martedì 30 ottobre 2012

L'albero degli impiccati


Il capitano York dice che l’albero degli impiccati è lì da quando era ragazzo. Dice che lo piantò un messicano nel 1830, ma non ci crebbe nulla. L’unica cosa che pendeva dai rami erano le corde usate per le impiccagioni. I californios ci avevano appeso i propri criminali, poi gli americani ci avevano giustiziato i prigionieri di guerra; qualche cercatore d’oro aveva usato l’albero per uccidere un rivale e infine, i signori della terra, i rancheros, lo adornavano con i colli di chi non andava loro a genio.


Ricordo la prima volta che vidi l’albero degli impiccati.
Eravamo accampati da qualche parte nei pressi di Suttler Creek. Una capanna contorta appoggiata alla parete meridionale della collina e una miniera abbandonata, erano le uniche tracce del passaggio dell’uomo.
Il sole morente bagnava tutto il paesaggio di luce dorata. Era come se un gigantesco barattolo di miele si fosse rovesciato sui pioppi, le rocce e le colline.
C’era, in una profonda conca, circondata da arbusti, una pianta contorta. Pareva sempre al buio, come se nessun sole potesse illuminarne i rami.
Il midollo doveva essere marcio almeno in parte e non si capiva proprio che razza di albero fosse.
-Mio padre diceva solo che era una pianta brutta e che qualcuno avrebbe dovuto abbatterla, ma lui per primo non si arrischiò mai a farlo.- disse il capitano.
York aveva da poco passato i cinquanta, era basso e tarchiato, con la mascella quadrata e un paio di mustacchi che gli arrivavano fino al mento. Aveva combattuto nel quarantasette contro i californios, poi era stato assegnato a un reggimento di cavalleria nella guerra civile e infine, l’avevano messo alla testa di trenta uomini, per tenere a bada gli Apache lungo la frontiera.
-Chi l’avrebbe mai detto!- sputò un’esclamazione mentre sorseggiavamo il caffè. -Tornare nella mia vecchia casa e rivedere quel dannato albero!- la bocca si allargò in un sorriso.
Essendo un giornalista e quindi un curioso per mestiere, mi interessai a ciò che York avrebbe potuto raccontarmi.
-Che ha di speciale quell’albero?- chiesi, con noncuranza.
Gli occhi del capitano mi sorrisero, incidendo rughe sul suo volto. -Sapevo che prima o poi mi avrebbe fatto questa domanda. Voi giornalisti siete dei ficcanaso!- trasse di tasca un sigaro e me lo allungò, quindi se ne accese un altro lui stesso dopo aver finito il caffè.
-Beh, venga con me dopo la ronda notturna e se ne accorgerà lei stesso.- la risposta di York fu enigmatica. Ero incuriosito all’idea di quella spedizione nella conca, ai piedi del famigerato albero. Sarebbe stato un buon articolo per il Pioneer; lo avrei condito con vecchie leggende indiane e cose del genere, per catturare l’attenzione dei lettori.
Così, mi sdraiai nel sacco a pelo, aspettando che York venisse a chiamarmi.

Accanto a me, la guida civile Montgomery Jackson si prendeva uno stralcio di riposo. Aveva condotto i militari da Auburn fino lì, quindi le incombenze dell’esplorazione erano passate al capitano York, che conosceva quei posti meglio di chiunque altro.
Sapevo poco di Montgomery: era nato e cresciuto ad Hannibal sul Mississippi per poi dirigersi all’Ovest. Sperava forse di trovarvi gente diversa, senza pregiudizi contro gli uomini di colore. Si vedeva la sua stima per York: quando il capitano ordinava qualcosa, abbandonava l’atteggiamento rabbioso, per trasformarsi in un cane fedele che pende dalle labbra del padrone.
Lo vidi scendere giù al torrente: un’ombra scura sull’acqua trafitta dalla luce delle stelle; mi addormentai.

Quando York mi svegliò, la luna era una falce gialla in cielo. Aveva portato una lampada ad olio, che non accese subito.
L’accampamento era immerso nel silenzio. Mi infilai gli stivali e allacciai il cinturone con la pistola, tanto per sentirmi al sicuro.
Scendemmo nella conca. L’aria sembrava priva della frescura notturna in quel luogo; era stagnante e umida. York avanzava spedito.
Più mi avvicinavo all’albero e più capivo che l’articolo non avrebbe avuto bisogno di tetre modifiche sulle leggende indiane.
Mi fermai dietro il capitano. La pianta sembrava lo scheletro di un vecchio gobbo, che allargava le braccia verso la notte.
York fece un mezzo giro attorno all’albero, quindi accese la lampada e mi chiamò: -Venite Harris.- non riuscì a trattenere un tono d’eccitazione, come quello di un fanciullo davanti a una scoperta interessante.
Alla luce della lampada, vidi che la corteccia era piena d’incisioni.
-Tutto questo mistero per le scritte di alcuni innamorati?- sibilai, deluso.
-Ma che dite? Non sono nomi di innamorati! Guardate meglio, Harris!-
-Samuel Tennyson, 12 Maggio del 1851- lessi.
-Continui, continui.- fece York sogghignando.
-Joshua Clark, ladro di cavalli, 1860- e poi -Mark Reave, 7 Settembre ‘50- quest’ultimo aveva una croce accanto.
La corteccia testimoniava il passato di quei luoghi.
Vidi numerose altre scritte, molte ormai indecifrabili e altre nitide. L’albero le portava sul tronco come un soldato orgoglioso delle cicatrici accumulate in guerra.
-Qua ci sono incisioni fatte dai californios!- esclamò il capitano, sorridendo. Si alzò sulla punta degli stivali per vedere meglio e io l’imitai.
-José Garcia Vallejo, 1839- fu il primo che vidi.
Mi ritirai inorridito: ne avevo abbastanza di quella scoperta.
-Che c’è Harris? Qualcosa non va?- chiese York.
-In tutta onestà, capitano, ho visto molte cose orribili nella mia vita, ma questa le batte di gran lunga!-
-E’ quello che pensava il mio vecchio. Disse che il primo a scrivere il nome di un impiccato fu proprio quel messicano che piantò l’albero.-
-E chi era il condannato a morte?-
-Lui stesso. Scrisse il nome e si mise una corda al collo, nessuno sa perché.- gli occhi di York guardavano lontano mentre parlava.
-Beh, signor Harris, questi sono tutti i segreti dell’albero. Immagino che possa scrivere un bell’articolo per il suo Pioneer.-
Non udii le parole del capitano: i miei pensieri erano altrove, catturati da quelle incisioni.
L’albero celava le storie di coloro che avevano esalato l’ultimo respiro con una corda al collo.
-Andiamocene, non mi piace stare in questo posto tanto a lungo.- fece York.

