1
Conan fu distratto dallo sbattere di una porta.
Apparve un prete di Mitra dal monastero sulla strada per Numalia. Il suo incedere rapido e le sue vesti pratiche facevano da contrappunto all’opulenza dei nemediani, al fasto delle loro ville e alle acconciature stravaganti delle donne. Il prete venne raggiunto da un sergente e due guardie. Era notte e i fuochi della festa di primavera ardevano senza posa per le strade, mentre vagabondi e saltimbanchi facevano i loro numeri attirando capannelli di curiosi. Conan, sfruttando la temporanea assenza di coprifuoco, aveva deciso di rapinare il monastero. Si diceva che l’abate Neid possedesse una collezione di uova di vetro. si diceva che alcune di quelle uova fossero addirittura di diamanti. Ce n’era poi una che i ladri di Numalia assicuravano essere ricavata da un unico diamante ed essere grande come un uovo di struzzo. Conan non aveva mai visto niente di simile, ma era lì per verificare. Se avessero detto il vero, i ladri si sarebbero meritati un giro di birra a spese sue.
Apparve un prete di Mitra dal monastero sulla strada per Numalia. Il suo incedere rapido e le sue vesti pratiche facevano da contrappunto all’opulenza dei nemediani, al fasto delle loro ville e alle acconciature stravaganti delle donne. Il prete venne raggiunto da un sergente e due guardie. Era notte e i fuochi della festa di primavera ardevano senza posa per le strade, mentre vagabondi e saltimbanchi facevano i loro numeri attirando capannelli di curiosi. Conan, sfruttando la temporanea assenza di coprifuoco, aveva deciso di rapinare il monastero. Si diceva che l’abate Neid possedesse una collezione di uova di vetro. si diceva che alcune di quelle uova fossero addirittura di diamanti. Ce n’era poi una che i ladri di Numalia assicuravano essere ricavata da un unico diamante ed essere grande come un uovo di struzzo. Conan non aveva mai visto niente di simile, ma era lì per verificare. Se avessero detto il vero, i ladri si sarebbero meritati un giro di birra a spese sue.
Non seppe che cosa, nel prete, riuscì a distoglierlo dai
suoi propositi, ma sentì l’impulso di seguirlo. E lo fece. Si tenne nell’ombra
o dove la folla era più concentrata: aveva indosso semplici abiti scuri, di
cuoio, molto pratici. Portava una sacca di cuoio, una daga e un minuscolo
coltello. Niente che non passasse inosservato quella notte.
Conan seguì il prete e le guardie sino a un edificio a due
piani, in legno e pietra, che aveva per insegna una donna che sussurra.
Riconobbe quel posto come la bettola gestita da una coppia di avventurieri
irascibili e strani. Lui, Rakir, era una specie di nano deforme mezzo vanir e
mezzo cromsolosacosa; lei, Padnye veniva da Brythunia e aveva due labbra rosse
su cui gli occhi di Conan si posavano parecchio.
Per il cimmero non fu difficile entrare ai “Sussurri” come
un qualsiasi avventore. La locanda era aperta e da dentro arrivava l’odore
d’arrosto e di birra calda e speziata. Conan si fece largo avendo cura di non incrociare
lo sguardo di nessuno. Era l’unico cimmero a Numalia e fra i ladri e i
grassatori c’era chi aveva ottima memoria. Qualcuno avrebbe potuto fare due più
due e mettere sul chi va là il prete, solo per lavorarselo con calma e lontano
dalle grinfie di Conan.
Il cimmero vide un paio di mercanti lì a prostitute e pensò
che potessero essere una preda facile. Non avevano i soldi dei Manevo o degli
Olir – le famiglie più ricche dei dintorni – né le loro guardie. Questi erano
soli e tracannavano vino o tastavano il sedere di schiave kushite.
Poi Conan sentì un urlo. Il prete accelerò il passo,
tallonato dalle guardie. Una donna si precipitò giù dalle scale urlando e
mettendosi le mani nei capelli. Aveva una chioma fulvo-dorata che ondeggiava
come mossa di vita propria. I seni e le labbra erano quelli di Padnye.
