giovedì 29 maggio 2014

L'anniversario - Tante storie di fantascienza





L’apocalisse zombie iniziò quando uno scienziato in California mischiò il virus della rabbia a un polpettone che aveva da giorni in frigo e diede da mangiare tutto al gorilla del laboratorio. Dopo qualche ora, il gorilla cominciò a piangere sangue, morì e resuscitò zombie. Lo scienziato, invece di tenerlo al sicuro in una cella, fece una cosa idiota, tipo insegnargli la matematica. Il gorilla-zombie di matematica non capì nulla e morse lo scienziato al braccio. «Piango sangue e vorrei mangiare i miei figli.» lo scienziato cercò di ignorare i sintomi per qualche ora, poi andò all’ospedale, e il dottore lo fece sedere su una sedia. «Lei ha poco controllo motorio, interessante.» disse il dottore, compilando un documento a caselline prestampate. «Dunque, apra la bocca e dica “aaaaaaah”» lo zombie aprì la bocca e mangiò l’abbassalingua e il braccio del dottore. Il dottore cominciò a girare per tutto l’ospedale, graffiando, mordendo e vomitando sangue infetto su medici e pazienti.
Qualche giorno dopo, sul Daily Times leggemmo le rassicurazioni del governo. Poi ci fu l’edizione straordinaria e leggemmo “Siete fottuti!”.

