldi per fare niente.
Anche se ci fossimo messi assieme, lei non avrebbe ragionato in termini di coppia, lo sapevo. Certo, mi avrebbe detto “ti voglio bene”, “ti amo” e sarebbe stata sincera. Ma quelle sue moine erano da interpretare come “ti voglio bene, fintantoché non metti in pericolo la mia sopravvivenza economica”; ergo, appena le avessi chiesto di contribuire al bilancio di coppia con qualcosa di più che un kebab ogni tanto, mi sarebbe saltata addosso e m’avrebbe sparato con la Glock.
Che è mia, fra parentesi.
Dunque tutti gli ammiccamenti, i sorrisi: noia intensa.
Una volta mi aveva detto che le bielorusse, in generale, andavano in Arabia Saudita o negli Emirati, diventavano mussulmane e facevano le seconde o terze o quarte o quinte mogli di questo o quello sceicco.
Come diceva mio fratello, buonanima: “queste, per una lira si farebbero dare punti (di sutura) nel culo”.
Quanto a me, non avevo capito come mai mi fossi arreso a Sniega, giù a Monza. Forse mi aveva fatto pietà, intenerito con la sua abnegazione e con l’aspettare la morte. Forse mi serviva solo fare qualcosa di diverso: rischiare la vita, andare in un posto differente. Sì, per questo accettavo il rapporto padrone-schiavo con Sniega.
«Cosa fai? Studi? Lavori?» le chiesi, un po’ annoiato, ma senza darlo a vedere.
«Studio. Sono all’ultimo anno e poi farò l’università.»
Lo so già, grazie, pensai.
«Ah, interessante. E quale facoltà?»
«Voglio diventare oftalmologa.» rispose.
E chissenefrega, pensai.
Mi venne in mente Sannuto, il maresciallo per cui lavoravo in Italia, lo stesso che Irina-Sniega aveva ferito con la mia pistola. Non ero più andato a trovarlo, non gli avevo manco telefonato. Niente.
Chissà se stava bene.
Il caffè era buono. Ho girato per l’Europa; sono andato negli Stati Uniti e in Africa. Bene, quel bar dei magazzini è l’unico posto al mondo dove il caffè lo fanno come in Italia.
Sorrisi, pensando: chissà, magari la Teleforce mi da il potere di andare indietro nel tempo entrando in una tazzina di caffè.
Irina prese a giocare col piattino, mi lanciò uno sguardo e abbassò gli occhi.
«E tu di dove sei?» chiese.
«Italiano.»
«Ah, che bella l’Italia!»
«Ci sei mai stata?»
«No.»
«Appunto.»
«In che senso.»
«Niente. L’Italia è bella, questo è vero.»
«Vorrei tanto andarci!»
«Sì, bene.» sospirai e mi alzai. Lei mi guardò, incredula. Stava ancora parlando.
Avevo sentito una specie di clamore provenire dal basso. Alla mia sinistra c’era la balconata che dava sulla piazza dei magazzini, con le sue fontane scolpite con i personaggi delle favole: la volpe e l’uva, la volpe e la cicogna.
Mi appoggiai alla balaustra, con aria annoiata.
Riccone post-sovietiche s’accalcavano educatamente attorno a un uomo, circondato da fotografi e guardie del corpo. Sembrava un attore di soap-opera: un bell’uomo russo alto, dai capelli neri e la mascella quadrata. Vestiva un completo elegante – di sicuro italiano – e un paio di scarpe nere, lucide.
«Oh, guarda!» disse Irina con una voce soffusa. Mi si era messa accanto, anche lei appoggiata a guardare in basso. Provai tenerezza per lei che non sapeva che pesci pigliare con quel tipo – me – tanto strano.
Fu allora che starnutii e nell’aria si diffuse odore di panno di daino. Nella clinica privata della Salazar, dove m’avevano tenuto in osservazione per mesi era successo parecchie volte. Starnutivo e nell’aria – puff! – odore di panno di daino. Ero allergico e sapevo bene a cosa.
«Quel tipo è un “super”.» dissi a Irina.
«Sì, è “Avtomat”.» replicò lei, con aria sognante, «è bellissimo.»
«Ma? Sento che c’è un “ma”.» dissi.
Lei rise: «Ma è russo. Ha l’aspetto di un russo. Tu sei molto esotico, invece.»
«Io ho la faccia da cazzo, perciò lasciami stare.» sbottai.
