... precedente
Il polpo si era lasciato cadere mollemente sui tentacoli,
sdrucciolando lungo la parete. Aveva evitato la tana della polpessa e puntava
per il fondale sabbioso, appena illuminato dagli ultimi raggi del sole. Era un
tipo cauto e non faceva che cambiare colore. Si adattava ai toni dei coralli rapidamente,
stava fermo per un po’, per assicurarsi che nessuno facesse caso a lui, e
riprendeva a scendere. Sapeva dell’aragosta dalla grande corazza, ma non la
giudicava un obiettivo fattibile, non per il momento. E poi quella viveva sulle
rocce, fra i coralli, nella sua tana piccola piccola.
In quattro anni, il polpo più volte aveva osservato un
fenomeno interessante. Sul fondo, in mezzo a una distesa deserta di sabbia,
c’erano due enormi rocce. Erano cadute lì da chissà quanto – per il polpo
c’erano sempre state – e avevano la superficie coperta da piccoli buchi senza
uscita. Le aragoste più piccole le usavano come tana. C’erano famiglie intere
di crostacei che vivevano lì. Il polpo si lasciò cadere e scese al livello del
fondale. Esplorò per un po’ i dintorni e poi si nascose fra le due rocce. In
mezzo, c’era una vasta distesa di sabbia. Il polpo aspettò fino e ben oltre il
limite del suo orario di caccia. Rimase lì e vide, da sotto la sabbia, i raggi
del sole che adagio adagio svanivano, per relegare gli abissi nel buio
profondo.