mercoledì 22 febbraio 2012

In cammino - 7

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Passò l’inverno con i compagni su in montagna, nascondendosi nelle caverne e portando viveri agli americani che combattevano giù a valle.
Lui e i suoi non parteciparono ad alcuna azione contro i tedeschi: erano un’unità troppo piccola e male organizzata.
Poi, mentre guardava gli alberi risplendere d’argento per la galaverna, si ricordò di qualcosa.
A scuola, c’era un certo Gariffo Luigi, un bambino zoppo dalla nascita che si era trasferito, a quanto ne sapeva, in Bergamo ancora adolescente.
«Forse lui… » masticò quel pensiero a lungo, finché una mattina, con lo zaino in spalla e il cappotto rammendato, non salutò i compagni e discese i monti.


Arrivò a Bergamo tra i fiori di tiglio e di elleboro. Sulle montagne aveva incontrato gente silenziosa come lui; non aveva fatto domande. Fuggiaschi? Ma da dove?
La casa del Gariffo sorgeva entro la cerchia dei bastioni eretta dai veneziani al fine di rendere Bergamo una fortezza inespugnabile.
Fausto riuscì a sgusciare tra le maglie larghe dei tedeschi e bussò al portone.
Non aveva molte aspettative, nemmeno quando sentì dei passi zoppicanti avvcinarsi, dall’altra parte dell’uscio. Quasi tutta la scorta di speranza gliel’avevano succhiata via gli eventi; Fausto continuava solo per fame e per quell’istinto di autoconservazione che possediamo tutti.
Il Gariffo che gli aprì la porta non era colui che si ricordava chino sui banchi di scuola; solo gli occhi, neri come olive, lo tradivano. Dapprima nel viso dell’uomo si insinuò la paura, poi il sospetto e, infine: «Fausto?» chiese.
Il sergente si limitò ad annuire; concesse a Gariffo anche un sorriso.
«Fausto!» urlò l’altro, tendendogli le braccia.
E allora la speranza bruciò di nuovo in quel cuore giovane e gli accese gli occhi e il sorriso.

«Faustino, bisogna stare attenti, ma non troppo.» gli anni vissuti al Nord avevano appiccicato al palermitano del Gariffo una specie di patina bergamasca sbilenca, trasformandolo in un italiano piuttosto cacofonico. Che Fausto si sforzava di ascoltare con un sorriso.
«Poco fuori città, i tedeschi hanno un campo di concentramento, che fino a prima dell’armistizio era guardato dai nostri militari.»
Fausto annuì, mentre si infilava il cucchiaio in bocca.
«Ora, se ti trovano, forse non ti fucilano e finisci là.»
Fausto annuì ancora, s’infilò un’altra cucchiaiata di minestra in bocca e buttò giù un sorso di vino.
Gariffo gli diede uno sguardo.
«Tu che sei? Antifascista, comunista, che sei?» domandò.
Fausto smise di mangiare e disse: «Ero soldato, ora voglio solo tornare a casa mia.»

Il padre e la madre di Gariffo non si erano mai adattati a parlare la lingua del Nord e con loro, Fausto poteva riascoltare il palermitano della sua infanzia e dei primi anni di guerra.
Gli volevano bene, a modo loro, anche se avevano paura di tenerlo in casa, proprio come la zia.
Una sera, il signor Gariffo, con fare da cospiratore, gli disse: «’nzamu a Diu, niesci, Faustino! (che non ti venga in testa di uscire, Faustino).»
Il sergente lo guardò e socchiuse gli occhi. L’altro fece un sospiro e disse: «Cca o latu cci sta un gerarca… »
«Un gerarca fascista?»
«Sissignuri, cca o latu! (qui accanto).»

continua

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