I colleghi dell’idiota del polpettone avevano pure classificato lo zombie come individuo affetto da CDHD, Consciousness Deficit Hypoactivity Disorder. Questa malattia produceva la perdita del comportamento cosciente e volontario rimpiazzato da aggressività impulsiva, attenzione attratta da stimoli, inabilità di coordinare comportamenti linguistico-motori e insaziabile appetito di carne umana.
Gli zombie si muovono adagio a causa del danneggiamento del cervelletto, che provoca una grave atassia. Hanno memoria cortissima, a causa del danneggiamento dell’ippocampo. La loro corteccia parietale è inattiva, perciò non sentono il dolore. La corteccia parietale posteriore è danneggiata e provoca, nello zombie, una difficoltà di coordinazione dei movimenti mano-occhio, inabilità di mettere a fuoco un qualsiasi punto e di percepire più di un oggetto alla volta.
«Allora, sono armato con un MP5, che ha cadenza di fuoco 800 pallottole al minuto. Ogni caricatore ha trenta cartucce. E davanti a noi ci sono venti zombie. Impiego quattro secondi per ricaricare e ho una precisone di mira diciamo del 70%. Quanto tempo mi ci vuole a fare fuori i venti zombie?»
«Numero uno: doppio colpo per sicurezza. Ficca sempre due pallottole nella testa del tuo zombie. Perciò devi colpire quaranta volte e, con la tua precisione, sprecherai 57,1 pallottole. Arrotondiamo per eccesso e si va a 58. Il primo caricatore lo fai fuori in 2,25 secondi. Una ricarica, 4 secondi. Le 28 pallottole restanti vanno via in altri 2,10 secondi. In 8,35 secondi avrai fatto fuori tutti i bastardi.»
C’è da dire che Avalon non piangeva più con le cuffie da martello pneumatico che avevamo recuperato. Ai lati del suo passeggino ci avevo messo un Benelli carico e un leggerissimo AR-15 in acrilonitrile butadiene stirene dipinto giallo sabbia opaco, con caricatore a tamburo, calcio collassabile e motosega elettrica. Mentre guardava Mamma e Papà all’opera, Avvy ricaricava la batteria della motosega tramite un cavetto USB collegato alla maschera-respiratore di plastica che le copriva bocca e naso.
«Dovrei aumentare la precisione così da sprecare meno pallottole.» dissi, mentre rientravamo in casa. Che poi era l’armeria. La nostra vera casa si trovava più giù, lungo la collina ed era un blocco di cemento liscio e grigio, che si apriva al tocco del mio telecomando.
Da fuori, la casa-armeria sembrava una grossa pila di tronchi, ma dentro, Amber e io l’avevamo arredata con un divano-letto a chaise-longue, un mobile pieno di cibo non deperibile e armi. La luce ce la dava una bottiglia di Coca-Cola da un litro e mezzo riempita d’acqua e candeggina e conficcata al soffitto. Rifletteva e rinfrangeva la luce del sole illuminando casa come una lampadina da 55 watt.
Ci eravamo spostati lì dal Kansas all’inizio dell’apocalisse, seguendo la mappa di Madison Spears apparsa sul Daily Times e intitolata “Gli Stati Zombie d’America – dov’è più sicuro abitare”. Dicevano che la California era il luogo più sicuro, mentre il Kansas era al trentottesimo posto. Amber sarebbe voluta andare in Florida, ma era in California che avevo la casa grande e quella piccola. Credo che il Times avesse stilato quella classifica incrociando i chilometri quadrati, la popolazione, le armerie, gli ospedali, le basi militari e i centri commerciali d’ogni singolo stato.
Da buoni esperti di sopravvivenza, ci eravamo tenuti lontani dalle centrali chimiche, da quelle nucleari e da quelle di gas liquido. Sapevamo che, con lo spegnersi delle centrali elettriche e idroelettriche, i gas – che avevano bisogno di temperature bassissime per rimanere in forma liquida – sarebbero fuoriusciti dalle valvole dei contenitori, avvelenando l’aria. Ero sicuro che, in molte parti d’America, i sopravvissuti stessero crepando anche per quei gas. Per non parlare delle esplosioni che, dal secondo giorno dell’apocalisse, avevamo iniziato a sentire. I gas dovevano aver raggiunto le automobili abbandonate. Bastava una scintilla a innescare i fuochi d’artificio.
Era stata Amber a prevedere il problema delle radiazioni. Senza più tecnici, le vasche di carburante nucleare usato s’erano messe a bollire, a causa della mancanza di sistema di raffreddamento. I vapori radioattivi avevano trovato sfogo nell’atmosfera. Il carburante aveva generato la combustione spontanea degli edifici presso le centrali nucleari, causando esplosioni, e emettendo radiazioni non solo nelle vicinanze, ma anche a chilometri e chilometri, a causa dei venti. E questo accadde dozzine e dozzine di volte, man mano che le centrali e i siti di stoccaggio esplodevano. Nubi radioattive avevano solcato il cielo, avevano bagnato la terra di pioggia e avvelenato le colture e i piccoli animali. Ero sicuro – e ne ebbi la conferma mesi dopo – che quelli più grossi si fossero salvati a causa della mancanza di cibo, che li aveva costretti ad allontanarsi dalla zona radioattiva.
Era stata proprio una migrazione di massa dei cervi dalla coda bianca ad avvertirci di quegli zombie. Fino a due giorni prima bighellonavano nei dintorni e poi, spariti! Così avevamo avuto il tempo per prepararci. Devo dire che per noi animalisti e survivalisti, l’apocalisse zombie era un toccasana. Potevamo fare fuori quei figli di puttana senza che ci sbattessero in galera. E poi la popolazione animale aumentava, senza l’intervento distruttore dell’uomo.
Un anno dopo l’inizio dell’apocalisse, le piogge primaverili avevano spazzato via le particelle radioattive dalla superficie e le avevano spinte ancora di più in profondità, ripulendo piange e oggetti. Poi, le piante cresciute nel frattempo avevano rimosso la CO2 artificiale nell’atmosfera.
Secondo il mio orologio meccanico da polso, era passato un anno esatto dall’inizio dell’apocalisse. A causa della mancanza d’elettricità, non avevamo più internet, né rete cellulare.  Avalon aveva quasi due anni ed era una bambina bionda e vivace.
«Condoooorrr!» trillò, quando iniziammo a sentire il bosco riempirsi di versi d’uccelli. «Su, andiamo a vederli!» propose Amber. Era tanto che non le facevo un bel regalo e poi capitava a fagiolo. Perciò uscimmo di nuovo sul terrazzo e ci godemmo lo spettacolo.
Uno stormo d’avvoltoi collorosso s’era radunato a terra e staccava pezzi di carne dagli zombie. Fra di loro, sul corpo di quello zombie ciccione che avevo abbattuto, ecco l’enorme condor californiano. Tre metri d’apertura alare. Quello era capace di portarsi via quarti di zombie interi per mangiarseli da un’altra parte.
«Dovrò pulire i pannelli solari…» dissi, guardando verso la casa. Nel corso delle loro visite, gli uccelli li avevano riempiti di cacca e, quando caga un corvo è una cosa, ma proviamo a pensare allo schizzo di un condor californiano…
«Passiamo la notte qui?» domandò Amber. «Sì. Lasciamogli finire il pasto o ci attaccheranno. Sai come sono diventati, da qualche tempo. E poi li stiamo sfruttando come allarme per altri zombie o bestie selvatiche.» dissi. Lei sorrise e si chinò a togliere la mascherina ad Avvy. La batteria della motosega era carica.
Con una cassa di birre e tre sdraio, ci godemmo lo spettacolo del tramonto sulle montagne. «Ah, quanto vorrei una birra ghiacciata!» disse Amber. «Dovremmo collegare questo posto al generatore di casa nostra, che dici?» propose. «È un lavoraccio, ma si può fare. Ecco che ne arrivano altri.» dissi. Gli avvoltoi erano parecchio incazzati all’apparire di un piccolo gruppo di non morti. Il condor non fece neanche il gesto di spostarsi dal suo pasto fino a che gli zombi non furono vicini. Si alzò, pigro e sparì oltre le cime degli alberi. Speravo che non gli venisse in testa di posarsi sui pannelli del tetto di casa mia… o di cacarci addosso. «Che cazzo! Volevo fare almeno uno schema di parole crociate…» disse Amber, scendendo di sotto. «Cosa ti porto?» mi domandò. «Fai tu, tesoro.»

fine

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