C’era riuscito! Prese l’ipodermica e si iniettò il vaccino. Ebbe un capogiro e si sedette. Davanti a lui, i porcellini d’india lo guardavano con i loro occhi luccicanti di giaietto. Lui tirò fuori il cellulare e diede uno sguardo all’orologio. Vide la scritta “rete assente” e sospirò.
Poi
rovesciò gli occhi all’indietro e cadde.
Le
grida dei porcellini e un ringhio lo svegliarono. Aprì gli occhi e si trovò
davanti una scena raccapricciante: la dottoressa Di Lillo stava leccando le
viscere di un porcellino d’india dalla pelle, come se fosse un caco e la pelle
fosse la buccia, mentre ne teneva in mano un altro, che si agitava e squittiva.
La
Di Lillo non era mai stata una bellezza, col suo naso a becco e gli occhiali
dalla montatura pesante (c’era da dire che aveva due tette enormi) ma adesso
era un Picasso di sangue, saliva e interiora di porcellino, un Picasso dal naso
rotto e dal labbro superiore strappato. Sì, era come se qualcuno l’avesse
sbucciata in quel punto, come se la sua pelle fosse stata la carta di un pacco
regalo che ora pendeva in lembi gocciolanti di chissà che schifezza.
Lui
si alzò e la Di Lillo fece scattare il collo. I suoi occhi morti lo guardarono
e la sua mano sinistra strinse ancora di più il porcellino vivo, facendolo
squittire. Lui, pur spaventato a morte, corrugò la fronte.
«Non
mi attacchi?» mormorò. Ricevette un ringhio in risposta. La Di Lillo fece un
passo indietro e riportò l’attenzione sul porcellino squartato, leccandone la
pelle. Finito con esso, avrebbe mangiato anche quello vivo.
L’uomo
guardò negli occhi il porcellino, che si agitava e squittiva. Guardò le sue
zampine rosa, con dita così simili a quelle umane da fare tenerezza, poi prese
fiato e si avvicinò alla Di Lillo. Lei girò la testa e ringhiò, mentre lui
chiudeva la mano sinistra a pugno, un dito per volta, e prendeva coraggio. Non
le chiese scusa, non disse niente: le sparò un pugno in faccia e la mandò a
rovesciarsi contro un tavolino, addosso ai becchi di Bunsen. Il porcellino volò
e finì a terra, in mezzo a una pozza di sangue.
L’uomo
guardò le gabbie, piegate e aperte, degli animaletti, guardò i suoi preziosi
strumenti buttati a terra, i microscopi elettronici, la centrifuga e… il suo
braccio. Il sinistro, quello con cui aveva tirato il pugno: il camice era
stracciato, in quel punto, la camicia in jeans era intrisa di sangue. La ferita
gli pulsava di un dolore sordo. Mentre il porcellino se ne scappava in giro,
l’uomo raccolse delle forbici e tagliò camice e tessuto jeans. Un orologio di
pelle gli mancava dall’avambraccio e sotto di esso c’era un pezzo di carne
sanguinolento e bluastro.
La
Di Lillo si agitò e ringhiò, finché non riuscì ad alzarsi. Con la testa
inclinata e la bava alla bocca, gli lanciò un ringhio. Lui non se ne curò,
impegnato a guardarsi la ferita. Gli venne un conato, si piegò e sparse il
tramezzino al tonno per terra. Sputò e imprecò. Prese un fazzoletto dalla tasca
e si asciugò la bocca. La Di Lillo gli ringhiò a un centimetro dalla faccia;
lui non fece altro che scostarla. Recuperò la sedia, la tirò su e si sedette.
Sentì un rumore e si girò: il porcellino era scivolato sulla pozza di sangue.
La Di Lillo se ne accorse e si fiondò per prenderlo. L’uomo le fece lo
sgambetto e quella cadde a piombo, rovinando sui frammenti metallici di un
becco di Bunsen. Il bruciatore le bucò un occhio come fosse tuorlo d’uovo,
s’infilò nell’orbita, bucò il cervello e uscì dall’altra parte, strappando la
pelle come fosse cotica croccante. E la Di Lillo smise di agitarsi; il suo peso
tirò giù il tavolino e scardinò il bruciatore dalla base, con un fracasso del
diavolo.
L’uomo
vide le zampe del porcellino sgusciare sotto il mobile in acciaio della
centrifuga.
