Guidava da quattro ore
bevendo caffè, quando vide il ranch nel deserto. L’ultima invenzione era
produrre il whisky in Messico e scaricarlo lì. C’erano tre furgoni e dei
cavalli. Non che Ames fosse uno sbirro o baciasse il culo alle “sorelle della
temperanza”. Stava seguendo una traccia e sperava che fosse la volta buona.
Guidò la macchina fra i
cespugli e giù per una duna, a ridosso di un canyon. Afferrò il mitra e risalì
la scarpata. Se sbirri e federali l’avessero beccato con quel ferro in pugno…
beh, c’era la gattabuia a Florence. Doveva andarci coi piedi di piombo ed
eliminare ogni traccia.
Si avvicinò al ranch da
nord. Le ombre erano lunghe.
Poco più in là, dei tizi fumavano
e scaricavano casse in uno dei furgoni. Forse avrebbero riempito solo quello,
usando gli altri come specchietto per le allodole.
I veicoli erano tutti
uguali. Sulla fiancata c’era scritto “servizio postale degli Stati Uniti”. Non
sapeva come avrebbero fatto ad abbattere i costi di trasporto. Il liquore,
sicuro, era distillato da robaccia messicana e venduto oltreconfine per pochi
centesimi o addirittura, per niente. Magari c’era un accordo con gli sbirri di
frontiera e questi chiudevano un occhio sul viavai da Nogales.
Si avvicinò. Oltrepassò i
recinti e si nascose dietro un abbeveratoio. Sopra di lui correvano i fili del
telegrafo e i pali della luce elettrica.
Dal ranch uscì un uomo
armato di fucile e con un sigaro in bocca. Ames lo riconobbe come un
vicesceriffo di Pima. Era abbastanza vicino da distinguere il ghiaccio nei suoi
occhi azzurri. Il vice guardò a destra, a sinistra, poi disse agli uomini di
sbrigarsi e rientrò.
Ames approfittò del
momento per correre verso i furgoni. Si nascose dietro il primo, lo aggirò e
mise fuori il naso. Dietro l’angolo, vide gli uomini continuare le operazioni.
Un pennacchio di fumo si levò dal terzo veicolo.
I cavalli erano più a
destra, legati alla staccionata. Erano quattro e avevano tutti la sella. Sui
quarti, Ames riconobbe il marchio Crazy T, di un ranch di Three Points. Se non
erano rubati – e in quel caso, i ladri avrebbero contraffatto il marchio – era
possibile che il padrone del ranch avesse a che fare con lo smercio di
alcolici. Assieme al vice, naturalmente.
Pensò di rivendere
quell’informazione ai federali, e sorrise. Abbassò gli occhi per un attimo e
sentì lo sbuffo di sospensioni idrauliche. Quando li rialzò, vide l’automa
guardarlo dalla canna di un Thompson.
Era una specie di
cavaliere rinascimentale di due metri, tutto d’acciaio. Un pennacchio di fumo
gli usciva dalla testa e dalla grata dell’elmo.
Ames si gettò dietro il
furgone, mentre l’automa faceva partire una scarica. I cavalli nitrirono e
s’impennarono. I criminali urlarono e si gettarono a terra. Il vicesceriffo
schizzò fuori dal ranch, sparando.
Il Thompson dell’automa
fece esplodere il finestrino anteriore sinistro del primo furgone. I colpi
viaggiarono verso il parabrezza, descrivendo una traiettoria obliqua
nell’abitacolo. Il parabrezza esplose e schegge di vetro graffiarono l’orecchio
di Ames. L’uomo indietreggiò, senza sparare.
«Hey vice, ho beccato un
topolino!» disse l’automa, con accento metallico, e in perfetto americano.
«Dietro il primo veicolo!»
aggiunse, a mo’ d’informazione per i criminali.
Il vicesceriffo balzò dal
retro del furgone e puntò il fucile addosso a Ames. «Maledetto sbirro!» disse,
muovendo la leva dell’arma.
«Non… n-non sparare! Non
sono della polizia.»
«Beh, io sì,» disse il vice. «E tu sei un contrabbandiere: stavi fuggendo
e t’ho impallinato.» aggiunse.
Ames capì che non avrebbe
avuto scampo. E sparò. La raffica abbatté l’uomo. Poco più indietro, l’automa
aprì il fuoco su di lui. L’uomo si gettò in avanti e sentì come un soffio caldo
sui pantaloni, all’altezza della gamba destra. Atterrò con i gomiti nella
polvere e, per il contraccolpo, batté la testa. Si tagliò su un pezzo di scisto
e sentì bruciare. Appoggiò la schiena al furgone e girò il mitra a sinistra. Inquadrò
le gambe metalliche del robot. «Mi dispiace, amico.» disse, aprendo il fuoco.
