Su da Valle Renia, l’aria
odorosa di terra e gli sgorbi di vapore che s’alzano dai quarti dei muli; lo
sferraglio dell’armatura e degli strumenti legati alla groppa.
Nell’aria gelida che finge
inverno, i piedi di Andrea raschiarono la terra e il suo sguardo si posò sul
viola delle prime campanule e sul rosso degli steli d’erba ancor bruciati dal
freddo.
La schiena di Niccolò
della Torraccia era coperta da un mantello e divisa da una spada infoderata. La
testa era nascosta dalla cuffia sporca e una lancia enorme scandiva il passo, a
mo’ di bastone.
Nella nebbia, come lamenti
dei morti, belati di pecore scivolarono flebili sulle ossa della terra,
raggiungendo Andrea in quella specie di sonno che consumava in piedi.
Un picchio tambureggiò sul
tronco d’un acero enorme, lasciando impassibile Niccolò e attirando
l’attenzione di Andrea.
«Quanto ancora, gran siniore?»
domandò Andrea, inspirando nebbia.
Niccolò puntò la lancia.
«Trovasi colà la Torraccia, frate. Domus
mea.»
Come evocata, essa spuntò
dai nodi di bruma. Era alta e sbreccata: a forma di corna di diavolo. Stava al
margine più orientale di Valle Renia.
«Lo ultimo territorio
cristiano.» disse Niccolò.
Poi rimase in silenzio per
lungo tempo.
Cominciarono a salire e in
alcuni punti dovettero tirare i muli. Il più grosso era anche il più
recalcitrante e sferragliava a ogni metro con l’armatura sulla groppa. Pure, di
quando in quando, giungevano alle orecchie dei due ancora belati di pecora.
Presso un ampio pascolo, si
fermarono a mangiare. Andrea, seduto su una roccia, circondato d’erba ora verde
ora color rame, rivolgeva il viso ai timidi raggi d’un sole di fango, sporcato
ancor più dalla nebbia che calava come un esercito di spettri dall’altopiano.
Nondimeno, egli cominciò a
pensare a cosa avrebbe scritto e consegnato all’abate.
“Nello secondo anno della
sinioria de’ Colonna, di Roma capitani, nelle terre di Valle e di Renia, dalle
pendici de’ pascoli, il siniore nobile Niccolò della Torraccia e lo umile frate
Andrea diedero principio alla perigliosa ascesa in quegli inferi montani per
recare lo Verbo di Dio con la spada e la lancia…”
Niccolò cacciò un urlo e
riprese la cavezza del mulo. Andrea osò quasi sbuffare: s’era appena seduto e
aveva ingoiato un piccolo boccone di formaggio, che già quello scalpitava per
continuare. Non gli restò che alzarsi, tirar su il cappuccio, riprendere il
ramo d’albero che usava come un bastone e salire.
I muli conoscevano la
strada degli alti pascoli e prendevano sentieri di fango ed erba tenera. Mano a
mano che continuava l’ascesa, l’umore di Andrea andava migliorando.
Sopra c’è la morte, forse,
c’è il dolore, ma tutto questo è preferibile a ciò che mi lascio dietro, pensò.
Che vita era laggiù al
monastero di Valle? Andrea stava come una gallina ultima nell’ordine di
beccata. Era in balìa delle trame dei priori, degli inganni degli abati. Subiva
le angherie del cuoco, del medico, persino del fratello portinaio. Gli si
attaccavano al collo, succhiandogli gioia, ancor più perché Andrea era il
secondo figlio d’un cugino del nobile Spada, patrizio romano della risma dei
Colonna.
Cercò di scacciare il
sonno, puntò il bastone, fece un passo.
“Nello secondo anno della
sinioria de’ Colonna, nelle terre di Valle e di Renia…”
Già al tempo in cui gli
ernici avevano eretto un oppidum, si
parlava degli spiriti urlanti dell’altopiano. Scivolando come ombre, calavano
sui pascoli e rapivano le pecore.
Poi, quando la longa manus di Roma raggiunse quei
luoghi, i cesari costruirono delle mura e delle torri.
La Torraccia era l’ultima
vestigia di Roma lassù.
Colto dal grido di un
falco, Andrea aveva occhi solo per il cielo oscuro di nebbia. Il freddo gli
s’imperlò sul viso come goccioline e i capelli gli s’appiccicarono alla fronte.
Niccolò era in ginocchio e
picchiava la lama di un’ascia per terra. Brevi e rapidi colpi. Tirò su un
oggetto lungo e scuro.
«Merda dello draco.»
disse.
Avevano lasciato i muli al
limite estremo dei pascoli, sicuri che essi sarebbero tornati indietro per la
strada a loro cognita. Ora, carichi del fardello delle armi, Andrea e Niccolò
s’arrampicavano sulla roccia e percorrevano lunghi tratti a piedi.
Niccolò si diede allo
studio del pezzo di merda che aveva in mano per qualche momento, prima di
gettarlo e rialzarsi.
Continuarono l’ascesa,
incrociando l’ombra di un mastodontico sorbo che pareva teso verso la valle.
