Il vento era l’unico a turbare la fine. Immobile, gelida, la terra aveva schiacciato quelle piccole irrequiete creature dai cappotti e le sciarpe di ghiaccio. Giù, diceva loro, è finita, state giù a dormire. Loro dormivano, non foss’altro perché camminare era dolore. Dormivano e poi arrivava il vento, il vento a turbare ogni cosa. Non vi lascio in pace, no, nemmeno davanti alla morte!
Piano, piano si alzavano, alcuni seguendo la colonna; certi, storditi dalla fame, dal bagliore freddo, mettevano un piede davanti l’altro, verso la fine.
Nera, sottile, a tratti ingrossata, ma sempre in movimento, la colonna. Bianco, vasto, gelido, l’inverno.
Una raffica, l’ululare della tormenta, un piede, un passo. Piccola formica, l’uomo avanzava solo incontro al cielo grigio. La sciarpa incollata al cappotto, l’elmo coperto di brina; faceva crocchiare la neve, cercando di non perdere il conto. Trentatremilaseicentouno, trentatremilaseicentodue, non c’era niente, neanche la terra; si faceva lontana sotto gli scarponi, così come lo scricchiolare del bianco.
Bianco, il solo colore; grigio il silenzio. E l’uomo camminava, camminava e camminava incontro al prossimo passo: trentatremilaseicentoquattro, trentatremilaseicentocinque…
Nessuno avrebbe potuto dire se fosse piccolo o lungo, dalle ossa forti o gracile; c’era un cappotto, c’era una sciarpa e dei guanti ed un elmetto. Gli occhi venivano fuori; neri come olive, le ciglia, le palpebre incrostate di ghiaccio.
Un passo e la gavetta al cinturone tintinnava; un crac e un tin, un tin e un crac, tra neve e gavetta si conversa per ingannare la morte. Tin, crac, tin, crac, ma la morte non s’inganna e aspetta lì, alla fine dei passi.
Il vasto orizzonte punteggiato dal niente, l’enorme cielo, la grande terra, neanche un albero, ne un villaggio o un animale.
Passo, passo, l’uomo guarda le sue scarpe, bianche di neve, apparire e scomparire dietro il cappotto. La carne è ghiaccio e il sangue dev’essere andato a dormire da qualche parte, forse nella mano sinistra che viene colpita come da cento minuscoli aghi.
Alzò gli occhi dopo un tempo che parve infinito. Trentatremilaseicentoquindici, trentatremilaseicentosedici: -Cos’è?- l’uomo si stupì della propria voce. Non un grido di sorpresa, solo rumore flebile, forse non un mormorio, eppure alieno a quel nulla.
-Cos…
Un carro armato stava lì, mezzo coperto di neve. Era la bara di qualcuno o un posto gelido dove passare la notte?
Il grigio non lasciava alle tenebre allungare le proprie mani ed al sole di venir fuori. Come dire allora se fosse passata una notte o un giorno? Come tener conto del tempo? Sembrava non esserci nulla all’infuori del tintinnio della gavetta o del rumore dei passi. Forse non c’era nulla davvero a parte la neve.
Quanti ne sono morti, pensa l’uomo? Dove riposano le loro ossa? Nessuna lapide, né bara: biancheggeranno al sole d’estate e si spezzeranno nel gelido inverno. Ad ogni modo cammina, un passo, un altro, desiderando qualsiasi cosa, una cosa qualunque da mettere sotto i denti.
Il viso è una maschera grottesca, barba e baffi incrostati di gelo.
L’uomo affondò nella neve fresca. Riuscì ad affrontare la fatica di un secondo passo; ancora una volta, lo scarpone venne inghiottito dal mare bianco e così la gamba, sino al ginocchio.
Dov’erano il plotone ed i suoi uomini con le armi? Dove i muli e le slitte, dove la gigantesca colonna che cammina verso casa?
Avanzava su un sentiero vergine, niente sangue e odore di diesel, niente isbe bruciate o carcasse di mulo.
In lontananza un bosco faceva appena capolino dalla neve. Un bosco piccolo, di betulle mosse dal vento.
L’uomo s’affretta, ma le gambe non rispondono ai comandi del cervello e lo fanno cadere. La cosa più temuta, più attesa, arriva ai margini del bosco.