«Mio marito sta morendo!» urlò, prima di scoppiare in un
pianto. Conan corrugò la fronte. Quando mai quella gatta aveva versato una
lacrima? E quante volte gli aveva proposto una bella somma di danaro per
uccidere Rakir?
«Crom!» disse il cimmero, scuotendo la testa: sapeva di stare
per cacciarsi in una qualche maledetta situazione, ma era troppo curioso per
mollare il colpo. Si fece avanti e seguì il prete su per le scale.
«Dove vai?» la fredda lama di una spada gli si appoggiò al
petto; dietro di quella, gli occhi del sergente della guardia lo scrutavano.
«Conosco Padnye e Rakir. Posso dare una mano.» dichiarò il
cimmero.
«Sono io che conosco te!» disse il sergente, «ti ho già
visto coi rapinatori giù in città, sei quel maledetto cimmero … Conan … » e,
urlando il nome dell’altro, alzò la spada per colpire. Conan fu veloce come una
pantera: gli si fece sotto e gli sferrò due rapidi pugni al fianco. L’altro,
senza fiato, crollò al suolo. Conan si girò, fronteggiando le due guardie che
sopraggiungevano in aiuto.
«Fermi!» una voce di donna, imperiosa, lasciò le guardie con
la spada a mezz’aria. Conan pensò che neanche un incantesimo di uno stregone di
Stygia sarebbe stato capace di tanto. Si girò e vide Padnye in cima alla scala,
bella e sensuale come non mai. aveva sentito bene o Rakir stava morendo?
Le guardie, abbassando le spade, cominciarono a guardare ora
Padnye ora il cimmero, ora il sergente, steso a terra. Conan si girò verso di
loro e disse: «Aiutatelo!»
Un semplice comando. I due annuirono e uno addirittura
abbozzò un “sissignore”. Si precipitarono sul sergente, cercando di farlo
rinvenire.
Conan balzò sui gradini e fu accanto alla locandiera. In
quella, il prete usciva dalla stanza di Rakir con un’espressione temporalesca
sul viso. A rapidi passi, s’avvicinò a Padnye, dopodiché le sventolò sulla
faccia un fazzoletto sporco di una specie di succo violaceo.
«Sei stata tu?» chiese, con una specie di ruggito.
A Conan bastò annusare: aveva già sentito quell’odore nella
giungla e non poteva non essere che succo di mela di Derketo. Derketo era la
dea della morte dei popoli neri e quelle mele il suo frutto. Se ingerite, se
bevuto il succo, uccidevano più o meno all’istante.
I suoi occhi corsero su Padnye e la sua mano le strinse il
polso:
«Dove te la sei procurata una mela di Derketo?» domandò
Conan.
La donna scoppiò in lacrime. Conan guardò il prete e disse:
«Dev’essere una dose minima, o Rakir sarebbe già morto.»
«Penso anch’io … ma voglio sapere dove una strega del genere
tiene le mele della morte.» disse il prete.
Conan lasciò il polso a Padnye e si precipitò nella stanza
che ella condivideva con il marito.
Rakir era sul letto e aveva la faccia bianca. La camera
puzzava di piscio e di vomito e sapeva di incuria profonda.
«Chi c’è?» domandò Rakir.
«Conan.» disse il cimmero.
«Maledetto! Ce l’hai fatta a prenderti mia moglie, eh? Mi
avete avvelenato! Tu e quella strega!» con la voce arrochita, Rakir cercò di
urlare, ma non ci riuscì.
«Ti sbagli.» disse Conan, «se ti avessi voluto uccidere
saresti morto. sono qui per darti una mano, invece. Tua moglie t’ha fatto bere
alcune gocce di succo di mela di Derketo.»
«Maledetta!» sbottò Rakir, «nei barili! Controllate i
barili!» disse, mentre un conato di vomito lo afferrava e lo faceva contorcere
sul letto.
