Su da Valle Renia, l’aria
odorosa di terra e gli sgorbi di vapore che s’alzano dai quarti dei muli; lo
sferraglio dell’armatura e degli strumenti legati alla groppa.
Nell’aria gelida che finge
inverno, i piedi di Andrea raschiarono la terra e il suo sguardo si posò sul
viola delle prime campanule e sul rosso degli steli d’erba ancor bruciati dal
freddo.
La schiena di Niccolò
della Torraccia era coperta da un mantello e divisa da una spada infoderata. La
testa era nascosta dalla cuffia sporca e una lancia enorme scandiva il passo, a
mo’ di bastone.
Nella nebbia, come lamenti
dei morti, belati di pecore scivolarono flebili sulle ossa della terra,
raggiungendo Andrea in quella specie di sonno che consumava in piedi.
Un picchio tambureggiò sul
tronco d’un acero enorme, lasciando impassibile Niccolò e attirando
l’attenzione di Andrea.
«Quanto ancora, gran siniore?»
domandò Andrea, inspirando nebbia.
Niccolò puntò la lancia.
«Trovasi colà la Torraccia, frate. Domus
mea.»
Come evocata, essa spuntò
dai nodi di bruma. Era alta e sbreccata: a forma di corna di diavolo. Stava al
margine più orientale di Valle Renia.
«Lo ultimo territorio
cristiano.» disse Niccolò.
Poi rimase in silenzio per
lungo tempo.