Andrea ne tastò la
corteccia e si vide i polpastrelli sporchi di fuliggine. Le bacche rosse
sembravano brillare a un raggio di sole.
Niccolò era già avanti.
Esaminava un’ombra nera sulla roccia più in alto, senza dire nulla.
Andrea diede una pacca al
sorbo e gli sorrise.
Mi prenderebbero per pazzo
se sapessero, ma preferisco stare qui, lontano dagli uomini, nel gelo e
nell’incertezza del Creato, piuttosto che al sicuro, nella logorante e lenta
morte di Valle Renia, pensò.
Il sorbo fu l’ultimo
essere vegetale che incontrarono. Più avanti fu un’ascesa di roccia, di
ghiaccio liscio e color ferro.
Cos’è la vita, se non un
vagolare nella nebbia guardando sempre le stesse quattro mura?, pensò Andrea.
Forse, il fuoco d’una
bestia sputa-fiamme gli avrebbe mondato lo spirito e i pensieri.
Dopo il sorbo
s’arrampicarono su una parete a picco. Andrea aveva, davanti al naso,
l’armatura e le armi di Niccolò che pendevano da una rete di corde legata alla
vita dell’uomo. L’acciaio, colpito dai raggi del sole, brillò.
Più su, secchi colpi
d’ascia di Niccolò portarono ai loro sguardi una carcassa congelata.
«Essa è pecura de’
montania.»
Poi udirono un belato.
Dovevano esserci altre capre da qualche parte, abbarbicate alle rocce.
La nebbia tornò a calare
come un manto sui due e sui loro passi.
«Là!» disse Niccolò.
Rigagnoli di bruma
s’affastellavano attorno a una conca, sul fondo della quale s’apriva una
caverna.
No, non voglio tornare
alle cose umane! Preferirei finire in bocca al drago, pensò Andrea.
Non aveva mai avuto
coraggio nella vita, né spirito d’iniziativa. S’era sempre limitato a seguire
le istruzioni di qualcuno e ricalcare passi d’altri.
Ora, pur di evitare il
primo in una nuova direzione, il primo doloroso passo, seguiva Niccolò e
cercava la morte.
Il fumo oleoso della
torcia srotolò le sue spire verso il soffitto della caverna.
Un refolo d’aria lasciò
danzare la fiamma. «Esso è uno altro pertugio d’uscita.» disse Niccolò.
Poi, flebile, s’udì un
belato.
Andrea sentì odore di
sterco, di capra e qualcos’altro che non riusciva a definire. Forse è puzza di
drago, pensò.
La roccia era segnata
dalle sue unghie e annerita dal fuoco.
Niccolò procedette nella caverna.
Era ormai ingarbugliato nell’acciaio dell’armatura e aveva la spada estratta.
Andrea lo seguì, pronto a porgergli la lancia o l’ascia.
L’enorme scudo pendeva
dalla schiena di Niccolò e sbatteva contro le parti dell’armatura.
Adagio avanzarono.
Giunsero a una camera
interna, dove un cerchio di pietre giaceva nel mezzo. Il soffitto era annerito
dal fuoco e il pavimento, costellato d’ossa.
Si camminava letteralmente
sulle ossa e le si spaccava con schiocchi forti.
Niccolò fece ondeggiare la
torcia, scrutando il buio.
Il belato giunse alle loro
spalle e una corrente d’aria fece danzare la fiamma della torcia.
Andrea si girò. Davanti a
lui c’era una specie di testa di cavallo lunga e irta di spine e di scaglie. La
bocca piena di denti, la pelle verde e gli occhi gialli e grandi da vipera.
Dalle fauci del drago,
aperte, uscì il belato d’una pecora.
E cos’erano, adesso, i
problemi al monastero, l’ordine di beccata, la mancanza di coraggio, la vita in
una rete di nebbia, la gelida primavera?
Il drago belò ancora, prima di ruggire.
Ho scritto questo racconto per unire due cose che mi stanno a cuore: i draghi (i draghi verosimili, spiegati scientificamente) e le città inventate poste in luoghi reali, come Valle Renia. Proprio Valle Renia, di Daniele Imperi, ho voluto dipingere (lo so, ha poco spazio nel racconto) per darle un pezzettino di storia.
RispondiEliminaHo chiesto il permesso all'inventore, prima :)
Spero gli piaccia.
Saludos!
Ben scritto, Marcello, anche la riproduzione del linguaggio antico. Un bel pezzo di storia medieval-fantastica di Valle Renia. :)
RispondiEliminaMagari scrivo un racconto ambientato in un'altra epoca, ma in cui sono presenti, in qualche modo, sia la rocca sia il drago, linkando poi questo tuo racconto. Che ne pensi?
Grazie Daniele!
EliminaSì, sarebbe bellissimo un altro racconto! Io ho utilizzato un pochino Valle Renia perché, siccome mi sono piaciuti i consigli sul tuo articolo e mi è piaciuta anche la Valle Renia che hai inventato tu, le volevo rendere omaggio.
Adesso non vedo l'ora di vedere altre sfaccettature di questa città immaginaria, quindi aspetto!
Saludos!