Conan uscì e si vide venire incontro il prete.
«In cantina, dove tengono i barili.» disse il cimmero.
L’altro annuì e cominciò a scendere.
A metà strada Conan si fermò e alzò la testa di scatto come
un animale selvaggio. Aveva sentito un’esplosione. il prete s’avvide di ciò e
disse: «Una diavoleria orientale: una polvere che esplode.»
«La usano per i festeggiamenti.» aggiunse.
Conan non proferì parola, ma registrò l’informazione.
Le scale per la cantina erano in pietra e affondavano nelle
viscere della terra.
Si diceva che la locanda dei Sussurri sorgesse su un altare
dove un mago aveva officiato i suoi riti. Ma si diceva anche che l’abate Neid
fosse un demone degli inferi travestito da uomo. A Conan non era mai capitato
di vedere una creatura maligna travestita da grassone canuto amante di uova di
vetro. e poi l’abate non puzzava affatto da demone.
Dunque il cimmero scese, vincendo l’istintiva repulsione per
tutto ciò che avesse a che fare con la magia e gli stregoni.
La cantina era rischiarata dalla luce di una torcia nelle
mani del prete. Conan vide due barili addossati alla parete opposta di quella
su cui s’aprivano le scale.
Il prete passò la torcia sul barile di sinistra, si sporse, fece
scattare la testa all’indietro, guardò Conan e disse: «Credo d’averla trovata.»
Il cimmero s’accostò al religioso e gli strappò la torcia di
mano. Si chinò a guardare. Sul fondo del barile c’era una specie di frutto
rinsecchito. Il barile era alto quanto un adolescente; per ghermire la mela,
Conan avrebbe dovuto far perno sul bacino e allungare il braccio o buttar giù
il barile.
Da quel che sapeva, le mele di Derketo – se quella era una mela di Derketo – si potevano
afferrare a mani nude. Bastava non entrare in contatto col succo o sarebbe
stata morte certa. Un frutto simile avrebbe potuto fargli guadagnare almeno un
centinaio di pezzi d’argento al banco di Publio. Publio, che a tutti diceva
d’essere un avvocato, aveva una collezione di veleni enorme. Essendo una mela
di Derketo rara, Conan avrebbe potuto tirar su col prezzo, come aveva imparato
dai mercanti d’Argos e lasciar perdere le uova preziose del monastero. Afferrò
il bordo del barile e lo spinse.
E in quel momento, ci fu il caos.
Con un grido animalesco, il sergente si precipitò giù dalle
scale, spada in pugno. I suoi uomini lo tallonavano.
Il sergente urlò:
«Cane!» e, visto Conan, gli si gettò addosso. Il cimmero gli
scagliò contro il barile. Il sergente abbozzò un salto, sperando d’evitare il
proiettile. Il barile, rotolando, gli colpì il piede destro e arrestò la sua
corsa. Il sergente cadde in avanti e spinse Conan. Il cimmero barcollò e sbatté
contro il secondo barile. La torcia gli cadde di mano e finì dentro al barile.
Il sergente sbatté la faccia a terra, mentre Conan, con un mezzo giro su se
stesso, si levò d’impaccio.
Sguainò la daga. Il sergente urlò, girò sulla schiena e si
rimise in piedi. Poi dal barile partì una fiammata incredibile.
Il cimmero non poteva sapere che, dentro al barile, c’era
una scorta di quella polvere pirotecnica di cui il prete gli aveva accennato;
nondimeno capì che sarebbe stato meglio allontanarsi.
Il sergente si girò verso il barile e urlò. Il cimmero vide
il prete indietreggiare e lo sentì dire: «Sta per esplodere!»
Ciò confermava i suoi sospetti. Conan fece due passi in
avanti e afferrò il prete per il cappuccio; lo tirò con tutte le forze ed
entrambi caddero alla base delle scale. Le guardie, in piedi, scattarono in
avanti, verso il sergente.
E il barile esplose.
