vorrei visualizzaste Birch, il coprotagonista; per me è Treat Williams! eccolo! è preciso a com'è nella storia, no? :) |
Birch buttò il ramo nel fuoco. Era di un giovane pino e cominciò a sparare scintille.
Odore di resina.
«Qui è magnifico.» intervenne Ghiva, indicando le stelle, «È
come dovrebbe essere.»
«Le stelle hanno nomi diversi, ma sì… è la mia terra.» disse
Birch.
«Caffè?» domandò a un tratto.
«Grazie… ha un sapore strano… mi ricorda lo zenzero.»
«Viene fatto da una radice. Il caffè vero è arrivato con voi
sull’astronave; fra poco ci si accapiglierà per quello.»
«Ci si accapiglia per molta roba?» domandò Ghiva.
L’altro fece spallucce, prese la sua tazza e bevve un sorso
di caffè di radice.
«Hai detto settantatre anni…» mormorò, mentre il vapore
caldo gli sfiorava i baffi.
«Già.» disse Ghiva.
«E com’è che sei rimasto…»
«Giovane? Ti fanno un ciclo di iniezioni che modifica i leucociti
in qualche maniera.» spiegò Ghiva.
«Ancora non invecchi?» domandò Birch.
«Sto facendo altre iniezioni per contrastare l’effetto di
quelle del viaggio… così potrò diventare un nonnetto come te, signor Birch.»
«Non t’allargare! Ho quarantasei anni.»
«Scherzavo! …come siete arrivati qui?»
«Su un’astronave, come te, ma la nostra aveva un equipaggio
generazionale e novecentosedici embrioni in stasi pronti a nascere.» spiegò
Birch, scrollando le enormi spalle.
«L’avevo sentito. Quindi non avete una mamma e un papà?»
chiese Ghiva.
«Uhm no, non in quel senso.»
«Ma com’è che… insomma, tu sei un agricoltore, un
proprietario terriero…»
«Oh, quello! Hanno fatto una specie di esperimento
sociologico assegnando a ognuno di noi nascituri un pezzo di pianeta dalle
caratteristiche ben determinate. So che qualche cervellone voleva fare una
specie di selezione sui coloni più bravi ad adattarsi. Fino alla maggiore età
però, siamo cresciuti tutti assieme in una casa-scuola. I nostri insegnanti
erano i membri dell’equipaggio ancora in vita.»
«Novecentosedici bambini con gli stessi maestri!» commentò
Ghiva, «Spero non avessero inclinazioni politiche o religiose ben definite…
altrimenti tutti voi la pensereste allo stesso modo.»
«In effetti è così: la pensiamo allo stesso modo, più o
meno, ma quando alla politica o alla religione, ce ne hanno parlato in maniera
oggettiva senza farcene innamorare. Al compimento della maggiore età, assieme
al vero nome, abbiamo potuto scegliere una religione a nostro piacimento. È una
cosa che hanno fatto più o meno tutti con entusiasmo, ma non troverai nessun
praticante qui, anche se ci sono una chiesa cattolica, una ortodossa, una
sinagoga, una moschea, un tempio indù, uno buddista e così via.»
«C’è uno di tutto?» domandò Ghiva.
Birch annuì.
«Parlavi del vero nome…»
«Già,» disse Birch, «è quello con cui mi conosci. Me lo sono
scelto io in accordo col mio maestro.»
«È un bel nome.» commentò Ghiva.
«Veramente mi chiamo Bravo Bravo Charlie Hotel… Birch.»
«Sembra una specie di matricola.»
«Qualcosa del genere.»
«E tu che religione hai scelto?»
«Nessuna…» disse Birch.
«Come me… vedi, la mia famiglia viene dalla Grande
Repubblica d’Asia, ma io sono cresciuto in Panamerica, lontano dalla dittatura,
per questo conosco la pericolosità delle ideologie politiche e delle
religioni.» disse Ghiva.
«Credo d’aver trovato il motivo per cui sei qui.» commentò
Birch.