Irina-Sniega si fermò, rabbuiata. Poi mi guardò e disse: «Noi non parliamo così. Non diciamo queste parolacce.»
Vero. L’avevo notato. I russi stanno molto attenti a come parlano e usano molti termini di cortesia fra loro. Il turpiloquio poi è raro.
«Avtomat è “mitra”, vero?» le dissi, mimando un mitra con le mani. Lei rise: «Da!»
«E che ci fa qui?» domandai.
«Presenta una marca di vodka; me l’ero dimenticato, ma sai, già trovarmi qui ai magazzini con te… »
Io non dissi nulla. Avrei avuto voglia di baciarla, lo ammetto. Però a quel tempo ero strano; gli eventi della vita mi avevano sconnesso dalla realtà e mi avevano reso apatico come se avessi bevuto un intero termos di fiori di Bach. La vita mi scorreva davanti come una fila di corte inquadrature che si fermavano solo un attimo prima di svanire.
Ero svogliato, ecco. Disilluso, malfidente. Ero diventato come i russi o come gli odiati “tovarischi” di Minsk.
Mi sembrava strano che Irina, cresciuta con quella mentalità, non calcolasse cose del tipo: “mi converrà stare al bar con questo qui? Cosa otterrò?”.
Forse lo faceva, come lo avrebbe fatto dieci anni dopo, ma era già brava a dissimulare.
Poi in un attimo ci arrivai: Sniega, al secolo Irina Petrova, figlia della Repubblica Socialista di Ucraina e Bielorussia, esce dal paese con un permesso di studio e va a trovare i parenti a Mosca, nella federazione che ha abbandonato il comunismo?
Tutto così liscio?
Ci vogliono dei visti speciali per lasciare il paese. Bisogna sempre far sapere il proprio indirizzo. Ci vuole una montagna di documenti, che diamine!
E poi quel “super”, Avtomat: mi sa che Sniega mi aveva di nuovo giocato un tiro dei suoi.
La guardai negli occhi. A lungo. Lei sostenne lo sguardo.
Poi, improvvisamente, la presi per la vita; affondai i polpastrelli nella carne. Me la premetti vicino. Lei deglutii.
Accostai il viso al suo. Irina capì, alzò adagio il mento. Aveva gli occhi chiusi. Aspettava. Le labbra erano lì.
Ma io non mi fidavo.
Le misi una mano sulla faccia come fossi un cieco, come volessi imprimermi in testa i suoi lineamenti. Le affondai le dita nelle guance, sotto gli occhi, sul naso. Sulle labbra. Le feci male. E lei non protestò. Non disse niente.
Allora tolsi la mano. Le leccai un angolo della bocca, le passai le labbra sulla guancia.
E sussurrai: «Tornerò.»
La lasciai lì e me ne andai. ’Fanculo a Irina. ’Fanculo alle gite stupide di Sniega.
Scesi al piano terra, aggirai Avtomat e il suo pubblico, poi uscii sulla Piazza Rossa. Aveva cominciato a piovere. E dopo si sarebbero formate pozzanghere.
Sniega apparve dietro la tomba di Gagarin. Era alta, aveva la coda di cavallo e un lungo cappotto nero. Indossava pantaloni di pelle e tacchi dodici. Era truccata ad arte. Mi sembrò una dea aliena.
«Cristo, voi dell’Est non avete gusto nel vestirvi. Siete sempre in abito da gran galà di stronzi del cazzo!» dissi.
Lei sorrise: «Ero carina da giovane, vero?»
«Che esperimento è questo, Sniega?» domandai.
«Facciamo una passeggiata.» disse.
«D’accordo. Io adoro passeggiare.» assentii.
Camminammo per la Piazza. Lei altissima e io di qualche centimetro più basso.
«Perché hai voluto che ti portassi qui stavolta?» le domandai, dopo un po’. Nelle mie precedenti escursioni nella vita di Sniega, mi ero limitato a osservare con lei dalla pozzanghera.
«C’entra quel super? Avtomat?» chiesi.
«Sta’ zitto.» mi disse. «Il tuo caffè ai magazzini GUM. Beh, ce l’ho nei ricordi adesso.»
Io sorrisi: «Era un esperimento eh? Lo sapevo. Che stronza.»
«Perché mi odi?»
«Lasciami stare. Lasciami vah. Sei solo un pezzo di carta. Non hai spessore, non sei niente.» le dissi.
Sniega si fermò, mi guardò, poi mi prese il volto con una mano, mi graffiò la pelle con le unghia.