La potenza fu devastante: le tavole di legno si sconnessero
e schizzarono in aria. I chiodi furono sparati come proiettili. Uno colpì il
sergente alla gola, poco prima che la fiammata gli bruciasse gli abiti. Le
guardie furono travolte da una pioggia d’assi. Uno degli uomini si rialzò in
tempo per prendere un frammento di soffitto sulla testa.
Fumo e microscopici detriti ingolfarono la cantina.
Conan non vedeva niente. Sentì l’odore del sangue. Qualcuno
gemeva piano, forse le guardie o il sergente. Sperava almeno che il prete fosse
vivo o, ne era sicuro, i nemediani avrebbero dato la colpa a lui di tutto e
l’avrebbero sbattuto in prigione. I cimmeri erano creature troppo diverse
dall’uomo civile per risultare simpatici a qualcuno.
Da sopra, arrivò un vociare. Qualcuno imprecava, altri
invocavano Mitra.
Non erano voci amiche.
Conan si scosse e si alzò a sedere. Riconobbe la sagoma del
prete e ne tastò la gola. Le pulsazioni c’erano.
«Cosa è successo?» urlò una voce arrabbiata, da sopra.
«Per Mitra! Ho visto quel cimmero scendere col prete, poi il
sergente è corso giù a spada tratta!» disse un’altra voce.
Conan si alzò in piedi. La daga gli era caduta e alla
cintura aveva solo il coltello. Non era un’arma da guerra, ma nelle mani di un
uomo come lui sarebbe stato efficace come una lama d’Akbitana.
«Conan!» urlò Padnye. Il cimmero fece un passo e ingoiò una
boccata di fumo e pulviscolo. Gli venne un conato di vomito e sputò, portandosi
una mano alla gola. Barcollando, inciampò sul corpo di una delle guardie e
cadde in ginocchio. Col mignolo sentì qualcosa: un oggetto piccolo, ruvido. Si
abbassò, perché il fumo va sempre in alto. nel tratto sgombro vide la mela. Era
piccola e rinsecchita.
E letale.
Rakir non era ancora morto probabilmente perché Padnye gli
aveva dato solo una goccia di succo, di sicuro nella birra, visti i gusti del
nano.
Senza pensarci, afferrò la mela, la infilò nella sacca e si
mise a gattonare. Aveva sentito un refolo d’aria che gli portava un odore
insolito per la cantina: sapeva di umido e di tomba.
Quelli che erano di sopra non ci avrebbero messo molto a
prendere coraggio e a scendere a ucciderlo. Un uomo civile sarebbe tornato su per le scale, ma Conan
sentiva che la folla dei Sussurri lo avrebbe affrontato.
Perciò seguì l’odore di tomba. Vide una cosa carbonizzata,
che era il corpo del sergente e passò oltre.
C’erano detriti. Pezzi di muro formavano mucchi neri per le
fiamme.
Conan si procurò delle escoriazioni oltrepassandoli. Poi
cadde. Rotolò sulla schiena e colpì la roccia con la spalla destra. Tuttavia
non gridò, ma fece un debole grugnito.
Doveva essere in un altro livello della cantina, anzi,
probabilmente era fuori dalla cantina. Il pavimento era di roccia naturale,
come in una caverna. Il soffitto era basso e c’era solo un rivolo di fumo a
disturbare la visuale.
Da qui proveniva l’odore di tomba.
«Dov’è andato? Non si vede niente!» disse una voce alle sue
spalle.
«Ha ucciso il prete!» urlò un marinaio d’Argos.
Conan si fermò, appiattito sul pavimento, e rimase in
ascolto.
C’era Padnye con loro: quella strega avrebbe ucciso i
testimoni del suo misfatto. Se il prete di Mitra non era ancora morto, di
sicuro lo avrebbe ammazzato lei. Poi avrebbe chiamato le guardie e dato la
colpa a Conan. o ancora meglio, avrebbe messo una taglia sulla sua testa. Il
distretto di Sabina pullulava di briganti che non si sarebbero certo fatti
pregare per mettergli un pugnale in corpo.