Le pallottole rimbalzarono sulla corazza. Una bucò la gomma anteriore destra
del furgone. Ames si diede un forte slancio e si staccò dal veicolo, alzandosi
in piedi. La gamba destra gli faceva un male d’inferno. Si trovò davanti un
uomo e sparò. Il Thompson vomitò fuoco e l’uomo crollò nella polvere,
schizzando sangue. I cavalli continuavano a nitrire.
Ames si gettò in avanti e
finì contro la parete del ranch, vicino ad una delle finestre. Sentì il vetro
schiantarsi e un soffio gli passò fra i capelli. Sentì qualcosa di caldo
colargli sulla nuca, come se gli ci avessero spiaccicato un uovo sopra. Si
gettò a terra. Un uomo uscì dalla porta e si fece scudo col battente. Ames
sparò al battente, crivellandolo. Sentì il tonfo di un corpo che cadeva. Poi,
la parete vibrò, mentre dei colpi di Thompson esplodevano tutto attorno.
Schegge di legno volarono a conficcarsi nel braccio destro di Ames. Con sbuffi
di vapore, l’automa avanzava, lungo il fianco del primo furgone.
«Sei kaputt, amico.» disse il robot. L’uomo digrignò i denti e schizzò
all’interno del ranch. Superò un corpo riverso, sentì un urlo e vide una sagoma
avvicinarsi dalla stanza principale. Un uomo, una specie di bestione barbuto,
impugnava una scure da boscaiolo, tenendola alta sopra la testa. Ames puntò il
mitra e premette il grilletto. Sentì un clic
e il percussore scattò a vuoto. Gettò il mitra contro l’uomo, che lo deviò con
la scure. Si sentì il crac del legno, quando il barbuto conficcò la lama tra le
assi della parete, dove prima c’era stato Ames. La finestra esplose totalmente,
crivellata dai colpi dell’automa. Le pallottole intercettarono un secondo uomo,
che si trovava già all’interno del ranch, e che aveva sparato ad Ames,
sfiorandogli la nuca.
L’uomo, colpito, urlò e
l’automa disse: «Cristo! Scusa, amico.»
Poi, dalla sua gola
metallica, uscì un singhiozzo. Sembra
ubriaco!, pensò Ames. Era possibile per un automa sbronzarsi? Evidentemente
sì.
Sferrò un pugno al fianco
del barbuto, strappandogli niente più che un piccolo gemito. Quello lo guardò,
da sotto le sopracciglia da gufo. Un sorriso di denti gialli lampeggiò fra i
peli della barba.
Ames afferrò una sedia e
gliela scagliò addosso. L’uomo si scansò, mollando il manico della scure. Ames
si precipitò sull’arma, digrignò i denti, urlò e la staccò dalla parete. Il
contraccolpo lo fece cadere di schiena.
Il barbuto ruggì e gli si
gettò addosso, deciso a finirlo. Ames riuscì a scagliargli addosso la scure. La
lama si conficcò nel cranio, col rumore di una manata su una pozza di fango.
Il barbuto girò gli occhi
e crollò sul pavimento. Ames, rotolando di lato, si alzò, guardò nel vano della
porta. Là c’era l’automa. La cresta dell’elmo sfiorava l’architrave. Da dietro
la grata, lampeggiavano due occhi gialli come lampadine elettriche.
«Alza le mani, baby!»
Ames obbedì. Dal pantalone
destro, sangue stillava sulla scarpa.
Era una situazione bizzarra:
un uomo, stravolto da ore di sonno perso e dal troppo caffè, stava in piedi, a
mani in alto di fronte a un’armatura del rinascimento animata e con un mitra in
pugno… un’armatura che fumava dalla testa e sembrava ubriaca fradicia.
«A-ascolta… ti cerco da un
sacco di tempo.» esordì Ames.
«Cerchi… me?» domandò l’automa.
«Sì! Sei la più grande
invenzione di Leonardo! Ti conosco bene fin da quando partecipasti ai tornei in
Francia. La mia famiglia viene da lì… il mio trisnonno era Jacques Ambrose di
Arles… d-discendiamo da una stirpe di patrizi dell’antica Roma, gli Ambrosii…»
«Non sei uno sbirro?»
domandò, perplesso, l’automa.
«No! No!»
«E cerchi me.» ora il
robot sembrava pensieroso. Piegò la testa in basso, come a guardarsi le punte
dei piedi.
Quando la rialzò, le
lampadine brillarono più intensamente.
«Provami che sei chi dici
di essere.»
«O-okay, ma dovrò mettere
la mano all’interno della giacca… p-per prendere i documenti.»
«Fallo, tanto se cerchi di
fregarmi, ti sparo.» disse l’automa.
Ames annuì e mise la mano
dentro la giacca, afferrò il passaporto e lo tese.