Ci incamminammo per uscire dalla conca. Non appena fummo vicini alla vecchia capanna e alla miniera, l’aria sembrò tornare salubre.
Si era alzato un vento freddo, che muoveva appena i rami superiori dei pioppi; inalai il suo soffio a pieni polmoni e continuai verso l’accampamento.
L’odore di cuoio e di orina di cavallo mi dissero che eravamo quasi arrivati, quando, York si fermò.
Pareva annusasse l’aria come un vecchio segugio. Spostò lentamente la fondina della pistola dall’inguine alla coscia e riprese ad avanzare.
-Che succede?- chiesi.
-Non avete sentito?- mi rispose con un sussurro.
Da principio non udì nulla, poi, riuscì a distinguere due voci che squarciavano il silenzio della notte.

C’era, tra i soldati, un tale Ernest Tilburg che celava sotto i gradi di caporale un carattere irascibile, temperato solo dalla presenza di York.
Doveva essere una di quelle persone che tentavano di annegare il proprio passato, arruolandosi nell’esercito e combattendo all’Ovest.
Il capitano aveva visto più volte Tilburg sfogare la propria rabbia contro il giovane Montgomery, insultandolo per il colore della pelle e rendendogli la vita impossibile.
Una volta aveva imposto al ragazzo di pulirgli gli stivali con la lingua, sotto la minaccia di una 45.
Dieci scudisciate erano servite al soldato per ricordarsi che i negri non erano più schiavi, ma liberi cittadini americani.

-Credo che Tilburg mi voglia morto, da quel giorno.- disse York con un ghigno, mentre avanzava verso il campo.
Ad un certo punto, un grido e uno sparo, fecero metter le ali ai piedi del capitano; corse a rotta di collo verso il torrente.
Lo seguii.
I cavalli cominciarono a nitrire e i soldati a svegliarsi allarmati.
Sulla sponda dell’arroyo c’erano due uomini: uno era Montgomery. Il ragazzo era per terra, coperto di sangue e biascicava parole incomprensibili.
L’altro uomo era in piedi; i raggi lunari delineavano ampie spalle e collo taurino, ornato da riccioli scuri. La pistola d’ordinanza era puntata verso Montgomery.
-Questa è la fine che ti meriti, negro…- sentì il soldato (più tardi seppi che era Tilburg) scoppiare in una risata isterica e lo vidi premere il grilletto.
La camicia del povero Montgomery fu macchiata da una rosa di sangue; il corpo ebbe un sussulto e poi si accasciò sull’erba.
York arrivò poco dopo: sferrò un destro al soldato e lo mandò a finire nel torrente, quindi, lo vidi immergergli la testa più e più volte nell’acqua: -Vediamo se così ti calmi, maledetto bastardo!- urlava infuriato.
Io corsi da Montgomery, respirava debolmente: aveva perso moltissimo sangue. Mi guardò un momento, con gli occhi stralunati e fece per parlare, ma la morte se lo portò via prima.
I soldati accorsero dal capitano. Alcuni si tolsero il cappello, rendendo l’estremo saluto al ragazzo.
-Tilburg, dovevo immaginarlo che c’entrava lui.- fece uno degli uomini.
Intanto, York aveva sollevato di peso l’omicida e lo trascinava tra gli alberi.
Il volto del capitano bruciava di rabbia, lo vedevo bene. Mi disse più tardi che si sentiva responsabile per la fine del ragazzo.

I visi degli uomini erano illuminati dal fuoco.
Vidi un giovane soldato guardare verso ovest, in direzione della conca e chiudere gli occhi.
Quella scena mi ricordò che in quel preciso istante, un altro uomo stava per morire.

Il mattino seguente, York diede ordine di levare il campo. Partimmo in silenzio, cavalcando a testa bassa.
L’aria dorata cominciò a dare nuova vita agli alberi, alle rocce e al torrente.
Mentre passavo vicino alla vecchia capanna, gettai uno sguardo verso la conca.
L’albero era lì e, appeso a uno dei suoi rami, c’era Ernest Tilburg.
Sembrava un fantoccio, uno spaventapasseri con il collo piegato in posizione innaturale. Oscillava piano, colpito dal soffio del vento.
Ero sicuro che, in qualche punto, sulla corteccia, l’albero degli impiccati si era fregiato di un nuovo nome.
-Venga via Harris -disse York, vicino a me
-Questo posto è maledetto…-


fine

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