Non gli restò che proseguire.
2
Il buio filtrava come un protoplasma nero dai riccioli di
fumo, invadendo ogni cosa. Per un po’, Conan si basò sull’olfatto. I cimmeri
vivono in un ambiente ostile e affinano i loro sensi come fanno le bestie, o
non vedrebbero una nuova alba.
Così egli si spostò strisciando, verso la sicurezza di un
muro di roccia alla sua destra. Quando gli occhi si furono abituati al buio,
Conan si alzò e proseguì.
Non aveva senso guardarsi alle spalle: il fumo avrebbe
bloccato per un po’ gli inseguitori. Se si fosse girato, la tenue luminescenza
che gravitava in cantina – data dal riverbero delle torce della sala comune –
gli avrebbe disturbato la visuale notturna.
Conan sguainò il coltello e proseguì.
Dopo alcuni passi, il terreno cominciò a digradare. Divenne
più regolare, segno che era stato plasmato dall’uomo. Conan pensò di trovarsi
davvero in una tomba. Doveva essere un complesso più antico della locanda, un
mondo che solo il muro della cantina aveva nascosto agli occhi dei ladri.
Chissà quali tesori e quali pericoli si celavano là sotto. Pensandoci, Conan ebbe
un brivido d’eccitazione.
Prima di trovarsi davanti un muro.
Dunque finiva tutto lì? S’era cacciato in una trappola? Doveva
esserci un’altra via d’uscita, glielo dicevano i suoi sensi. Forse sarebbe
bastato dare ascolto all’istinto e non farsi ingannare dagli occhi.
Sfiorò la superficie con le mani e col coltello. Sentì che
la pietra era liscia e scavata in più punti da piccoli solchi regolari.
Nicchie, come tante d’insetto.
La parete correva da un’estremità all’altra del passaggio.
Conan si chiese perché gli uomini si fossero dati tanta pena di scavare un
tunnel del genere per poi lasciarlo a metà. Forse le nicchie erano i risultati
dei colpi d’un piccone, ma ne dubitava.
Attraverso il tatto capì che i solchi butteravano ogni palmo
della parete. Poi sentì qualcosa: un refolo d’aria gelida sul piede sinistro.
Si chinò e tastò con la mano: sì! Aria correva da sotto la parete. Dunque si trattava d’un passaggio.
Sentì dei rumori alle spalle, si girò e per un attimo vide
il baluginare d’una torcia. poi udì la voce di Padnye.
«Sono sicura che c’è Conan dietro a tutto questo!» disse.
Era fatta: quella strega l’aveva messo in trappola.
Conan sfiorò il pavimento per tutta la lunghezza del
passaggio, ma non trovò niente. Poi si alzò, continuando a tastare.
C’era qualcosa, finalmente. Allungando il braccio, sentì le
dita scivolare in un solco regolare, ma diverso dai precedenti. Accanto ce
n’era un altro. Conan usò entrambe le mani, andando più in alto. ma i solchi
finirono. Tornò con le mani più giù e sentì i solchi. Provò ad andare da
sinistra a destra: i solchi continuavano, regolari e spigolosi.
S’interrompevano e riprendevano.
Forse la chiave era lì, in quelle scanalature misteriose. Un
altro uomo si sarebbe perso d’animo e avrebbe ceduto alla paura. Non Conan.
teneva alla sua vita e l’avrebbe difesa contro cento uomini se necessario.
Rimase lì, a tastare il muro, come se non ci fossero tagliagole che gli
volevano fare la pelle dietro di lui.
Pensò ai solchi regolari; se li vide fluire in testa.
Poi capì: lettere! erano lettere dell’alfabeto. Sapeva
abbastanza nemediano per capirne qualcosa di quella forma antica incisa sul
muro. Nella testa gli si formò una frase, diceva:
“Al principe Asor piaceva cacciare il piccolo drago”.
La chiave doveva essere lì dentro.
