lunedì 10 marzo 2014

Pescare nel bosco - racconto da un'idea di Stephen King

questo fiume è davvero nel Maine :)
Premessa:

Mi sono trovato a leggere qualche racconto della raccolta Tutto è fatidico di Stephen King e in particolare, mi è piaciuto L'uomo vestito di nero. E' scritto in prima persona, ambientato nel 1914 e narra dell'incontro col Diavolo da parte del protagonista, allora novenne. 
Se leggete la postfazione al racconto, vedrete che Stephen King non lo credeva molto valido e non aveva nemmeno voglia di spedirlo all'editore. Poi, a pubblicazione avvenuta, il racconto ha avuto recensioni più che positive, sbalordendo lo stesso King.
Nel leggerlo, mi sono accorto di un colpo di scena mancato, di qualcosa che poteva esserci e avrebbe giovato parecchio alla storia. E' un'opinione personale.
Così ho scritto un mio racconto, ambientato sempre nel Maine Occidentale e con protagonista un bambino di nove anni. 
Ci sono, però, molte cose che cambiano: chi incontra il bambino nel bosco non è il Diavolo e manca totalmente il riferimento al fratellino morto e all'ape.
Leggete L'uomo vestito di nero, se volete. E anche Pescare nel bosco.



***



Pescare nel bosco
Di M. Nicolini
Basato su un racconto di S. King

Amanda, come ti avrà detto tua madre, io sono cresciuto nel Maine occidentale, su un bel fiume dove io e tuo nonno andavamo a pescare alla domenica, dopo la messa. Oggi, a New York potete permettervi il lusso di non credere nella religione, ma allora era un’altra cosa e noi frequentavamo regolarmente la Chiesa Metodista di Lutheran Falls, che è dove sono nato e cresciuto.
Non ti ho mai detto di quei giorni e sono sicuro di sorprenderti, perché non ti sto raccontando del Vietnam o di storie di guerra.
Ti parlo di un bambino di nove anni che va a pesca sul fiume. Ti parlo della domenica più lunga della mia vita, di quel giorno che è stato l’inizio della mia fuga e della mia ossessione per le cose religiose.
Dopo la messa, Papà mi aveva incaricato di dar da mangiare ai tacchini e dare un’ultima mano allo steccato. Allora vivevamo in una fattoria ai margini del bosco, nemmeno un miglio dove il Lutheran River si divide e una parte va a sinistra e una va a destra.
Oltre lo steccato e quella che sarebbe diventata una strada (ma che allora era solo una linea di polvere) c’era il bosco. Era un luogo a cui eravamo abituati, dove noi ragazzi ci arrampicavamo sugli alberi e dove gli uomini si recavano nella stagione della caccia per fare un buon colpo.
Mio padre doveva andare dagli Evans, i nostri vicini, per un affare a proposito di alcune mucche. Dovevamo venderne due e loro sembravano interessati. Perciò Papà aveva preso il camioncino e si era allontanato sferragliando lungo il sentiero. Mamma, in cucina, stava preparando il polpettone, sotto lo sguardo di Puddles, il nostro enorme bobtail. Lo ricordo ancora, con la lunga frangia di peli sugli occhi, seduto e fermo, col muso appoggiato sul tavolo dove mamma tagliava le cipolle e piangeva. Ricordo la cucina, con le ante chiare di cui una un po’ sbilenca. Ricordo il portico coi ciocchi di legno che Papà tagliava per l’inverno e la cuccia che io e lui avevamo fatto per Puddles.
Mamma era concentrata sulle cipolle e una lacrima le scorreva lungo le guance, nonostante avesse bagnato il coltello con l’acqua calda. Diceva che così si evita l’effetto irritante delle cipolle. Ma io la vedevo piangere lo stesso.
Perciò ci misi un po’ prima di parlare.