«Ma
cazzo! Vieni qua!» gli disse, alzandosi e piegandosi sul mobile. Dietro di lui
sentì urla e ringhi. Si girò. Il dottor Càzzaro e l’assistente Guida se ne
stavano in piedi a ringhiare, assieme al filippino Mel, delle pulizie. L’uomo
li guardò, poi tornò a fissare l’attenzione sotto il mobile.
«Anche
voi a cercare il porcellino?» chiese.
«…
trasmettiamo su tutte le frequenze… se c’è qualcuno in ascolto… rispondete…»
L’uomo
sgranò gli occhi. In quel momento, il porcellino apparve da sotto il mobile e
lo guardò, scrollandosi i baffi. Rapidissimo, lui lo prese, quello squittì, ma
lui se lo ficcò nella tasca del camice. Càzzaro, Guida e Mel si animarono e gli
vennero incontro; man mano che si avvicinavano, la voce alla radio si faceva
più forte, tanto che lui ne individuò la sorgente: era la radio di Mel.
Il
dottor Càzzaro («L’accento va sulla prima “a”, mi raccomando!» diceva sempre ai
colleghi) allungò una mano con quattro dita (il pollice era stato staccato da
un morso). L’uomo lo scostò e si avvicinò a Mel. Quello gli ringhiò. L’uomo gli
staccò la radio dalla cintura e se l’avvicinò alla bocca. Mel cercò di
azzannare il porcellino.
«E
sta’ buono!» disse l’uomo, mettendogli una mano sulla fronte e spingendolo via.
Si girò di schiena e i tre gli furono addosso, cominciando a graffiarlo e
strattonarlo. Col tacco, pestò il piede a uno (il dottor Càzzaro), poi si girò
e spinse via Guida. Mel, nel tentativo di prendere il porcellino, gli affondò i
denti nel bicipite. Prima che potesse staccargli un pezzo di carne, lui lo
picchiò sulla testa con la radio. Guida cercò di artigliarlo, ma lui lo
allontanò con un calcio. Mel cadde, con il sangue che gli usciva dalla tempia.
L’uomo si portò la radio alla bocca e schiacciò un tasto.
«Mi
sentite?» disse.
«Forte
e chiaro. Chi è e dove si trova?» disse la voce.
«Dottor
Sam Rue, sono a Milano, al reparto neurologico del CMI.»
«Al
centro malattie infettive?»
«Sì,
esatto.»
«Com’è
la situazione? Ci sono zombi?»
«Uh…
zombi?»
«Ha
visto persone mostrare aggressività estrema e attaccarne altre?»
«Sì,
sì, capisco cosa vuole dire. Qui è pieno, pieno di persone del genere. I miei
colleghi mi hanno appena attaccato.»
«È
ferito? L’hanno morsa?»
«Uhm,
no… cioè, sì… attenda un attimo… e basta con ‘sto porcellino!» Sam prese il
dottor Càzzaro per il collo e lo scaraventò addosso alla centrifuga.
«Ci
sono problemi?» chiese la voce.
«Uhm,
no, no.»
«Quanto
è passato?»
«Come?»
«L’hanno
morsa, ha detto. Quanto tempo è passato?»
Sam
guardò il cellulare e scosse la testa.
«Non
so… una, due ore» disse.
«Okay,
ascolti cosa deve fare: deve raggiungere il tetto del palazzo.»
«Come?»
«Il
tetto del palazzo. Verremo a prenderla in elicottero.»
Sam
stava per replicare, quando gli sorse un dubbio. Ma chi era questa gente?
Governo, forse; militari?
«Saremo
lì fra quindici minuti. Si porti dietro la radio» disse la voce, prima di
chiudere il canale. Sam ficcò la radio nella tasca dei jeans. Càzzaro gli
graffiò la faccia, per arrivare al porcellino, e lui lo spinse via.
Cominciò
a guardare fra gli strumenti, mormorando qualcosa.
