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Il polpo si era lasciato cadere mollemente sui tentacoli,
sdrucciolando lungo la parete. Aveva evitato la tana della polpessa e puntava
per il fondale sabbioso, appena illuminato dagli ultimi raggi del sole. Era un
tipo cauto e non faceva che cambiare colore. Si adattava ai toni dei coralli rapidamente,
stava fermo per un po’, per assicurarsi che nessuno facesse caso a lui, e
riprendeva a scendere. Sapeva dell’aragosta dalla grande corazza, ma non la
giudicava un obiettivo fattibile, non per il momento. E poi quella viveva sulle
rocce, fra i coralli, nella sua tana piccola piccola.
In quattro anni, il polpo più volte aveva osservato un
fenomeno interessante. Sul fondo, in mezzo a una distesa deserta di sabbia,
c’erano due enormi rocce. Erano cadute lì da chissà quanto – per il polpo
c’erano sempre state – e avevano la superficie coperta da piccoli buchi senza
uscita. Le aragoste più piccole le usavano come tana. C’erano famiglie intere
di crostacei che vivevano lì. Il polpo si lasciò cadere e scese al livello del
fondale. Esplorò per un po’ i dintorni e poi si nascose fra le due rocce. In
mezzo, c’era una vasta distesa di sabbia. Il polpo aspettò fino e ben oltre il
limite del suo orario di caccia. Rimase lì e vide, da sotto la sabbia, i raggi
del sole che adagio adagio svanivano, per relegare gli abissi nel buio
profondo.
Allora le aragoste uscirono. Ognuna mise fuori le antenne dalla sua
tana personale, le incrociò con la vicina, si riconobbero, e tutte scesero giù
al piano terra. Una succhiò un lungo verme anellide, mentre le altre bevvero
plancton a sorsate. Le loro corna e le loro antenne giravano in maniera
rilassata: le aragoste erano dieci ed erano membri di un’unica, forte tribù. Sapevano
della loro compagna che viveva più sopra, ma la andavano a trovare di rado. Per
loro, la libertà degli ampi spazi immensi aveva più valore di un’ottima casa. Facevano
lunghe passeggiate da una lastra di roccia all’altra, nel nulla di sabbia,
andando all’indietro e trascinandosi le antenne. Piccoli protozoi finivano nei
loro corpi, assieme a più minuscole alghe unicellulari. Microscopiche creature
a forma d’ellisse, di cerchio, di stella, traslucide nelle tenebre del buio,
venivano bevute dai crostacei. Ogni notte, una tribù andava a trovare l’altra a
fasi alterne. Era un’abitudine che avevano sviluppato negli anni, forse per
tenersi in buoni rapporti. Scivolando sul placido nulla, la colonna ordinata e
violacea incappò nel polpo.
I tentacoli salirono, liberandosi dalla sabbia e spandendo
una nube scura. Una delle aragoste ne fu intrappolata: il polpo l’abbracciò e
la schiacciò con forza a terra. Le altre scapparono via, verso il loro
appuntamento. Il polpo strinse forte la corazza del crostaceo e se lo portò al
centro dei tentacoli. Col becco, cercò un punto della corazza più morbido.
L’aragosta gli artigliò la pelle con le lunghe antenne, ma il polpo tenne duro:
col becco spaccò la corazza… ora la morbida carne era alla sua portata. Il
polpo assaporò l’aragosta con la lingua, cominciò a succhiarla. Le antenne
smisero di agitarsi. Quando l’ebbe svuotata, buttò il guscio.
Era notte fonda e al polpo mancava la tana di rocce. Il
plancton gli gravava addosso come una coperta. Un gruppo di pesci soldato dagli
occhi grandi era fuori a caccia, vicino alla barriera. Il polpo corse
rapidamente fino alla roccia più vicina – quella della prima tribù d’aragoste –
e da lì, verso la parete della barriera. Affrontò l’ascesa stoicamente,
srotolando un tentacolo dopo l’altro mentre i pesci gli scacazzavano nubi di
escrementi in testa e gli passavano rasente coi fianchi lucidi. S’infilò in
bocca un paio di larve di pesci di ghiaccio e scivolò in un anfratto. Continuò
a salire, nel buio più nero. Gli ultimi squali notturni si stavano preparando
adagio al sonno e si cercavano un posto, nomadi del mare, dove le correnti li
trascinassero per farli respirare. Il polpo continuava ad arrampicarsi, uscendo
dagli anfratti e nascondendosi, cambiando colore e aspettando. Ruotava gli
occhi, cercando di distinguere qualcosa. A un tratto, vide due lunghe antenne
spuntare come dalla roccia e capì d’essere vicino. Quella era la tana della
grande aragosta. Se ne stava lì, affacciata come sempre, a guardare la vita
scorrerle sotto le antenne. L’aragosta vide il polpo e rinculò,
accartocciandosi su se stessa come una palla irta di cornini e aculei mobili. La
parte tenera della corazza era protetta dalla roccia, dalle pareti della tana.
Il polpo non sarebbe riuscito ad afferrarla e stritolarla.
Il polpo sperava di fare un altro pasto. Certo, l’aragosta
s’era rintanata bene, ma forse cambiando colore e aspettando… però gli mancava
la tana fra le rocce messe a cerchio. Sputò un getto d’acqua dalla bocca, e
risalì più veloce. Guadagnò alcuni metri e si arpionò alla roccia. Era troppo
vicino alla tana della polpessa e doveva stare attento. Si spostò più a
sinistra, proprio mentre un lungo tentacolo macchiato di bianco usciva da un
buco. Evitata! Per un pel… una murena uscì dalla tana e morse il polpo a morte.
A questa bestiaccia la notte era andata completamente in
bianco, senza preda. L’aveva passata sull’orlo della tana – come l’aragosta –
aspettando che passasse almeno un pesce pappagallo. Aveva sperato in qualche
disorganizzazione dei pesci soldato, invano. E adesso: due pasti in uno! S’era
mangiata il polpo e l’aragosta piccola che il polpo aveva succhiato nella sua
spedizione. Poteva ritirarsi e dormire tranquilla. Magari l’indomani notte, si
sarebbe mangiata pure la polpessa.
La grande aragosta seguì con gli occhi l’ombra di uno
squalo in ascensione. Era uno squalo nutrice, dalla pelle liscia e di colore
scuro con riflessi rosati. Aveva un paio di eleganti barbigli sotto la bocca e
pinne pettorali a forma di pagaia. Si fece una gran bevuta di plancton,
risucchiando un bel po’ di invertebrati di piccole e medie dimensioni, poi
saltò sulla pianura sottomarina, nei pressi della tana del polpo. Aveva denti
minuscoli, simili a una grattugia, denti che usava di rado, visto che il suo
metodo di caccia preferito era aspirare le prede. Al suo passaggio, i pinna
nera si spostarono – questo squalo era lungo tre metri – per lasciarlo passare.
Si scelse il suo solito posto, in cima a una pila di squali nutrice più
piccoli. Riposavano uno sopra l’altro, nel punto dove c’era la corrente
migliore. Si mise lì e s’addormentò.continua...
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