martedì 27 maggio 2014

Megzom - Tante storie di fantascienza





Jen spinse il Boston Whaler lontano dalla riva, verso il mare aperto. Si accese una sigaretta e stappò una lattina di birra.
Controllò il riferimento GPS che aveva tracciato ore prima, al passaggio del peschereccio giapponese.
Jen, che si era trovata per caso in mare, aveva visto la grossa barca perdere una delle preziosissime lenze a strascico. I giapponesi le usavano per pescare i tonni. Ma lei aveva un’altra idea. Sorrise e sputacchiò birra, al pensiero di suo marito.
Burt Harrison, australiano, enorme e biondo, l’aveva portata a Mahé nove anni prima. Pescava squali ed era diventato proprietario di un piccolo cutter su cui faceva lavorare un equipaggio di creoli.
C’erano stati anni di abbondanza. Poi erano arrivati i giapponesi con le loro “tonnare volanti” lunghe chilometri. Ed era finito tutto.

Jen soffiò via la rabbia, al pensiero, col fumo della sigaretta. Quei bastardi stavano rovinando le isole e lasciando parecchia gente senza mangiare.
Avevano spopolato l’altipiano sottomarino su cui poggiano le Seychelles, il sec, e arrivavano più in là, dragando gli abissi oceanici e tirando su qualsiasi cosa, squali compresi.
Sui loro battelli pescavano e lavoravano i tonni al momento, come in catena di montaggio.
Li aveva visti spingersi oltre il sec, sulla linea di confine tra l’altipiano e l’abisso, il bordage, e ancora più in là.
E aveva visto Burt spegnersi nell’alcol e scolarsi quelle poche rupie che ormai riusciva a guadagnare. Il cutter era stato impegnato presso una banca di Victoria, per pagare l’equipaggio e le attrezzature di ricambio.
Burt non sapeva della lenza. I giapponesi le lasciavano sul posto e le recuperavano dopo ore. Capitava che alcune andassero alla deriva, come il frammento che Jen aveva individuato. Era roba di marca, d’acciaio, con ami metallici e robusti che avrebbero tirato su uno squalo come niente.
Si girò a babordo e vide le luci della costa. Era bizzarro, pensava, come una volta quei termini marinari le fossero sconosciuti. “Babordo” per la sinistra e “tribordo” per la destra: se li sentiva addosso come un vecchio e comodo vestito.
Aveva portato il fucile di Burt. Ne controllò il caricamento e lo rimise sulla colonnina di guida.
Impugnò il volante e spinse la leva del quaranta cavalli. Diede gas e sentì la prua alzarsi e abbassarsi con un rumore di manata sull’acqua.
***
Un’ora più tardi, spenta l’ennesima sigaretta nella lattina, poté vedere solo mare. Sulla testa le splendevano un milione di stelle.
La notte era quieta e non spirava brezza. Il sale le aveva appiccicato i vestiti addosso e le aveva seccato i capelli.
Controllò il GPS e diede ancora un po’ di gas. Il battello avanzò adagio, su quel nero immoto.
Era conscia d’essere nel regno degli squali. Era conscia che, se uno di quei mostri avesse voluto, avrebbe ribaltato il Whaler senza difficoltà. Sapeva altresì che gli squali combinano queste cose solo nei film e che, anzi, possono nuotare accanto a un uomo facendo come se non esistesse.
Il GPS comunicò l’arrivo a destinazione tramite un bip. Lei spense il motore e scrutò l’acqua. Era sicura che i giapponesi, che non badavano a spese, avessero dotato i gavitelli di boe visive per evitare incidenti come quello della perdita d’una lenza. E proprio sulle ali di tale pensiero, si diede della stupida e dell’impulsiva. Potevano aver già recuperato la preziosa lenza, proprio come stava facendo lei, col GPS e una boa visiva.
«Cristo, Jen!» si disse, obbedendo all’antica abitudine di parlare da sola. Scostò la maglietta dalla pancia e si grattò la pelle non più elastica, tolse un pelucchio di cotone dall’ombelico, poi spostò la mano contro la cassetta frigo dove teneva le birre. La aprì e prese una lattina.
Bevve un sorso e scosse la testa. Si accese una sigaretta.
Fumò adagio, assaporando ogni boccata e lasciando che quella lucciola velenosa spegnesse un poco di buio.
Si allungò sulla prua e stese le gambe.
Il rollio la cullava facendo oscillare le stelle lassù in cielo. Con un salvagente come cuscino, si portò l’orlo della lattina alle labbra e bevve. La birra le andò nel naso e la fece ridere. Fece un tiro e sorrise.
Poi, la barca ebbe un rollio violento. Il parapetto di tribordo s’inclinò in basso, lasciandole vedere un bip di luce sul mare.
Lei si rizzò a sedere. Sulle acque, una luce rossa si accendeva e si spegneva.
Controllò la posizione e vide che si trovava parecchio al largo, verso lo scoglio conosciuto come Silhouette.
Sentì il rombo di un volo notturno da Mahé e vide, molto in alto, le luci.
Di nuovo il rollio. Jen batté le ginocchia sul fondo della barca e imprecò. C’era qualcosa là sotto. Forse qualche tonno o qualche squalo impigliato alle esche.
C’era il rischio che quei dannati bestioni le rovinassero la lenza, mandando tutto in fumo.
Recuperò il fucile, lo armò e si alzò in piedi. Mirò in basso, aspettando la sagoma scura, a forma di bombardiere, dello squalo.
Vide un cerchio bianco, come l’ombrello di una medusa. Doveva trovarsi a un paio di metri sotto ed era bello grande. Si chinò e si sporse. L’oggetto non era, come aveva pensato in un primo momento, qualche metro sotto, ma parecchie decine. Ed era immenso.
Possibile che fosse qualche diavoleria giapponese?
La barca oscillò forte e lei dovette stringersi al bordo.
Gli ombrelli delle meduse non erano così grandi e non avevano… non avevano un’iride.
Quella cosa era un occhio, un occhio grande almeno quanto il Whaler.
Pur spaventata, Jen riuscì a staccarsi dal bordo e a controllare dall’altra parte.
Urlò.
L’occhio a tribordo sembrava più piccolo e fuori asse. Era come quello di uno strabico o di una persona che abbia avuto un incidente.
O di un morto.
Sentì il Whaler impennarsi e salire verso il cielo. Sotto la chiglia, coperto da una patina d’acqua scrosciante, un colosso morto e rianimato saltò, come un enorme tappo, in superficie.
I suoi denti maciullarono lo scafo di poliuretano espanso. La bocca inghiottì Jen e la gola l’accolse, assieme ai resti di squali e di lenze giapponesi.

fine

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