«Non ho la faccia dell’agricoltore, eh?»
«E nemmeno del minatore.»
«Già… mi domando come guadagnerò abbastanza per mangiare.»
disse Ghiva.
«Mangiare…» Birch rimase con gli occhi fissi sulle stelle e
la schiena ingobbita. I gomiti gli riposavano sulle ginocchia e il caffè di
radice lasciava salire pigri riccioli nel crepuscolo.
Il fuoco mandò un’altra scintilla.
«Ti faccio vedere una cosa…» l’uomo mise una mano nella
tasca del giubbotto e tirò fuori una provetta che passò a Ghiva.
«Uhm, c’è scritto “maschio caucasico donatori scozzesi
capelli neri occhi azzurri”.» disse questi.
«Io sono la scritta o la scritta è me.» disse Birch.
«Già, sembrerebbe, ma è riduttivo dire così.»
«E perché? Pensi mai alla vita? O… alla morte?»
«Uhm, alla morte parecchie volte durante il viaggio.» disse
Ghiva.
«Ci pensi come spegnimento e autolisi del corpo o come fine
del tuo io?» domandò Birch.
«A dire la verità non saprei.» ammise Ghiva.
«Io ho l’animo avvelenato e nessun obiettivo. Bevo e mi
occupo dei campi, pascolo il mio bestiame e bevo. Non trovo la bellezza in
niente… o forse farei prima a dire che tutto mi è noia. Poi a volte penso ai
miei genitori, che cosa fanno, se sono vivi, se si conoscono. Ci penso anche se
i miei genitori nell’accezione comune, sono i miei insegnanti. O forse dovrei
dire “sono stati”, visto che non esercitano più il mestiere.»
«Ma questa bellezza non ti apre il cuore?» domandò Ghiva, allargando
le braccia come a toccare gli alberi del bosco.
Birch scrollò le spalle.
«Mi sembra ancora strano che non ci siano stagioni.» disse
Ghiva.
«Oh ci sono invece! Sai già che siamo in blocco mareale con
la nostra stella… il nostro sole… e che perciò non c’è giorno, né notte, ma le
stagioni cambiano, anche se non in modo così marcato come succede sulla Terra.»
replicò Birch.
«Per te che sei nato qui dev’essere normale e invece ti
sembrerà strano avere un giorno e una notte.» fece Ghiva.
«Non riesco neanche a immaginarmelo.»
«Ma… i cavalli e gli altri animali che l’uomo ha portato da
casa… come si sono adattati?»
«Non si sono adattati. Se le lasciassimo in un pollaio
all’aperto, le galline non farebbero uova, perché penserebbero sempre che sia
ora di dormire, così per convenzione abbiamo copiato il giorno terrestre e
facciamo fare agli animali dodici ore in stalle illuminate a giorno e dodici
ore fuori, al naturale crepuscolo.»
«Ma dovrete pur portarli al pascolo!»
«I terreni di pascolo sono più a ovest possibile:
praticamente inseguiamo il sole, senza sconfinare dalla fascia del crepuscolo.»
spiegò Birch.
«Altrimenti puff!» Ghiva batté le mani e allargò le braccia.
«Bruceremmo come fiammiferi.» ammise l’altro.
«Quindi il sole rimarrà sempre in quella posizione?»
«Sempre! A meno che non sia tu a spostarti. E ora un
goccetto e poi al lavoro!» Birch si batté una mano sulla coscia e si alzò,
trasse dalla tasca una bottiglia piatta, svitò il tappo e lo usò come
bicchiere.
«Alla salute!» disse Ghiva.
Birch annuì.
Dopo la bevuta si occuparono di bruciare una zona di bosco.
Usarono un accelerante che aveva perfezionato Birch a scuola e che in breve
tempo fece divampare un vasto incendio.
Mentre gli alberi ardevano come torce, Birch insegnò a Ghiva
come circoscrivere le fiamme, predisponendo un cerchio di terra bruciata. Il
fuoco, non trovando più combustibile nel cerchio sterile, si fermava appena
prima.
