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Lo squalo avvertì un tremito involontario dal suo piccolo
pilota all’avvicinarsi di una lampuga. Questa era un pesce predatore, simile a
una specie di piccolo tonno e molto vorace. Quell’esemplare era lungo due metri
e, come lo squalo, era femmina. Il corpo era lungo, compresso ai fianchi, con
la parte frontale sporgente e simile a una mano chiusa a pugno. Ce n’erano
molte come essa e nuotavano in branco sull’orlo della barriera. Erano arrivate
da qualche giorno e avevano messo in allerta i pesci pilota. Lo squalo scivolò
di fianco a un pesce pappagallo talmente addormentato e ben nascosto, da essere
ricoperto da una pellicola di muco, risalì l’orlo della barriera e planò di
pancia in uno dei numerosi, piccoli canali. Proseguì lasciandosi sfiorare dai
coralli e salendo di poco. Ora la pinna spuntava dall’acqua, mentre la pancia
sdrucciolava sul fondo sabbioso. Doveva sicuramente esserci qualcosa lì
nascosta: tanti squali giovani incrociavano in quelle acque giorno e notte,
preferendo trenta centimetri di spazio alla profondità dell’orlo della
barriera.
Con una pressione sull’intestino, scacazzò una nube verde di feci su
cui si precipitarono tutti i pesci pilota, compreso il suo. Le ampolle di
Lorenzini avvertirono lo squalo di qualcosa. La temperatura dell’acqua era più
alta e, sotto la sabbia, c’erano movimenti. Si buttò di naso e smosse la
sabbia, contorcendosi. Addentò un piccolo pesce, lo spaccò in due con un morso
e se lo fece scivolare dentro la bocca. Il pesce pilota fu lesto a entrargli
nelle fauci dietro la preda e si mise lì, a ripulire i denti dello squalo dai
pezzetti di cibo.
Più in là, oltre la barriera, nel buio di uno dei due uteri
della madre, un feto di squalo tigre aveva appena divorato l’ultimo dei suoi
fratelli. Si dimenava, inghiottendo le sostanze nutritive generate dalla madre
e aspettando di nascere. Nell’utero gemello, la sua sorellastra stava uccidendo
altri squaletti non ancora nati. Assieme a una nuvola di feci, un’altra femmina
aveva appena partorito le sue due figlie. Le aveva espulsa una da ciascun utero
e adesso queste le nuotavano accanto, bestioni lunghi un metro, già provvisti
di denti. L’enorme mamma aveva parecchie remore attaccate al corpo e un nugolo
di pesci pilota che le nuotava davanti. Un maschio s’era appena mangiato un
altro squalo. Era un bestione dalla sagoma tozza e massiccia, una specie di
mucca degli abissi, mentre la vittima apparteneva alla specie dell’orlo della
barriera, dal corpo elegante e la punta delle pinne scura. La femmina
s’inabissò, si girò e tornò su a una velocità impressionante, smuovendo una
gran massa d’acqua. Inghiottì mezzo squalo lasciato dal maschio. Le figlie si
spartirono i resti. E ormai stava sopraggiungendo l’alba. Si presentò come
leggere colonne di luce che appena appena arrivavano ad accarezzare gli abissi,
ma facevano risplendere le acque poco profonde abitate dai giovani squali pinna
nera.
Gli squali toro scivolarono lungo la barriera, giù verso
l’abisso. Cercavano aperture, cenge, anfratti dover potersi rintanare per il
giorno. Il pinna nera, invece, se ne restò sull’orlo a dormire, col corpo mosso
dalle correnti.
Un polpo di quattro anni viveva in una tana di pietre. Ce le
aveva messe lui lì, disponendole in cerchio. Dalla tana dava un occhio ai
piccoli crostacei e ne prendeva uno quando aveva fame, rapidissimo coi
tentacoli, se lo portava sotto il corpo, dove c’era la bocca. Lì, con un rostro
osseo appuntito, dava un paio di colpi, rompeva il guscio e si gustava la
preda. Più avanti, sull’orlo della barriera, il plancton galleggiava in una
grande colonna, fino a scendere in profondità negli strati d’acqua più fredda.
Lì, a circa trenta metri, in una piccola grotta lungo la parete rocciosa, viveva
un’aragosta maschio. Per quest’aragosta, i quattro anni del polpo del piano di
sopra erano uno scherzo: lei ne aveva dieci volte tanti e si teneva alla larga
dai pericoli… dalla polpessa, per esempio. La polpessa viveva più su, in un
anfratto e aveva un colore rosso chiaro, intenso, con macchie bianche. Era una
creatura molliccia e orribile, dai tentacoli lunghi e non aveva nulla della
grazia del polpo. Il polpo sapeva della polpessa e negli anni aveva cercato di
evitare la cattura ricordandosi di non sconfinare nel suo territorio.
L’aragosta aveva il carapace rosso e coperto da spuntoni a
forma di cono. Era aggraziata e aveva due lunghe antenne ripiegate
all’indietro, gialle e rosse. Sulla fronte aveva due corna divergenti a forma
di V. Nei paraggi vivevano altre della sua specie, più piccole e più giovani.
Pascolavano come un branco di pecore tastando le rocce con le antenne e
spazzando la sabbia con la coda. L’aragosta bevve un po’ di zooplancton e continuò
a esplorare il territorio. Poi se ne stette affacciata sull’orlo della grotta,
muovendo le protuberanze e i cornini e pescando, di tanto in tanto, qualche
mollusco bivalve. A un certo punto, fiutò un’ostrica e si arrampicò fuori dalla
tana. Le zampette scattarono veloci, le antenne ruotarono come radar. Scese giù
rapidissima: l’ostrica era là, a portata di mano. l’aragosta, però, aveva un
problema. Parte della sua corazza dorsale non era più dura come un tempo, ma
aveva un colore viola tenue, come quella di certi gamberi, anche se si stava
piano piano irrobustendo. Questo perché essa era nel bel mezzo della crescita:
il suo corpo e la sua corazza aumentavano di massa. Le parti della vecchia “armatura”
giacevano a pezzetti ovunque fuori dalla tana. Come il polpo di sopra, anche
lei ci aveva messo un po’ a trovare casa. Le grotte degli abissi erano troppo
grandi ed era dovuta risalire un bel po’ fin quasi al limite dell’ambiente
caotico che odiava, per trovare una buona dimora. Questa non era altro che un
buco di un paio di centimetri più grande del suo corpo, dove essa si poteva
rifugiare e incastrare in caso di pericolo. Non era brava a mimetizzarsi, non
come il polpo, e capitava spesso che i pesci pelagici nuotassero rasenti alla
parete della barriera, solo per vedere due lunghe antenne sporgere dal buco.
Era abituata ai grandi silenzi delle profondità
abissali e alla quiete. Mentre mangiava l’ostrica, s’accorse che il polpo era
sceso dalla sua montagna.continua...
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