«Ho finito di dare da mangiare ai tacchini.» dissi. «E lo steccato?»
«Sì, anche quello.» segno rivelatore era un baffo di vernice bianca sulla guancia. Mamma lo vide e sorrise, ma questo fece sì che le lacrime scendessero ancora di più. «Vieni qui.» mi disse. Obbedii attratto dalle lacrime come un piccolo squalo dal sangue. Lei mi abbracciò, mi carezzò la nuca e cercò di pulirmi.
«Posso andare a pesca?» chiesi. «Tuo padre che ha detto?» domandò.
«Che dovevo finire coi tacchini e con lo steccato e avrei potuto.»
«Allora va bene, ma starai attento?» mi chiese.
«Sì, Mamma.»
Si sforzò di sorridere, piangendo ancora. Con il dorso della mano si asciugò gli occhi. «Non andare troppo oltre, va bene?»
«Cosa intendi per oltre?» domandai.
«Dove il Lutheran si biforca. Fermati al massimo lì.»
Annuii. E, a scanso di equivoci, dissi: «Sì, Mamma.»
«Allora vai e prendi un pesce bello grosso!»
annuii ancora, le diedi un bacio e scappai a prendere la canna e il cestino.
Sul portico, mi fermai a chiamare Puddles. Lo vidi fermarsi lì e abbaiare due volte. Sentii che c’era qualcosa che non andava; sono stato sempre metodico e nella vita il ripetersi delle cose mi ha tenuto a galla. Anche quella volta avrei voluto che Puddles venisse con me, visto che mi accompagnava sempre, ma scacciai la brutta sensazione con la spensieratezza di un bambino di nove anni. «Fa’ come vuoi.» gli dissi, e corsi via.
Superai il sentiero e m’infilai nel bosco. Il sole mi bruciava sulla nuca a trenta gradi buoni, arrossandomi la pelle bianca che avevo ereditato da qualche avo scozzese.
Ma poi fui nel bosco e tutto divenne freddo e buio.
Sentii come le voci degli alberi che mormoravano adagio a ogni più piccolo refolo di vento.
Mi misi a pescare sulle rive del fiume, non pensando a nulla, in piedi e col mento sul petto. Qualcosa abboccò subito, talmente in fretta che, se non mi fossi scosso, l’avrei persa. E invece tirai fuori una bellissima trota argentata, che luccicava ai dardi solari laggiù in quel buio paradiso.
Come dicevo, le cose metodiche mi hanno tenuto a galla e, con esse, il rispetto per le regole. Papà mi aveva detto di pulire il pesce subito dopo averlo preso e così feci. Se mi fossi accontentato di quel pesce, se l’avessi pulito a casa, forse tutto questo non sarebbe accaduto. Forse nemmeno mi sarei ricordato di quella domenica. Forse saremmo rimasti in Maine e non avrei combattuto nei Marines. Forse. Ma la vita non è fatta di questo, non funziona in retrospettiva. E non si può navigare nel tempo.
Perciò.
Mi misi a pulire il pesce, dopo aver messo uno strato di foglie sul fondo del cestino. Aprii il pesce col mio coltello e tolsi le interiora, lo misi nel cestino e lo ricoprii con un altro strato di foglie. Papà mi aveva detto che avrebbe tenuto lontane le mosche e i vermi. L’avevo fatto molte volte.
Poi afferrai la canna e il cestino e andai più in là.
I passi mi portarono alla biforcazione. Lì dove c’era un masso sacro ai Micmac su cui le placide acque del fiume s’infrangevano e schiumavano.
Perciò mi misi lì e gettai la lenza. Dopo un po’ la sentii tirare e impugnai saldamente la canna. Quel che venne fuori non era un pesce, ma un uomo. Saltò così, tutto bagnato, con i capelli lunghi e neri appiccicati al collo; un essere lungo, con le scarpe nere e lucide e il volto pallido, come se non avesse visto il sole da tanto, tanto tempo. Aveva i lineamenti delicati, ma il suo naso mi ricordava quello appuntito degli squali, così come la bocca con le pieghe delle labbra all’ingiù.