«Mi dispiace aver ucciso questi alberi.» mormorò Birch,
quando l’incendio finì.
«Avevano quarantasei anni, no?» fece Ghiva.
«Esatto. Li hanno piantati i robot della prima
colonizzazione e uno dei miei maestri, Simak era a capo della cosa. Simak è un
biochimico. Studiando il terreno ha scoperto che ai confini occidentali della
fascia del crepuscolo la terra non è profonda e si compone di uno strato di
qualche metro che poggia su una vasta pianura di scisto, quarzite e argilla.
Piantare gli alberi qui fu un errore e una necessità al tempo stesso: il
terreno per essere nutriente, deve prima venire bruciato e poi rivoltato, che è
quello che faremo adesso. Una volta rivoltato, avremo una pappa nutritiva per
le nostre colture.» spiegò Birch.
«Credo di aver capito, ma per quanto il terreno rimane
così?»
«Due anni terrestri circa, dopo bisogna bruciare una nuova
porzione di bosco.»
«Ma questa zona allora diventerà un deserto sterile!»
protestò Ghiva.
«Non proprio. Ogni volta che brucio qualcosa devo presentare
un resoconto al consiglio degli agricoltori e loro piantano nuovi alberi, in
proporzione, da un’altra parte.»
«Ma la fascia del crepuscolo è finita… voglio dire, corre su
entrambi i lati del fiume che divide il pianeta in due e prima o poi non ci
saranno più posti dove piantare gli alberi.» disse Ghiva.
«Se noi continuiamo a bruciarne, ci sarà sempre posto per piantarne
di nuovi.»
«Così però ci sarà una zona tutta bruciata e una zona
incredibilmente boscosa.»
«La zona successiva da bruciare non è mai attigua alla
prima… funziona un po’ come le macchie di un leopardo.» disse Birch.
«So di fare l’avvocato del diavolo, ma ascolta Birch… gli
alberi non crescono così velocemente da bilanciare questo tipo di agricoltura.»
«Grazie agli studi di Simak crescono circa tre volte più
rapidi di quelli sulla Terra.»
«Non è abbastanza.» commentò Ghiva.
«Non ancora, non adesso,
ma grazie alla tecnologia e alla scienza terrestri Simak è in grado di creare
un super accelerante di crescita.» ammise Birch.
«Sempre questo Simak! Dev’essere un uomo straordinario!»
commentò Ghiva.
«Qualcosa del genere, anche se non sa niente di meccanica.»
«Che c’entra la meccanica?»
«Vedi quel mezzo laggiù? Ha un cingolo rotto e bisogna
ripararlo. Lo useremo per rivoltare le zolle bruciate.» disse Birch.
«Al lavoro allora!» fece Ghiva.
Nelle ore successive, staccarono il cingolo dalle ruote
motrici e lo stesero come il cinturino di un orologio. Proprio come un
cinturino, questo aveva delle piastre e delle maglie.
«C’è una maglia rotta.» disse Birch.
«E quindi?»
«Beh, dovremo fabbricarne una nuova.»
«Come?»
«Ci faremo aiutare da Robin Hood.»
«Ho letto le sue storie… ma come…»
«Te lo presento.» Birch condusse Ghiva nella sua vecchia
rimessa. C’erano attrezzi, compressori, trapani ionici, parti di ricambio,
piastre arrugginite per cingoli, zappe, vanghe, rastrelli, ferri di cavallo e
un umanoide d’acciaio arrugginito.
«Lui crea materia grezza… per esempio una barra di un certo
spessore… e poi la lavora dandole la forma della maglia che ci serve.» mentre
parlava accese alcuni interruttori industriali sul robot e aspettò che si
avviasse. Fra sibili e gemiti di pistoni idraulici, la macchina prese vita.
«Buongiorno, signor Birch!» disse.
«Ciao Robin! Questo è Ghiva… lavorerà con noi. Ora ci serve
una maglia del cingolato.» spiegò Birch.