«“Tornerò” hai detto.»
«Non sai quanto l’ho sognato quel maledetto momento.» fece, «Non sai quanto mi sono… mi sono… toccata pensandoci.» sussurrò.
Io le afferrai il polso, le staccai la mano dal volto; lei fece resistenza, i nostri muscoli tremarono. Con l’altra mano la ghermii per il collo e la piegai verso di me. Ero arrabbiato. L’avrei riempita di pugni.
Affondai le labbra nelle sue. Con forza. Me la premetti addosso.
E poi la lasciai andare. O lei lasciò me: non avrei saputo dire.
«Hai voluto fare la prova sul campo di quel che dicevano i dottori, eh?» dissi.
«Se fossero due universi paralleli o meglio, più universi paralleli, io non avrei ricordi del nostro incontro qui sulla Piazza Rossa.» replicò.
«Non è detto. Non so. Come cazzo funzionano queste cose?» feci.
Lei si attaccò a una sigaretta.
Poi si girò e lanciò una risata leggera.
«Guarda!» disse.
Mi girai anch’io.
Eravamo davanti alla fiamma eterna. Un gruppo di soldati, coi colbacchi e i cappotti, camminava in modo marziale, reggendo Ak-74 dalle baionette inastate.
E la pioggia si tramutò in neve.
«Che bello!» dissi. Era vero: era bellissimo. Essere a Mosca, sulla Piazza Rossa, in inverno mentre cade la neve al cambio della guardia.
Allora mi misi a cantare adagio:
«Nje slishni v sadu daje shorochi… »
Era “Mezzanotte a Mosca”.
«Vsjo sdes zamnrlo do utro… »
e la sua voce s’aggiunse alla mia,
«Jesli znali vy, kak mnje doroghi... »
e noi due insieme:
«Podmoskovnjie vjechera!»
Lontano, all’orizzonte, vidi brillare le cupole dorate della cattedrale di Cristo il Salvatore.
FINE
FINE
Letto e apprezzato. Il rapporto tra il protagonista e quella stronzetta di Sniega si fa complicato e interessante.
RispondiEliminaE' solo una mia opinione, ma secondo me le frasi in russo dopo un po' stufano, se l'avessi scritto io avrei indicato all'inizio che stavano parlando in russo e poi le avrei messe in italiano.
Mi piace anche che non sia una storia d'azione, una vicenda di supereroi in senso stretto, ma il racconto di uno strano rapporto d'amore/odio basato su un superpotere. Interessante e degno di essere sviluppato al meglio.
Mi sembra però che ci sia un'incongruenza: nel racconto precedente non avevi detto che se lui, nel passato, impediva un omicidio, nel presente l'omicidio è comunque già avvenuto? lo dimostra il fatto che Sniega ha seppellito il suo cadavere... Questo indicherebbe che le sue visite nel passato creino un universo parallelo, o qualcosa così. Qui, invece, quando incontra Sniega nel passato poi il suo alter ego presente se lo ricorda. Mi sfugge qualcosa?
In attesa del seguito... :-)
Spasibo Moro! Sì, la chiave - o una delle chiavi - è il loro rapporto. Sniega Sniega, non so se vorrei mettermi con una così - se fossi Flavio Rainman - donna bellissima, certo, ma catalizzatore di interrogativi.
EliminaPer le frasi in russo mi sa che hai ragione. Magari bastava mettere "dve moroshnaja", per dare l'accento alla scena dei coni gelato e via. Adesso ci penso bene.
Per quanto riguarda l'incongruenza, potrei risponderti citando Rainman: "«Non è detto. Non so. Come cazzo funzionano queste cose?»"
o potrei chiederti: «Siamo sicuri che Sniega dica la verità?»
Ma invece è un buco di sceneggiatura. Però, facendomelo notare - ed ecco perché il tuo genere di commento è sempre prezioso - mi hai dato un sacco di idee.
Per il crossover con lo Scorpione hai qualche idea?
Se vuoi su twitter ho messo il link alla canzone che cantano loro due. Sono MarcyNicolini.
Per il crossover, non ci ho ancora pensato. Sto scrivendo un altro racconto, e tra quello e organizzare il matrimonio non ho molto tempo... ne riparliamo quando torno dal viaggio di nozze, mi sa! :-)
EliminaHey! Ci mancherebbe! Allora comincio a farti gli auguri! :)
Eliminagrazie!
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