«Una
siringa… mi serve una siringa… e levatevi!» Spinse via Mel (che perdeva ancora
sangue dalla tempia) e fece cadere becher graduati, che si schiantarono a
terra. Vide una siringa proprio lì. Era una di quelle da prelievo, col
serbatoio bello grande e l’ago largo. La prese, ma si tagliò con i pezzi di
vetro. Mel gli finì addosso, sulla schiena e gli morse la nuca, per arrivare al
porcellino. Sam si alzò e se lo scrollò di dosso, si girò. Le porte erano
spalancate e in corridoio sostava un quintetto di dottori infetti. Sam prese la
sedia e chiuse le porte, schiacciando il naso a uno dei dottori. Incastrò la
sedia sotto la maniglia, poi andò al tastierino numerico e provò la
combinazione per chiuderla del tutto. 5-7-5-3-9-0. Schiacciò “enter”, ma la
porta non si chiuse. I tasselli a espansione fremettero quando qualcosa esplose
giù, nelle fondamenta del palazzo.
«Madonna!
Le caldaie!» disse. «La sedia basterà» aggiunse.
Mel
gli si buttò addosso, ringhiando, ma lui lo spinse via; fu il turno di Guida,
che gli impattò contro e lo scaraventò contro un banco di lavoro pieno di
provette. Sam sbatté la testa e la vista gli si annebbiò. Si riprese proprio
mentre Guida gli strappava il taschino e cercava di afferrare il porcellino
d’india. Esso cadde, si appiattì a terra, prima di svirgolare e catapultarsi
sotto la centrifuga.
«Eh
cazzo!» sbottò Sam. Guida, perso interesse per lui, si girò e caricò la
centrifuga. Tirò una testata così forte, che Sam sentì le ossa del cranio
cedere. Il dottore rimase lì, con la testa incastrata nei frammenti d’acciaio e
polietilene del macchinario. I liquidi delle provette gli colarono sulla nuca e
sul camice sporco di sangue.
Disgustato,
Sam si spostò verso la siringa, a cui tolse il cappuccio. Cercò e trovò un
laccio emostatico, se lo mise sotto il bicipite sinistro, stringendolo bene.
Con la siringa in bocca, diede due colpi all’avambraccio e fece apparire le
vene. Non erano blu, come si sarebbe aspettato, ma di uno strano colore grigio:
sembrava quasi che avesse delle corde di chitarra sotto la pelle.
Mentre
Càzzaro e il filippino si scagliavano contro la centrifuga, Sam si ficcò l’ago
in vena e tirò lo stantuffo. Quando il serbatoio fu pieno, tolse l’ago e
slacciò l’emostatico. Sganciato l’ago, cercò una provetta, la trovò e vi
trasfuse il proprio sangue, poi la chiuse con un tappo.
Rimase
affascinato dal colore del liquido: grigio. Era come se tutto, dal plasma alle
piastrine, si fosse dato al bianco e nero. Lo distrasse uno schianto alla
porta. Si girò e vide gli infetti premere contro il vetro, guardando la
centrifuga. Sam roteò gli occhi, poi, finalmente si risolse ad agire: mise la
provetta nell’unica tasca buona, prese le forbici e si avvicinò a Càzzaro; con
una mano gli afferrò i pochi capelli e, con l’altra, gli appoggiò le forbici
alla tempia. Poi premette. Fu come bucare un grosso uovo di cioccolato, un uovo
ripieno di petti di pollo. La sensazione fu quella. Ebbe il risultato di far
bloccare Càzzaro di colpo e di farlo cadere a terra. totalmente disinteressato
alla cosa, Mel ficcò una mano sotto la centrifuga e spazzò il pavimento, per
cercare il porcellino. Sam lo allontanò e quello si girò verso di lui e fece
per dargli un morso; Sam gli tenne la gola, poi gli appoggiò le forbici su un
occhio e, voltando la testa, spinse. Tuorlo d’uovo e carne trita, la mano sentì
questo. E Mel cadde, senza pensare più al porcellino.
Sam
era esausto e sporco di sangue e chissà cos’altro. si sedette contro la
scrivania e guardò l’animaletto uscire dal nascondiglio.
«Tutto
‘sto casino per te» gli disse. Quello squittì e agitò i baffi. Ora Sam doveva
solo cercare il suo portatile; dentro c’erano i log degli esperimenti che non
era riuscito a caricare sul cloud. Con delicatezza, afferrò il porcellino;
sentì il pancino peloso contro il pollice. Mise l’animaletto nel taschino buono
e trasferì la provetta in quello posteriore dei jeans per evitare “incidenti”.
Prese il suo zaino, ci ficcò dentro il portatile, chiuse tutto e se lo mise in
spalla. Guardò il cellulare.
«Otto
minuti» disse. Staccò le forbici dal cranio di Mel e si avvicinò alla porta.