«Perfetto. Ho nel mio archivio la composizione chimica, la
forma e le dimensioni della maglia. Procedo.»
«Bene… noi ci faremo un bicchiere.» disse Birch.
«Arrivederci, signor Birch!» disse Robin Hood.
«Vieni Ghiva, selliamo i cavalli.»
«Non so andare a cavallo.» ammise Ghiva.
«Limitati a stare in sella.»
Qualche minuto più tardi, cavalcavano lungo il bosco
distrutto.
«Tieni in su i pollici e guida il cavallo proprio come un
cingolato: destra indietro per andare a destra e viceversa. Sii morbido o il
cavallo scarterà.» disse Birch.
«Ma se parte al galoppo?»
«Non lo farà a meno che non sia io a dargli l’ordine.»
«Già è qualcosa.» ammise Ghiva.
Andarono al passo, finché non udirono i gemiti metallici di
un cingolato in avvicinamento. Questo era grosso: aveva una cabina coperta e il
vano scoperto. Si vedevano quattro uomini e un cane.
Il cingolato si avvicinò ai cavalieri e si fermò. Il pilota
spense il motore. Il cane scoreggiò e, sorpreso, si annusò il sedere.
Il portellone della cabina si aprì e scese un uomo; tirò
fuori dalla tasca della salopette un foglio piegato in quattro.
«Uhm… questo posto segnato sulla mappa… sai dov’è?» domandò
guardando Birch.
«Fammi vedere… sì… non è distante.»
«Hey tu!» disse uno degli uomini sul vano scoperto, «Non sei
panamericano, eh! Piccolo bastardo!»
«Dici a me?» domandò Ghiva.
«A te, indù del cazzo.» fece un altro dei quattro.
«La cara e vecchia ignoranza!» commentò Ghiva, «Non
ricordavo d’averla portata in astronave.»
«Ridi, pezzo di merda! Ridete tutti voi della Grande
Repubblica del Cazzo! Questo è un altro mondo e non ci sono le leggi di casa.»
disse il primo, mostrando un fucile.
«Siete sulle mie terre e state offendendo un mio amico.»
disse Birch.
Il pilota fece un sorrisetto e si riprese la mappa.
«Ora andate via!» continuò Birch, «a nord per cinque miglia
e poi a ovest.»
Il pilota salì sul cingolato e accese il motore, poi invertì
la rotta sollevando zolle di terra.
Per un attimo, Ghiva riuscì a fissarsi solo sulla coda del
cavallo di Birch che frustava il vento.
«Che ci vuoi fare? … mi dispiace.» disse Birch, senza
guardare il suo interlocutore.
«Sono abituato a queste cose, ma l’ignoranza fa male lo
stesso, specialmente quando si manifesta in un nuovo mondo.» disse Ghiva.
«Devi averne sentite di idiozie!»
«Da entrambi i lati.» confermò Ghiva, «I miei genitori
dicevano che la GRA chiamava Panamerica “Grande Nemico” con le maiuscole e i
panamericani chiamano la GRA “branco di comunisti”.»
«Decisamente meno melodrammatico.» ammise Birch.
«Più da colono intollerante.» disse Ghiva.
Il contadino sorrise, poi si sporse sulla sella:
«Guarda guarda!» disse, smontando. Gli stivali affondarono
nella terra incendiata. Birch si chinò a raccogliere qualcosa.
«Credo sia una specie di segnatempo.» disse.
«Un orologio da polso.» confermò Ghiva.
«Te ne intendi?»
«Beh, smonterei da cavallo per guardare meglio se sapessi
come risalirci di nuovo.»
«Ecco, guarda.» disse Birch, tenendo l’orologio all’altro.
«Cassa in oro con incisioni in greco.»
«Vale qualcosa?»
«Credo di sì.»
«Allora siamo parecchio fortunati!»
dicendo questo, Birch montò a cavallo e lasciò che Ghiva
tenesse l’orologio.