Saltò fuori e atterrò col rumore di una manata su una pozzanghera. Aprì le braccia e disse – lo ricordo bene - «Et voilà!» come un clown da circo.
Poi fissò gli occhi su di me. Erano come quelli di un pesce morto e avevano i bordi d’oro, come un anello. Pareva che qualcuno gli avesse messo una patina grigia sugli occhi veri, una patina che stava incollata per quel bordo d’oro.
Quando mi sorrise, perché lo fece, vidi che i suoi canini erano bianchi, lunghi e aguzzi come pugnali.
«La predica a messa è stata interessante, oggi?» domandò.
Io, che avevo capito che non era umano, lo guardai e cercai di parlargli come a una persona qualunque.
«Non saprei.» dissi.
«Oh, sei distratto e non va bene. Ma per fortuna ci sono io. Ho ascoltato il reverendo e ha parlato di molte cose interessanti, omettendone, però, una. Non vuoi sapere quale?» domandò.
No che non volevo saperlo, anche se lo immaginavo benissimo. Il sermone non aveva parlato dei vampiri. E lui, come leggendomi il pensiero, allargò ancora di più il sorriso e annuì.
Non ho mai visto un’espressione simile sul volto di nessun altro. Né in Vietnam, neppure nel Golfo e nemmeno quando mi trovai in quel supermercato, durante una rapina.
«Il reverendo non ti ha detto chi è il vero padrone di Lutheran Falls. Non ti ha detto di me, vero?»
«N-nossignore.» riuscii a rispondere.
«Tenere all’oscuro di certi fatti una persona così intelligente! Allora ti dirò che una tempesta sta per abbattersi e fare ingrossare le acque del fiume. Senti l’odore della pioggia? La pioggia che porto io, l’uomo dell’acqua.» mi sorrise ancora. «Cosa sai sulle storie di vampiri?» domandò.
Non seppi rispondere. E ciò lo fece ridere. Fu il suono più orribile. Era come il rantolo di un moribondo.
«Tutto ciò che conosci è sbagliato. Perché io sono venuto fuori dall’acqua, come un pesce, un pesce bello grosso, eh?»
dissi: «Sissignore.»
«Tu solo hai il potere di fermare la tempesta, Noah. Tu solo hai il potere di placare il fiume.»
«E c-come?»
lui guardò in alto, prima di rispondere. E fu allora che dalla cima del bosco cadde la pioggia. I goccioloni erano tanto grossi da spiaccicarsi sui miei occhi e rendermi temporaneamente cieco e da fare ribollire l’acqua del fiume.
«Presto la tua casa verrà spazzata via e tua madre morirà. Morirà anche il tuo cane. Tua madre verrà investita dalla piena e si taglierà la coscia contro il tavolo su cui sta preparando il polpettone. Il lembo della carne cadrà giù come una tenda e il sangue sporcherà l’acqua. Quella casa, che tuo padre dovrebbe riparare, crollerà giù come un castello di legnetti. E forse è un bene, perché è piena di muffa e vi ucciderebbe respirarne l’aria, se io non ripulissi tutto.»
io deglutii, mentre lui rideva. Gli vidi aprire la bocca di più di quanto potesse fare qualsiasi persona normale.
«Tu puoi fermare tutto.» mi disse. «Conosci la storia dell’arca?» domandò.
Annuii.
«Noah era devoto a Dio,» mi disse. «E Dio lo ha aiutato. Ora capisci?»
certo che capivo o almeno credevo di capire.
«Devi decidere, se salvarli o lasciarli andare. Ma ti dico una cosa: se tua madre muore, si risparmierà tante sofferenze. Lo sai che non piange per le cipolle, vero? E perché Papà va così spesso dagli Evans?» si inginocchiò e appoggiò i gomiti sulle ginocchia. Guardai l’acqua colargli dal viso e dalle mani e disegnare una specie di V sul terreno.