Neve, neve e mani che fasciate di guanti scavano e scavano ancora. La gavetta ha fatto un ultimo tintinnio; l’uomo scava.
C’era un paese lì sotto, il suo paese di montanari e malghe odorose di mulo. C’erano i pascoli e lo scampanare delle vacche; il vino ed il formaggio, c’erano le minestre calde ed i nasi rossi dei paesani all’osteria. C’era tutto questo ed i sorrisi delle ragazze a primavera. Lontano il freddo, lontani i razzi delle Katyushe che tracciano solchi d’aratro nel cielo; lontana la guerra e la fame, il freddo ed i tedeschi che fumano accucciati sui panzer.
L’uomo si svegliò. Era a casa, nella casa che lui stesso aveva costruito.
La mattina bussava alle finestre di Asiago e lui si preparò ad andare in ufficio. Un bacio alla moglie, una carezza ai figli piccoli e via.
Era a casa.
Niente più neve, ne ghiaccio, ne fame, se non fosse per il vento che, maligno, non lo lasciava riposare.
Dove sono, pensò? Si udivano voci, voci nella tormenta, voci chiamare qualcuno.
L’uomo dette ordine alle proprie gambe, alle proprie braccia di muoversi e quelle, piano, piano, lo fecero. Chilometri, chilometri e tonnellate di fatica, ecco cos’aveva sopportato. Marce e sparatorie e marce ancora.
Lentamente, fucile in spalla, si trascinò alla fine del boschetto. Era bianco e la neve sembrava fresca, appena caduta.
Oltre l’ultima betulla c’erano uomini. Camminavano piano verso sud. Un lungo, interminabile serpentone di corpi gelati e cuori caldi.
C’erano slitte stracariche, muli e si sentiva parlare ungherese, tedesco e italiano in ogni dialetto.
Era lei! La colonna di uomini che tornano a casa! L’ho ritrovata, pensò.
Ma aveva sognato di esserci già a casa, d’aver alle spalle lontani i Carpazi, l’Ucraina, la Russia e sotto i piedi l’erba dolce di Asiago. Aveva sognato Anna, dei figli ed un lavoro al catasto del paese.
Qui c’era la neve ed un calore di tipo diverso; quello degli uomini, dei suoi uomini e di uno che si avvicina, staccato dalla colonna e gli offre una Milit e saluta chiamandolo “Sergentmagiù”.
Passa il tenente e dice che bisogna andare avanti e fare l’ultimo sforzo. Indica una collina di neve: -Bisogna rompere la sacca- dice: -I russi sono laggiù!
Io ho passato la sacca, pensa l’uomo, ho combattuto a Nikolaevka e sono tornato a casa…
Ma no, i russi sono là.
-Ghe rivarem a baita sergentmagiù?- dice qualcuno. L’uomo alza gli occhi e vede Giuanin, proprio Giuanin che credeva morto e più in là Moreschi, Pintossi, il sergente Minelli…
-È Rigoni, è arrivato anche Rigoni!- dicono.
Lui, piccola cosa in una terra di ghiaccio è felice e ride e scherza, mentre gli alpini fumano e bestemmiano.
Credeva d’essere a casa, credeva d’esser ormai vecchio e vicino alla morte, ma no…c’è ancora da rompere la sacca e gli uomini dipendono da lui. Gli sorridono, dalle loro sciarpe incrostate di neve, uomini del 6° alpini che sognano il paese, il vino, la fine della guerra.
-Rigoni, porta là i tuoi della pesante- dice il capitano. Qualcuno bestemmia. Da lontano, un ufficiale urla: -Avanti, avanti il Vestone!
-Vestù!- ripetono.
L’uomo imbraccia il moschetto e chiede alle gambe un ultimo sforzo. Bisogna rompere la sacca per tornare a casa. Bisogna passare Nikolaevka…
…ma stavolta non è solo, non si sente perduto come quando vagava nella neve. Con lui gli uomini che credeva morti, gli uomini che la aspettavano da un pezzo.
-Ghe rivarem a baita sergentmagiù?
-Ghe rivarem, ghe rivarem Giuanin- risponde, con un sorriso.
Scritto il 21/06/2008 in memoria del sergente maggiore dei mitraglieri, battaglione Vestone, divisione Tridentina, Mario Rigoni Stern, morto ad Asiago cinque giorni prima della stesura di questo testo.
FINE
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