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Milano continuava ad essere bombardata e circolavano storie
su “penne esplosive” lanciate dagli aerei americani per mutilare i bambini.
Fausto sentiva le notizie dai pochi abitanti di Lomazzo,
mentre cercava la casa dello zio Cesare.
«Mai sentito.» gli rispose una donna con un vestito a fiori.
«Lei è probabilmente la centesima persona a cui domando.»
disse Fausto.
«Ma scusi, è sicuro che sia proprio questo il paese dove abita
suo zio?»
«Sì… o almeno credo… mi pare di ricordare fosse Lomazzo o
qualcosa di simile.» rispose Fausto.
«Qualcosa di simile a Lomazzo, qui al Nord?» chiese la
donna.
«Sì, in Lombardia.» rispose Fausto, annuendo.
Il paese giusto si chiamava Domaso. Era all’estremo Nord del
lago di Como, sulla sponda opposta a Colico.
Fausto ci arrivò un po’ a piedi, un po’ salendo dietro
carretti trainati da asini o muli. Alcuni gli ricordavano le bestie del plotone
mortai e una volta, in un mulo rossiccio e grande, gli parve di riconoscere
Mimmo.
E pensò: «Povirazzo! Che fine avrai fatto?»
Domaso gli si annunciò in un tripudio di odor di alloro e
camelie, mentre i cipressi ne coronavano la forma arroccata sulle spiagge del
lago. Era un villaggio dolce, di poche anime, dove l’acqua ospitava piccole
barche e le strade, biciclette e asinelli.
Fausto ci arrivò con qualche grammo di speranza in corpo,
visto che non aveva altro.
Non c’erano tedeschi a turbare la quiete del lago, ma solo
il grigiore che prelude l’apparire del sole.
Un uomo lavorava sulla chiglia di una barca tirata in secca.
Lui e Fausto erano le uniche persone in movimento su uno
scenario di casette grigie e di asini piccoli e silenziosi.
L’uomo aveva il naso grosso, le guance rubizze e la
struttura enorme, ma era magro e gli occhi sembravano volersi nascondere dentro
le orbite.
Guardò Fausto e gli disse qualcosa che lui non capì.
Che diavolo di lingua parlavano in quel posto?
«Senta, ci sono tedeschi in giro?» si decise a chiedere.
L’altro guardò a destra, a sinistra, poi posò gli occhi su
Fausto e, serio, disse: «No.»
Il sergente parve rilassarsi un poco.
«Sto cercando un mio zio, abita qui, si chiama Cesare… »
stava per dire il cognome, quando il pescatore indicò una delle case che
s’affacciavano sulla spiaggia. Era stretta e a due piani, incassata fra altre
costruzioni simili, dall’aria vetusta.
Fausto sorrise: «La ringrazio.» disse.
Quello annuì con un grugnito e si rimise al lavoro.
Fausto camminò sino alla porta di legno verde. Al piano
superiore, le imposte erano aperte e una donna lo sbirciava. Alzò la mano, la
chiuse a pugno… e bussò.
Rumore di passi strascicati, poi un: «Sì?» di voce arrochita
dagli anni.
Il sergente si schiarì la gola.
«Uhm… zio Cesare… sono io, Fausto, tuo nipote da Palermo.»
Dall’altra parte, silenzio. Poi un mormorio indistinto e,
infine: «Faustino?» nel nome riaffiorò un po’ di quell’accento siciliano
addormentato dal lago.
La porta fu aperta e un uomo basso, dalla faccia rotonda e
grinzosa, spalancò le braccia. «Faustino!»
«Zio Cesare!» per la prima volta dopo giorni, il sergente
sorrise… e abbracciò il vecchio.
Il corpo di Fausto ritrovò la sensazione perduta di essere
stretto da mani amiche.
Lo zio Cesare si girò verso la donna che, proprio allora,
scendeva giù dalle scale.
«Zia! Tale’ ccu’ ccé! Preparaci qualcosa a Faustino!» disse.
Lei, una donnetta bassa con la cuffia bianca a fiorellini,
guardò il nipote che non aveva mai visto. E gli sorrise.
«Polenta.» disse.
E Fausto ne mangiò tanta di polenta e poi si mise a
dormire, mentre la zia gli rammendava i pantaloni e il cappotto presi in
Francia.
continua