«Gettalo verso di me.»
disse l’automa. L’uomo obbedì. Il passaporto cadde ai piedi del cavaliere
metallico, che si chinò e lo afferrò con una mano.
«Gordon Ames, avvocato di San
Francisco.» disse.
«Sono io.» confermò
l’uomo.
L’automa annuì e scosse il
testone metallico. Abbassò il mitra. Quando parlò, fu come se pensasse ad alta
voce. «Forse, dopotutto… beh, quantomeno è meglio che stare con i contrabbandieri…»
«Ascolta… io non sono un
automa di Leonardo da Vinci, ma ho aiutato Leonardo a inventare l’armatura che
vedi… e poi gliel’ho rubata. L’ho fatto per un motivo valido, ossia, proteggere
la mia gente.»
L’altro corrugò la fronte.
«Non capisco.» disse.
«Abbassa le mani, non
voglio spararti.»
«Okay.»
«Dunque… puoi aiutarmi?
Puoi aiutarci?»
«Beh… ehm, signor automa,
io…»
«Coraggio!»
«C-certo…»
L’automa annuì, poi lasciò
cadere il mitra. Con un grosso indice metallico, si premette il sottogola
dell’elmo. E avvenne una cosa straordinaria: l’elmo si aprì, con uno sbuffo di
vapore e, con esso, si aprì una parte del torace. Le spalle ruotarono
all’indietro e il petto si spaccò in due.
Quando il vapore si
dissipò un poco, Ames allungò il collo e sgranò gli occhi.
«Occristo!» disse.
Due manine rosa da bebè
stringevano le leve dei comandi dell’automa. «Sono una creatura di un altro
pianeta.» disse una voce profonda, dentro al vapore.
Ames sentì, dietro la
schiena, la parete della stanza del ranch e vi appoggiò i palmi.
«Mi risulti schifoso anche
tu e tutti gli umani.» disse la creatura. Dal vapore venne fuori una testa
calva, rosa, informe, con un paio d’occhi e una bocca senza labbra.
«Avete i piedi, la colonna
vertebrale… insomma, fate schifo, v’assicuro, ma sono stato costretto a vivere
in mezzo a voi per seicento anni e,
come dire, mi sono abituato.»
«Occristo!» disse Ames.
L’automa si richiuse,
nascondendo la creatura. L’elmo si rimise in posizione e le lampadine si
accesero.
«Nella speranza che tu recuperi
un po’ di sale in zucca.» disse l’alieno.
«C-certo…»
«“C-certo” non mi aiuta.»
Ames deglutì.
«Mi hai seguito per tutto questo
tempo e ora sono davanti a te, perciò evita di startene in silenzio e dimmi… da
avvocato a creatura di un altro mondo… c’è la possibilità che io e i miei diventiamo
apache jicarilla?»
L’uomo strabuzzò gli
occhi. «C-come?»
«Beh, è semplice: il
governo ci cerca, ci ha sempre cercati… qualsiasi
governo, fin da che arrivammo in Francia, da che la nostra nave si schiantò.
Siamo riusciti a sfuggire a tutti i “federali” di tutte le epoche, ma con
questi è più difficile, però, da che lavoro coi gangster, ho imparato un paio
di cose di giurisprudenza e credo d’aver trovato la soluzione al problema. Se
chiedessimo e ottenessimo asilo dai jicarilla, beh…»
Ames sgranò gli occhi e
annuì. «Sareste fuori dalla giurisdizione federale!» disse.
«Vedi che c’intendiamo? E
ora, se sei così gentile da darmi una sigaretta…»
«C-come?»
«Accendila e ficcala nella
grata!»
«C-così?» domandò Ames,
prendendo una sigaretta, accendendola e avvicinandola all’elmo.
«C’è un tubicino che mi
porta il fumo dritto nella cabina di pilotaggio.» disse la creatura. «Stessa
roba con l’alcol… e, tra parentesi, quella roba messicana fa schifo.» aggiunse.
«Ma non è possibile… non
sta capitando a me.» disse l’uomo.
«Invece sì, amico.» il testone
dell’automa fece su e giù.
«Ora è meglio levarsi di torno.
Un avvocato in prigione non mi serve.»
Ames annuì e guardò i
corpi dei gangster.
Questo, come altri scritti per ora, è un esercizio di scrittura e fa anche le veci di racconto. Sto adoperando gli esercizi per imparare l'uso del corsivo, per migliorare l'uso dei dialoghi, per imparare le regole sui numeri, sulle date e cose del genere.
RispondiEliminaQuesto, in particolar modo, l'ho usato per ridurre la ripetizione del nome del protagonista, difetto che mi ha evidenziato Daniele Imperi sul racconto Connor Kenway.
Saludos!