Gli infetti diedero testate contro il vetro; Sam li guardò e fece un sospiro,
poi tolse la sedia.
Gli
infetti gli si scagliarono addosso e lui affondò le forbici. Quei dottori li
conosceva, aveva lavorato con ognuno di loro: ucciderli non fu semplice.
Mi
dispiace, ragazzi, pensò, mentre dalla sua bocca usciva un «Aaanff» per lo
sforzo. Uno lo morse al braccio, ma lui lo abbatté; uno lo morse alla gamba,
uno gli lasciò i denti sul cuoio della scarpa, uno gli morse il pollice fino
all’osso e tutti per arrivare al porcellino d’india.
Lui
scattò verso la rampa antincendio, aprì la tagliafuoco e cominciò a salire. Dall’alto
sentì dei ringhi echeggiare per la tromba delle scale.
Gli
venne incontro una donna in camice. Le mancavano il naso, una guancia e un
orecchio e i capelli erano tutti aggrovigliati nel sangue. Sam non riuscì a non
provare pietà, neanche quando si spostò di lato e le fece lo sgambetto,
lanciandola giù dalle scale.
Riuscì
a raggiungere il piano successivo e rallentò. Era strano: una volta si sarebbe
dovuto fermare a riprendere fiato, ma adesso il suo corpo sembrava rispondere
bene agli sforzi. Continuò a salire e scoprì di poterlo fare agilmente,
addirittura due gradini alla volta e di corsa.
Fu
in questo stato di stupefatta trance che arrivò sul tetto. Spalancò la porta e
si ritrovò sul terrazzo dalle guglie ottocentesche.
Vide
il cielo limpido e senza una nuvola. Era stato troppo tempo in laboratorio,
nelle ultime settimane.
Allora
gli venne un dubbio. Adagio, con due dita, si tastò i battiti: non ne sentì. Tastò
meglio: niente. Provò a mettersi una mano sul cuore: niente. Il suo corpo era
una cassa armonica senza rumori, senza note. Si tolse la provetta dalla tasca e
la guardò: lì dentro non c’era una cura, perché ciò che aveva inventato era
solo una protezione. Sam Rue era uno zombi: l’avevano morso e al morso non c’è
scampo. Era morto e risorto ma, grazie a quel siero, aveva conservato tutte le
funzioni cerebrali. Sapeva già cos’avrebbero trovato i neurologi, esaminandolo:
una sottile pellicola organica che avvolgeva il cervello, impedendo
all’infezione di raggiungerlo. A cosa sarebbe servito il suo sangue? Si sporse
e aprì la mano.
Mentre
lasciava cadere la provetta, guardò l’orizzonte. Da lontano arrivava un
elicottero. Sam guardò l’orologio: erano passati quindici minuti precisi.
«Dottor
Rue, è lì?» gracchiò la radio. Lui la prese e schiacciò il bottone.
«Sono
qui, mi vedete?» Agitò un braccio.
«La
vediamo… vediamo anche degli infetti…» La voce tacque. Sam si girò e vide alcuni
dottori correre verso di lui, mulinando le braccia e ringhiando. Si preparò con
le forbici, prima di sbuffare.
«Madonna!
Ma quanti sono?»
Dall’elicottero,
qualcuno centrò la testa di un dottore, che rovinò al suolo. Un secondo dottore
fu beccato all’occhio, un terzo, in fronte; un quarto, alla tempia. Al quinto
saltò il braccio, senza che egli rallentasse o se ne preoccupasse. Il sesto fu
beccato alla tempia e così il settimo e l’ottavo. Ma il quinto avanzava ancora.
Cadde a pochi passi da Sam, con la testa bucata dal cecchino.
«Sta
bene, Rue?» gracchiò la radio.
«Sì,
sto bene. Grazie.»
«Di
niente. Si allontani: atterriamo.»
Sam
obbedì e aspettò. Vide l’elicottero inclinarsi, poi ingrandirsi. Gli venne in
mente qualcosa. Tirò fuori dalla tasca il porcellino d’india. Quello lo fissò
con gli occhietti.
Sam
gli sorrise, poi aprì la bocca e vi calò dentro il porcellino. Se lo mangiò con
soddisfazione e cacciò un rutto.
fine
E un bel po' di budella le abbiamo sparse anche oggi! :-D
RispondiEliminaEsatto.povero porcellino:)
RispondiEliminaSaludos!