Ripresero ad avanzare, ma cambiarono direzione seguendo per
un po’ quella dei bifolchi e piegando a destra improvvisamente.
«Non saprei orientarmi senza una mappa o la navigazione
satellitare.» ammise Ghiva.
«La tua nave li sta mettendo in orbita adesso i satelliti.»
spiegò Birch.
«Ma dove andiamo?»
«Tracce di cingoli alle spalle, sempre dritto.» disse Birch.
«Bene!» Ghiva si accontentò dell’ovvia spiegazione.
Guardando l’orologio, s’accorse che erano passate due ore.
Un piccolo fiume splendeva come rame fuso tra montagne
minuscole e verdi. Gli alberi della Terra stavano lì, in piccoli mucchi come
per trarre conforto l’uno dall’altro, circondati da una distesa di tarassachi
decisamente alieni: azzurri e alti due metri.
Vicino al fiume c’era una specie di grosso contenitore per
uova schiacciato su un angolo. Davanti si vedevano due cavalli e un veicolo
come quello di Birch.
«Leghiamo i cavalli… ti aiuto a smontare…» Birch tirò giù
Ghiva di sella e lo posò delicatamente al suolo.
Poi entrarono nell’edificio.
«Barbecue!» disse un tizio con capelli biondi e salopette da
minatore.
«London…» salutò Birch, «Ragazzi… questo è Ghiva il mio
aiutante.»
«Salute a te!» London replicò, alzando il bicchiere.
Dentro c’erano, compreso il biondo, cinque donne e tre
uomini. Un uomo e una donna erano vestiti diversamente dagli altri: avevano
abiti di cuoio e di corteccia d’albero e alla cintura portavano coltelli fatti
di foglia.
«Allora Ghiva… aiuti il vecchio a bere?» scherzò London.
«Appena in tempo, Birch.» disse un tizio col collo magro,
due labbra da pesce rosso e un pizzetto appuntito.
«Questo è il professor Del Rey, uno dei miei insegnanti.»
spiegò Birch a Ghiva.
«Piacere, John.» l’uomo, le cui vene segnavano un intrico
azzurro sotto la pelle quasi d’alabastro, porse la mano a Ghiva e gliela
strinse leggermente, solo con tre dita, guardandolo con occhi semichiusi.
London pigiò un grosso bottone su un pilastro e il soffitto
della scatola delle uova basculò e si spostò per una parte.
La tenue luce del sole infuse il crepuscolo all’interno
delle mura.
Affascinato, Ghiva si accomodò su una delle alte sedie
presso il bancone, le mani che appena sporgevano dal giubbotto troppo grande.
«Lo bevi il whisky?» gli domandò il professore, con un’occhiata
in tralice.
«Beh… non di solito, ma ne accetto volentieri un po’.»
«Questo lo fa il professore!» disse London.
«Lo distilli tu?» chiese Ghiva.
«No, quel robot laggiù.» Del Rey indicò una specie di
caffettiera mezza nascosta dal bancone.
«Sono arrivati qui con noi nel primo viaggio.» spiegò il
professore.
«E il robot distilla il whisky?»
«Lo crea: basta aggiungere la corrispondente quantità
molecolare di materiali grezzi.» disse Del Rey.
«Quando il prof fa il whisky se ne vanno le luci del Forte.»
disse London, sorridendo.
«Il Forte?» domandò Ghiva.
«Il Whoop Whoop.» disse una delle donne.
«Oh!» fece Del Rey, aprendo le mani a ventaglio, «Era il
nome di un posto di scambio nella vecchia Panamerica.»
«Brrr entra un freddo!» commentò Ghiva.
«Oh ti devi abituare!» disse London.
«Come fai a indossare la salopette e nient’altro?» domandò
Ghiva.
«Perché mi spalmo di grasso di zanzara-aquilone.» il biondo
s’indicò il petto.
«Eccoli!» l’avvertimento, sommesso, ma udibile, arrivò dalla
bocca dell’uomo vestito di corteccia. I suoi occhi puntavano verso l’alto.