Pensò al principe Asor e al piccolo drago. Che diavolo era
un “piccolo drago”? poi tornò a sfiorare i solchi a forma di nicchia.
«Eccolo! Vedo la sua ombra!» sentì Padnye urlare. conan si
girò: due uomini stavano strisciando nel passaggio. Avevano torce e
coltellacci. I capelli lunghi, le cicatrici e gli orecchini d’oro dicevano
“marinai d’Argos”. Boriosi e stupidi, pensò Conan.
Si acquattò come una pantera e li lasciò avvicinare. Il suo
sorriso risplendette davanti alle loro facce. I due avanzarono piegati in
avanti, coi muscoli tesi. Conan li avrebbe ammazzati appena avessero fatto il
primo errore.
Uno volle guardare per terra: forse aveva paura d’inciampare
in qualche irregolarità del terreno. Il barbaro fu implacabile. Con un balzo
coprì la distanza che lo separava dall’argosiano e gli affondò il coltello
nella gola. Un fiotto caldo schizzò sul braccio di Conan, mentre già il
cadavere si contorceva negli spasmi della morte. L’altro uomo tentò un affondo.
La lama del coltellaccio sfregiò il cuoio di Conan, lasciando illesa la carne.
Il cimmero calò un tremendo pugno sull’orecchio al marinaio. Questi si
sbilanciò in avanti; Conan alzò il coltello e glielo piantò fra le scapole.
L’argosiano cadde con un gemito. Conan afferrò una torcia e
balzò verso la parete.
Ora vedeva chiaramente i solchi e la scritta. Fece un passo
indietro, esponendo le spalle ai suoi inseguitori. E capì.
Il piccolo drago era una costellazione, ben visibile nei
cieli di Numalia. Ogni solco rappresentava una stella. Un abbozzo del drago
cominciò a prendere forma nella testa del cimmero. Ma alcuni solchi erano come
fuori posto: non rappresentavano nessuna stella. Conan accostò il coltello alla
pietra e spinse. la lama affondò abbastanza facilmente per la profondità di
un’unghia.
Conan fece un altro passo indietro, inquadrò l’immagine
della costellazione, poi tornò alla parete e cominciò a unire i puntini.
Ecco le zampe del piccolo drago e l’occhio, formato dalla
Stella del Demone. Conan stava per finire, quando un delinquente nemediano fu
così cortese da regalargli un pugnale.
Aveva varcato il passaggio, spavaldo, ed estratto il
pugnale. A Conan era bastato fingere un attacco e inciampare a bella posta. Il
nemediano s’era avventato su di lui dall’alto. e Conan gli aveva bucato il
fianco due volte. Dopodiché, gli aveva spezzato il collo.
Il pugnale era proprio una buona arma: la veste di cuoio del
cimmero era squarciata all’altezza del cuore.
Conan se ne liberò alla svelta, afferrò la torcia e il
pugnale nemico.
«guardate!» urlò uno degli inseguitori. Conan aveva già
visto un passaggio aprirsi lentamente nella roccia. L’antico meccanismo aveva
fatto scivolare pietra su pietra, dando vita a una bocca d’oscurità.
Il cimmero scivolò dentro, mentre l’odore di antico ammorbava
il buio.
Le fiamme della torcia sdrucciolarono sopra una testa
belluina dai contorni scabri. Conan vide un paio d’ali ripiegate sul corpo.
Il demone era alto nove piedi e stava in ginocchio, col capo
chino. Era di pietra. La mano dello scultore doveva esser stata mossa da un
mente preda di allucinazioni per partorire un incubo del genere. Un incubo
dagli occhi umani, dal naso schiacciato e da mostruose branchie ai lati della
faccia. Un incubo la cui pelliccia era stata ricreata con una minuzia folle.
La statua riposava su un altare: un blocco di pietra
basaltica quadra, lucido e nero.
Conan sentì i peli sulla nuca rizzarsi. Il suo istinto gli
diceva di stare in guardia. strinse l’elsa del pugnale e avvertì un’onda di
sicurezza da quell’arma piccola e familiare. Poi il suo spirito pratico ebbe il
sopravvento. Con la torcia, cercò e trovò un’uscita. un passaggio, sul lato
opposto a quello da cui egli era giunto.