E allora cominciò a cantare come un bambino canta una filastrocca. Un bambino maligno.
«Mamma ha la fichetta stretta e Papà va a comprare mucche da Lily Evans.»
Furono queste parole che, più di ogni altra cosa, mi convinsero che l’uomo diceva il vero. Perché io sapevo di Lily e sapevo che le cipolle non c’entravano con le lacrime di Mamma.
Mentre lui cantava, lasciai il cestino e la canna e scappai via. Corsi sotto la pioggia, girandomi sono una volta. Allora lo vidi tremolare, mentre stava chino sul mio cestino e guardava quel che c’era dentro. Poi scomparve.
Corsi a casa, pensando che fosse troppo tardi, pensando che Mamma fosse morta. Superai il sentiero e la vidi lì. Mamma era sul portico e mi chiamava. Accanto a lei, Puddles aveva il pelo ritto e continuava ad abbaiare.
«Noah!» chiamò Mamma. Corsi da lei e la abbracciai così forte come non avevo mai fatto. Mi guadò, stupita. «Hai perso il cestino e la canna.» disse.
«Non fa niente.» le risposi. «Tuo padre s’arrabbierà, ma è meglio lasciare tutto lì finché non sarà passato il temporale.»
“Non passerà” pensai e se gliel’avessi detto, se avessi parlato dell’uomo nel bosco, forse ora ogni cosa sarebbe diversa. Ma sentivo come di avere una missione da compiere e come se da quella dipendesse il futuro della mia famiglia.
Perciò mi staccai dall’abbraccio e andai in camera di Mamma e Papà. Quando ne uscii, correndo, verso il portico, stringevo qualcosa sotto il braccio.
Era la grande Bibbia di famiglia. Aveva la copertina nera e una grossa croce d’argento sopra. Era con noi da quando Papà era piccolo e dentro le sue pagine c’erano lettere e vecchie foto dei Nonni.
Corsi fino al bosco, a piedi nudi, nel fango.
Quando raggiunsi la biforcazione, vidi la mia canna e il mio cestino abbandonati lì, sulle rive.
Dell’uomo non c’era traccia.
Mi ricordo fermo in piedi, a guardare l’acqua che ribolliva per la pioggia. Ricordo il fiume ingrossarsi e ingrossarsi.
Sapevo quel che dovevo fare. Sapevo come placare le acque. Me l’aveva detto il vampiro.
Perciò, afferrai la Bibbia e la scaraventai nel fiume. Quella affondò e nell’aria avvertii nitido uno strano odore di uova marce. Il gran libro andò giù con un plop fortissimo.
Rimasi lì, a guardare, instupidito, ma fiducioso come può esserlo un bambino di nove anni.
Rimasi lì, fino a che la pioggia non si  calmò e il sole tornò a guardarmi dall’alto e a toccarmi la pelle col suo calore.
Allora mi misi a piangere, perché c’ero riuscito, perché avevo fatto bene. Mi misi a piangere.
Poi presi il cestino e la canna. Diedi un ultimo sguardo al fiume e tornai a casa.
Tornai a casa e la trovai intatta, con Mamma furiosa per la mia fuga.
Puddles abbaiava e ringhiava.
Poi tornò mio padre. Era stanco e fradicio. Ci disse che gli Evans avrebbero comprato, ma a un prezzo inferiore.
Ho ricordi confusi di quella sera.
Cenammo, mangiammo il polpettone, ascoltammo la radio e guardammo le stelle sul portico. Poi andammo a dormire.
Non ti ho mai parlato dei nonni, Mandy, perché sono colpevole. Colpevole di averli uccisi.
Ho creduto alle parole di quell’uomo. E l’ho portato in casa, perché lui stava nel pesce. I vampiri non entrano senza invito e non entrano se in casa c’è una Bibbia.
Me lo vedo ancora di notte, che mi guarda e mi da’ dell’idiota, dell’inutile, del credulone. È ancora sporco del sangue di Mamma e Papà. Dice che ora penserà a Puddles, anche se il sangue di cane non gli piace granché.

Fine


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