Ghiva seguì lo sguardo e strizzò gli occhi.
«Aspetta…» gli disse Birch.
«Ora!» con un dito indicò il cielo. «Wow!» disse London,
sputacchiando dal bicchiere.
Ghiva vide una folla di puntolini neri scivolare sul sole.
Erano piccoli come pianeti lontani.
«Che cosa sono?»
«Sss! Guarda!» disse Birch.
Qualcosa di enorme avanzò piano, gettando il crepuscolo in
un’improvvisa notte.
«Li vedi?»
«Sì… ma…»
«Sono alieni, le forme di vita più grandi di qui: meduse
piene di gas.»
«Sono… bellissime!»
esclamò Ghiva.
Per vedere meglio, Del Rey aveva spento ogni luce e ora i
volti di Birch, di London e degli altri non erano che macchie d’ombra. Però
Ghiva, che sulla Terra si sarebbe sentito a disagio, avvertiva una grande
calma.
Per la prima volta era senza pensieri.
Gli venne in mente un foglio bianco su cui nessuno ha
cominciato a scrivere. Un foglio su cui potrebbe esser scritta la storia più
bella.
Il branco passò e le luci si accesero. Del Rey pigiò il
bottone e, adagio, la scatola delle uova si richiuse.
«Birch… qualcosa da scambiare?» domandò il professore.
Ghiva tirò fuori l’orologio e lo diede a Birch.
«Ecco.»
«Uhm, la copia di un antico Tissot.»
«Dieci casse.»
«Te ne do anche dodici… lo sai che odio fare il mercante
arabo con te… e che mi piacciono i segnatempo.» mormorò Del Rey.
«Siamo a cavallo, perciò se me le puoi portare dopo…»
«Te le porto io, Barbecue.» disse London.
«Dammi solo un paio di bottiglie per il viaggio.»
controbatté Birch.
Il professore annuì e sparì nel retro, tornando con due
grosse bottiglie di whisky.
«Attento ragazzo,» disse a Ghiva, «questo qui ti farà fare
la fame e la sete, ma di mancanza di whisky non morirai mai.»
«Abbiamo provviste a sufficienza.» disse Birch, prendendo le
bottiglie.
«Ci vediamo dopo!» disse London, salutandoli.
Birch annuì, Ghiva agitò la mano e sorrise. Tutti risposero
con un cenno.
Più tardi, i due erano sulla strada del ritorno.
Ghiva si sentiva più sicuro in sella, anche se aveva forti
dolori:
«Mi pare di avere tutte le ossa rotte.» confidò a Birch.
«Stai andando bene! Cerca di assecondare i movimenti del
cavallo: sali e scendi.»
«Ci provo… ma senti, chi erano quei due vestiti a quel modo
strano?»
«Beh…» Birch prese la bottiglietta dalla giacca, svitò il tappo,
lo riempì e fece un sorso, «quelli sono Elmtree e Oak… hanno deciso di vivere
come i pianni.»
«I… cosa?»
«Stanno più a nord, su entrambe le rive del fiume… circa
trecento di noi vivono come gli uomini pianta.»
«Ci sono degli uomini… pianta?» domandò Ghiva.
«Beh, non li ho mai visti, ma Simak li ha studiati a lungo:
pare che il loro habitat sia il fiume e che passino la vita a nuotare o a stare
nascosti nei boschi di tarassachi e d’aloe di pietra e che abbiano la testa a
forma di petali di fiore.»
«Wow!» disse solamente Ghiva.
Quando si profilò la casa di Birch, videro che ogni luce era
spenta e tutto taceva: le stalle, i recinti elettrificati, i piccoli edifici
delle colture idroponiche… tutto buio.
Si avvicinarono adagio, Ghiva senza dire niente e Birch
sogghignando.
Misero i cavalli nel ricovero, tolsero le selle e andarono
alla rimessa.
«Robin!» chiamò Birch.
«Sono qui.» rispose il robot. Apparve dietro una pila di
vecchi mozzi per cingolati, stringendo una sbarra metallica.