Poi sentì la voce di Padnye. E fece un errore.
Si girò, per vedere cosa stesse escogitando quella strega.
La vide ondeggiare dietro le fiamme della torcia, molto lontano, fra i coltellacci
e le spade degli inseguitori.
Quando tornò a guardare la statua vide l’altare vuoto.
Soffocò una bestemmia e si chinò, stringendo il pugnale.
Nella sua mente cominciò a prendere forma un’ipotesi
assurda. Un altro uomo avrebbe scartato il fatto che la statua potesse
animarsi, ma Conan, che conosceva i trucchi degli stregoni, non si stupì più di
tanto. E si preparò all’azione.
Il demone gli scivolò di fianco come un’ombra semi-intuita,
ai margini del frastagliato globo di luce della torcia. avanzava come un gatto,
adagio, col muso rivolto al cimmero. Gli occhi erano due pozze di bile senza
fine e lasciavano una lieve traccia al buio. Un odore di pelle di crotalo si
diffuse nell’ambiente angusto e colpì Conan, facendogli arricciare il naso. Il
cimmero non si mosse, né diede segno d’aver visto la creatura. Il calore della
torcia lo faceva sudare e lo rendeva troppo visibile, ma allo stesso tempo,
disturbava la visione notturna del demone. Una goccia di sudore slittò sui
pettorali di Conan, rimanendovi appesa. La goccia, sempre più grossa, ruppe la
tensione superficiale e cadde nel vuoto.
Plic.
Il demone mandò uno gnaulo assordante e spiccò il balzo.
Conan si lanciò in avanti: sentì l’alito caldo del mostro e fece una capriola. Gli
passò sotto le gambe e si rialzò. La lama del pugnale graffiò la schiena del
demone. Conan aveva tentato un affondo mettendoci tutta la propria forza, ma
l’acciaio era scivolato sulla schiena della bestia come fosse di pietra!
Il demone si girò, con le fauci spalancate. Aveva zanne
candide e lunghe quanto il piede del cimmero. Conan alzò il braccio che reggeva
la torcia. il mostro chiuse le fauci e troncò di netto la torcia. ingoiò il
fuoco. E uccise la luce.
Il cimmero era solo, nell’oscurità. Vedeva il demone
seguendone il tenue bagliore degli occhi.
Quell’essere doveva stare a guardia di qualcosa, forse
proprio dell’altare. O della stanza. Era di pietra eppure si muoveva come fosse
di carne.
Al cimmero venne un’idea. Valeva la pena di tentare.
Indietreggiò, fino a trovarsi sulla soglia della porta
segreta. Gettando un rapido sguardo alle spalle, vide che gli inseguitori
s’erano attestati nella cantina, ma non andavano oltre.
Bene.
Conan uscì dalla stanza, tenendo fissi gli occhi sul demone.
La torcia di uno dei due argosiani morti ardeva ancora
debolmente. Conan la prese e la mosse, ravvivando le fiamme. La puntò contro il
demone.
Esso era tornato sull’altare, nella posizione iniziale.
Dunque, se si entrava nella stanza, la statua prendeva vita; se se ne usciva,
tornava di pietra.
Conan non aveva idea da che mondo venisse la creatura, se
fosse viva o imitasse solo la vita. Ma
aveva sentito il suo alito, il ché vuol dire “respiro”. e i morti non
respirano.
Perciò decise di rischiare. Certo, avrebbe potuto voltarle
le spalle e aprirsi un varco fra i nemici, ma pensò che quella bestia celasse
un tesoro. Forse dietro l’altare.
Perciò aprì la sacca di pelle e afferrò la mela; col
pugnale, praticò un’incisione sulla buccia, dopodiché gettò la torcia. stando
ben attento di prendere la mela dalla parte asciutta – alcune gocce di succo
erano colate a terra dal taglio – lasciò che gli occhi si abituassero di nuovo
al buio.
