Jen spinse il Boston
Whaler lontano dalla riva, verso il mare aperto. Si accese una sigaretta e
stappò una lattina di birra.
Controllò il riferimento
GPS che aveva tracciato ore prima, al passaggio del peschereccio giapponese.
Jen, che si era trovata
per caso in mare, aveva visto la grossa barca perdere una delle preziosissime
lenze a strascico. I giapponesi le usavano per pescare i tonni. Ma lei aveva
un’altra idea. Sorrise e sputacchiò birra, al pensiero di suo marito.
Burt Harrison,
australiano, enorme e biondo, l’aveva portata a Mahé nove anni prima. Pescava
squali ed era diventato proprietario di un piccolo cutter su cui faceva
lavorare un equipaggio di creoli.
C’erano stati anni di
abbondanza. Poi erano arrivati i giapponesi con le loro “tonnare volanti”
lunghe chilometri. Ed era finito tutto.
Jen soffiò via la rabbia,
al pensiero, col fumo della sigaretta. Quei bastardi stavano rovinando le isole
e lasciando parecchia gente senza mangiare.
Avevano spopolato
l’altipiano sottomarino su cui poggiano le Seychelles, il sec, e arrivavano più in là, dragando gli abissi oceanici e tirando
su qualsiasi cosa, squali compresi.
Sui loro battelli
pescavano e lavoravano i tonni al momento, come in catena di montaggio.
Li aveva visti spingersi
oltre il sec, sulla linea di confine
tra l’altipiano e l’abisso, il bordage,
e ancora più in là.
E aveva visto Burt
spegnersi nell’alcol e scolarsi quelle poche rupie che ormai riusciva a
guadagnare. Il cutter era stato impegnato presso una banca di Victoria, per
pagare l’equipaggio e le attrezzature di ricambio.
Burt non sapeva della
lenza. I giapponesi le lasciavano sul posto e le recuperavano dopo ore.
Capitava che alcune andassero alla deriva, come il frammento che Jen aveva
individuato. Era roba di marca, d’acciaio, con ami metallici e robusti che
avrebbero tirato su uno squalo come niente.
Si girò a babordo e vide
le luci della costa. Era bizzarro, pensava, come una volta quei termini
marinari le fossero sconosciuti. “Babordo” per la sinistra e “tribordo” per la
destra: se li sentiva addosso come un vecchio e comodo vestito.
Aveva portato il fucile di
Burt. Ne controllò il caricamento e lo rimise sulla colonnina di guida.
Impugnò il volante e
spinse la leva del quaranta cavalli. Diede gas e sentì la prua alzarsi e
abbassarsi con un rumore di manata sull’acqua.
***
Un’ora più tardi, spenta
l’ennesima sigaretta nella lattina, poté vedere solo mare. Sulla testa le
splendevano un milione di stelle.
La notte era quieta e non
spirava brezza. Il sale le aveva appiccicato i vestiti addosso e le aveva
seccato i capelli.
Controllò il GPS e diede
ancora un po’ di gas. Il battello avanzò adagio, su quel nero immoto.
Era conscia d’essere nel
regno degli squali. Era conscia che, se uno di quei mostri avesse voluto,
avrebbe ribaltato il Whaler senza difficoltà. Sapeva altresì che gli squali combinano
queste cose solo nei film e che, anzi, possono nuotare accanto a un uomo
facendo come se non esistesse.
Il GPS comunicò l’arrivo a
destinazione tramite un bip. Lei spense il motore e scrutò l’acqua. Era sicura
che i giapponesi, che non badavano a spese, avessero dotato i gavitelli di boe
visive per evitare incidenti come quello della perdita d’una lenza. E proprio
sulle ali di tale pensiero, si diede della stupida e dell’impulsiva. Potevano
aver già recuperato la preziosa lenza, proprio come stava facendo lei, col GPS
e una boa visiva.
«Cristo, Jen!» si disse,
obbedendo all’antica abitudine di parlare da sola. Scostò la maglietta dalla
pancia e si grattò la pelle non più elastica, tolse un pelucchio di cotone
dall’ombelico, poi spostò la mano contro la cassetta frigo dove teneva le
birre. La aprì e prese una lattina.
Bevve un sorso e scosse la
testa. Si accese una sigaretta.
Fumò adagio, assaporando
ogni boccata e lasciando che quella lucciola velenosa spegnesse un poco di
buio.
Si allungò sulla prua e
stese le gambe.
Il rollio la cullava
facendo oscillare le stelle lassù in cielo. Con un salvagente come cuscino, si
portò l’orlo della lattina alle labbra e bevve. La birra le andò nel naso e la
fece ridere. Fece un tiro e sorrise.
Poi, la barca ebbe un
rollio violento. Il parapetto di tribordo s’inclinò in basso, lasciandole
vedere un bip di luce sul mare.
Lei si rizzò a sedere.
Sulle acque, una luce rossa si accendeva e si spegneva.
Controllò la posizione e
vide che si trovava parecchio al largo, verso lo scoglio conosciuto come
Silhouette.
Sentì il rombo di un volo
notturno da Mahé e vide, molto in alto, le luci.
Di nuovo il rollio. Jen
batté le ginocchia sul fondo della barca e imprecò. C’era qualcosa là sotto.
Forse qualche tonno o qualche squalo impigliato alle esche.
C’era il rischio che quei
dannati bestioni le rovinassero la lenza, mandando tutto in fumo.
Recuperò il fucile, lo
armò e si alzò in piedi. Mirò in basso, aspettando la sagoma scura, a forma di
bombardiere, dello squalo.
Vide un cerchio bianco,
come l’ombrello di una medusa. Doveva trovarsi a un paio di metri sotto ed era
bello grande. Si chinò e si sporse. L’oggetto non era, come aveva pensato in un
primo momento, qualche metro sotto, ma parecchie decine. Ed era immenso.
Possibile che fosse
qualche diavoleria giapponese?
La barca oscillò forte e lei
dovette stringersi al bordo.
Gli ombrelli delle meduse
non erano così grandi e non avevano… non avevano un’iride.
Quella cosa era un occhio,
un occhio grande almeno quanto il Whaler.
Pur spaventata, Jen riuscì
a staccarsi dal bordo e a controllare dall’altra parte.
Urlò.
L’occhio a tribordo
sembrava più piccolo e fuori asse. Era come quello di uno strabico o di una
persona che abbia avuto un incidente.
O di un morto.
Sentì il Whaler impennarsi
e salire verso il cielo. Sotto la chiglia, coperto da una patina d’acqua
scrosciante, un colosso morto e rianimato saltò, come un enorme tappo, in
superficie.
I suoi denti maciullarono
lo scafo di poliuretano espanso. La bocca inghiottì Jen e la gola l’accolse,
assieme ai resti di squali e di lenze giapponesi.
Complimenti sei davvero molto bravo a scrivere
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