«Sono entrati degli uomini.» fece il robot.
«Volevano te?»
«Mi dispiace: ho usato la sbarra per colpirne uno.»
«Morto?»
«No, signor Birch.»
«Hai prosciugato tutta l’energia?»
«Sissignore. Se crede posso spegnermi.»
«Piega la sbarra prima: ci serve la maglia.»
«Sissignore.»
Il robot si mise all’opera. Birch si aggirò per la rimessa
facendo dondolare la testa in cenni d’assenso rivolti a sé.
«Intanto pranzeremo.»
«Oh, non ho più cognizione del tempo.» ammise Ghiva.
Birch spinse una porta incastrata e passò oltre.
«Cos’è?» domandò Ghiva, dietro di lui.
«Un aereo… piuttosto vecchio.» disse Birch.
«Funziona?»
«Come il cingolato, ha bisogno di riparazioni.»
«Mi piacerebbe volarci.»
«Non hai volato abbastanza nello spazio?»
«Lo spazio è orribile: è come galleggiare nella notte senza
tempo e senza riferimenti.»
«Ci metteremo al lavoro sull’aereo.» disse Birch, «ora
pranziamo.»
«Bene.»
«C’è qualcosa che non puoi mangiare? Intolleranza alimentare
o religiosa?» domandò Birch.
«Mi sono lasciato alle spalle tutto.» disse Ghiva,
sorridendo.
Uscirono dalla rimessa, lasciando Robin Hood a piegare la
sbarra con precisione millimetrica.
Entrarono in casa; Birch accese i fornelli e si mise a
cucinare.
«Pollo?»
«Va bene.» disse Ghiva.
Quando fu pronto e Ghiva lo assaggiò, i suoi occhi si
spalancarono.
«Qualcosa che non va?» domandò Birch.
«Affatto! La carne è squisita! È più dura del pollo a cui
sono abituato… odora di… selvaggina.» spiegò Ghiva.
«Allevo io questi polli.» disse Birch.
«Cosa mangiano?»
«Semi, vermetti…»
«Io pensavo che le galline si nutrissero di estrogeni!»
scherzò Ghiva.
«Ho visto tracce di cavalli qui fuori.» disse Birch ad un
tratto.
«Chi pensi che siano?»
«Oh… i nuovi coloni.»
«Ma… non abbiamo polizia su questo pianeta?»
«Diciamo che il pianeta giuridicamente è territorio extraterrestre,
ma è incluso nella giurisdizione della prima astronave, dunque il capitano, il
professor Margroff, è il presidente del governo pan-planetario e gli altri miei
insegnanti formano il concilio. Le leggi vengono fatte rispettare dai
professori stessi come è stato per quarantasei anni.»
«Ma adesso siamo di più.» osservò Ghiva.
«Domani.» disse Birch, strappando un pezzo di pollo, «Domani
cambieranno molte cose.»
Finito di pranzare, andarono alla rimessa dove Robin Hood
aveva costruito la maglia.
Ci volle quasi un’ora per riparare il cingolo.
«Bene!» disse a un tratto Birch.
Più tardi, Ghiva fece grattare la trasmissione mentre
innestava la marcia più bassa. Il cingolo destro risalì sulla terra bruciata,
artigliando un grosso pezzo di scisto. Odore di olio e carburante galleggiava
nelle narici dell’uomo.
Dalla terra dei coloni apparvero tre cavalieri: uno aveva il
braccio destro al collo.
Birch batté sullo scafo del mezzo e scese dall’aratro a
rimorchio. Ghiva girò la chiave e il motore borbottò prima di rimanere in
silenzio.
«Signor Birch!» disse il cavaliere ferito.
«Chi lo vuole?»
«Achilles Papadakis, signore.»
«Non conosco nessuno con questo nome.» disse Birch.
«Io credo che tu abbia qualcosa di mio.»
Birch rimase in silenzio.
«Il mio orologio d’oro.» disse Papadakis.