Ed entrò nella stanza.
La bestia fece tremare le pareti con il suo ringhio. E Conan
usò il braccio come una catapulta, scagliando la mela.
Sentì il rumore di un risucchio e il clac delle mascelle che
si chiudevano di scatto.
Poi qualcosa di buio si lanciò verso di lui. Conan rotolò di
lato, mentre la bestia morente, come un proiettile, usciva dalla stanza.
La pelle del mostro divenne di pietra appena varcata la
soglia. Bloccato dal peso improvviso, il balzo s’arrestò. La creatura cadde di
schianto alla base del passaggio. Un braccio si staccò. Il muso da babbuino si
ruppe in pezzi.
Il cimmero non attese oltre: scattò verso l’altare e
s’inginocchiò. Poi sentì un leggero rumore alle spalle. Si rannicchiò e attese,
al buio.
Ancora. Era una specie di fruscio. Proveniva dall’altra
parte del passaggio.
Stringendo il pugnale, Conan si staccò dalla pietra nera e
scivolò verso il rumore. Doveva conoscere l’esatta natura del pericolo – se
tale – che gli si celava alle spalle. Avrebbe pensato dopo al tesoro.
Rinculò e si girò.
Si mise a strisciare fino a ché il passaggio non divenne più
tetro.
C’era qualcosa che brillava, fioco come gli occhi del
demone. Era a terra, a circa, giudicò Conan, diedi passi.
Il cimmero si avvicinò. La cosa per terra era un uovo grande
come la sua mano. aveva mille sfaccettature ed era trasparente come vetro … o
diamante. Ciò gli fece pensare all’abate Neid e al motivo per cui tutto quello
era iniziato.
Più in là vide due gambe spuntare dal muro. Erano a destra,
rispetto a lui.
Conan si appiattì e attese.
Non sapeva esattamente cosa, ma capiva di dover rimanere
fermo. Chi aveva prodotto il fruscio non era il cadavere, tantomeno l’uovo.
Poi, lontana, vide una sagoma gibbosa oscurargli la visuale.
L’essere, qualsiasi cosa fosse, era troppo lontano perché Conan ne comprendesse
la natura. Il cimmero strinse il pugnale e rimase fermo.
Solo dopo tempo si concesse di chiudere la mano attorno
all’uovo e anche allora, fece passare altri minuti prima di alzarsi e dare un
occhio al cadavere.
Era sicuro che la cosa frusciante se ne fosse andata.
Del cadavere non distinse molto con gli occhi, ma al tatto
sentì una traccia umida sul pavimento. La seguì, uscendo dalla nicchia in cui
aveva trovato il morto e risalendo il passaggio di qualche metro. Verso dove
era sparita la cosa gibbosa.
Si fece l’immagine mentale dell’essere deforme che
trascinava sottoterra il morto. Dalle tasche del morto cadeva l’uovo.
Ma perché l’essere frusciante aveva abbandonato il cadavere
e l’uovo?
Era successo subito dopo la morte del demone. Forse la
creatura aveva lì la sua tana, nella nicchia, e ci stava al sicuro anche per
via del demone. A nessuno sarebbe venuto in testa di disturbarla, con un simile
guardiano appollaiato nell’altra stanza.
Fino a ché non era arrivato Conan.
Il cimmero corrugò la fronte e fece scivolare l’uovo dentro
la sacca di pelle.
Poi decise di rimanere lì, nella nicchia, accanto al
cadavere pensando sul da farsi,
finché …
Sto cercando in rete fan-fiction su Conan il Cimmero, ma non trovo granché (forse qualcuno di voi ragazzi mi può aiutare).
RispondiEliminaIntanto vi metto il link a questo sito di fan-fiction in inglese su Conan!
Eh, in inglese di roba su Conan (manco a dirlo!) ce n'è tantissima!
http://ultimateconanfan.blogspot.it/2010/02/more-conan-fan-fiction.html
Saludos!