Mi sembra di sentire l’odore di fango, di polvere e il sibilo continuo nelle orecchie di Nicolai Lilin dopo che ha sparato, si è fatto sparare, ha lanciato bombe e granate contro un nemico sporco, inafferrabile, fatto d’eroina e di crac, un nemico che combatte per inerzia in una guerra strana, una guerra nei canoni di tutte quelle del ventunesimo secolo, dove non si capisce che forma abbia l’avversario e perché si vada a combattere.
Nicolai un giorno si presenta all’ufficio reclutamento, ci va in ciabatte, dopo una giornata al fiume. Vede nella posta un cartoncino che gli dice di presentarsi al tale ufficio e va’. Si trova arruolato nei sabotatori, gente che non segue gli schemi dell’esercito russo. I sabotatori possono portare i capelli e la barba lunghi, i sabotatori possono addirittura andare a combattere in bermuda e t-shirt; non hanno gli anfibi, ma scarpe da ginnastica. Sembrano turisti, non fosse per il Kalashnikov a tracolla e per il giubbetto antiproiettile.
Lilin ha una tecnica colloquiale; scrive come se stesse raccontando la sua storia agli amici, seduto davanti a un bicchierino di vodka che beve d’un colpo.
Narra in prima persona, dunque, descrivendo gli eventi come li ricorda.
Caduta libera ha un taglio fra il giornalistico e il diario, senza un particolare stile o una tecnica che possa differenziarsi da quella a cui è abituato il lettore medio aprendo un quotidiano.
Ho notato però la tendenza a modificare lo scorrere degli eventi per creare parti ad effetto tipiche di un buon romanzo; la parte dove i sabotatori si scontrano col nemico in una scuola abbandonata, viene ripresa più volte, “copiata e incollata”, per marcare alcuni passaggi “teatrali” del libro.
La frase “mosca mi svegliò col calcio del fucile” viene ripetuta tre volte nel romanzo e il brano in cui è contenuta, viene messo al servizio di due differenti capitoli con scene diverse.
Sì, c’è qualcosa di strano, dunque, che mi ha fatto, per un momento, dar credito alle voci secondo cui Nicolai Lilin in guerra non ci sia mai stato e che questo “Caduta libera” sia proprio un romanzo, punto e basta. Come l’autore stesso afferma, i nomi dei protagonisti (a parte il suo) sono stati cambiati e gli eventi temporali “incasinati” per questioni di privacy. Sarà davvero così, o Nicolai racconta una guerra che non ha combattuto?
Ci regala comunque una giusta dose di tecnica sui fucili e sulle pistole, senza scadere nei clichè dei romanzi americani (che spiegano per filo e per segno come spara un’arma).
Ci fa vedere i suoi compagni: Mestolo, Cervo, Mosca, Scarpa, Zenit e il capitano Nosov, senza perdere tempo a descriverli troppo; Nicolai da delle linee guida, il resto lo “vediamo” noi, come fossimo lì, ad annusare la puzza della pioggia sui tubi di metallo di un edificio distrutto.
I morti sono l’altro protagonista di questo romanzo autobiografico. Nicolai ce ne parla in modo minuzioso, ci descrive la tecnica giusta per recuperarli dal campo di battaglia e caricarli sui camioncini dell’esercito.
Nei boschi si nascondono gli “arabi”: i turkmeni, i ceceni, il “nemico”. Nicolai si stende sulla pancia, impugna il fucile da cecchino e prende la mira.
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