«Siete venuti a ficcare il naso nella mia proprietà
stamattina?» domandò Birch.
«Sei uno pieno di merda.» disse un altro dei cavalieri.
Ghiva scese dal veicolo e andò accanto a Birch.
«Hey indù!» esclamò il cavaliere, sguainando un fucile dalla
sella. Con calma, caricò un ago e prese la mira.
«Bum!» disse.
«Arriva qualcuno.» mormorò il terzo compagno a Papadakis,
«un cingolato.»
I tre rimasero lì, in sella. Ghiva si girò e vide London,
barba bionda e salopette, in cima al veicolo scoperto.
Dietro l’uomo c’era una gobba fatta da un telo impermeabile
assicurato con corde.
London schizzò terra bruciata ovunque, fece aumentare di
giri il veicolo e spense il motore. Si tolse gli occhialoni e saltò giù. Senza
dire niente, scostò il telo… e afferrò una carabina.
«Salute coloni!» esclamò, sorridendo.
I tre non dissero niente, ma Papadakis lanciò un ultimo,
lungo sguardo a Birch, poi fece voltare il cavallo. Gli altri lo seguirono.
Quando se ne furono andati, London posò la carabina, salutò
Birch e Ghiva, quindi salì sul mezzo e lo parcheggiò vicino alla casa, poi
tutti e tre scaricarono il whisky.
«Ti aiuto ad arare.» si offrì London a un tratto.
Birch scrollò le spalle, poi si versò un goccio.
Ghiva tornò sul veicolo, lo mise in moto, tolse il freno
all’aratro a rimorchio e innestò la marcia. London lo precedette, dandogli la
direzione.
Birch uscì dalla rimessa con una tanica vuota, poi
s’incamminò verso i due. Ghiva lo vide e fermò il motore. Altrettanto fece il
biondo.
«Robin ha consumato tutto il carburante,» disse Birch,
«quanto ne ha Del Rey?»
London si grattò la barba: «Abbastanza.»
L’altro annuì:
«Ghiva, andresti con London al Whoop Whoop? Abbiamo bisogno
di cinquanta litri di carburante.»
«Beh… sì, okay.»
«Okay.» disse Birch.
Ghiva sorrise, smontò dal veicolo e salì su quello di
London.
Durante il tragitto, pensò agli spazi vasti di quel pianeta.
Poi pensò alla Terra, dove si stava ammassati, dove lo spazio vitale era di un
metro, dove molte famiglie facevano a turni per stare in un piccolo
appartamento. Pensò al viaggio in astronave a 55000 chilometri al secondo nel
cosmo gelido.
E si sentì un po’ colpevole. Come se ce li avesse portati
lui gli ignoranti e i razzisti sulla terra promessa.
Arrivati al Whoop Whoop, impiegarono molte ore per
raccogliere il carburante e caricarlo su un rimorchio.
«L’ultima tanica.» disse Ghiva.
London annuì.
Quando tornarono, arrancando per il carico, Ghiva lo vide:
un fagotto scuro sulla soglia di casa.
Si fermò a lungo e non disse niente.
C’erano impronte di cavalli.
Interrogarono Robin Hood, non cavandoci nulla: il robot si era
spento dopo aver creato la maglia.
«Vieni! Non è sicuro stare qui.» disse London a un tratto.
Ghiva diede un ultimo sguardo alla casa e al tumulo di terra
dove avevano seppellito Birch, poi salì accanto al biondo.
London innestò la marcia e diede gas.
Poi il tempo accelerò e i giorni si confusero.
Questo racconto me lo ha ispirato la short story "Twig" che ho letto in Estate guardando il mare. Era su una raccolta "Fantapocket" dal titolo "Stellar" (se non sbaglio), ma proprio non riesco a ricordarne l'autore. Credo possa essere Lester Del Rey, perché nel racconto ho usato il cognome Del Rey e magari l'ho fatto come tributo allo scrittore di quella storia.
RispondiEliminaSaludos!