«Ciò che Vyrl chiama
“magia” è un banale movimento di molecole! Ora guarda, uomo!» l’alto Cuolec
svoltò l’angolo e alzò il braccio.
Il ragazzo gli arrivava
giusto agli occhi, neri e intensi, ma aveva una struttura fisica più forte e
più larga e capelli d’una sfumatura ottone, lunghi e mossi come alghe
sott’acqua.
Sia lui che Vyrl
scrutarono la palla metallica che sorgeva al centro dell’aedromo.
«Non avevo mai visto nulla
di simile!» mormorò Vyrl, grattandosi la tempia, «Potrebbe contenere la casa
del Principe delle Nevi!»
«Lasciando ancora spazio
vuoto.» aggiunse il biondo.
Cuolec chiuse gli occhi a
fessura e si lasciò andare a una risatina. Come i mer, aveva orecchie
appuntite, ma più lunghe e sporgenti e il suo viso era ornato da una lunga
barba d’un nero bluastro piena di ricci.
«In verità anche questo
oculario non rappresenta che la minima parte della nostra scienza.» dichiarò,
abbassando il braccio.
«Ma a cosa serve?» chiese
il ragazzo.
«Temo ora che il dwemer si
lanci in una spiegazione incomprensibile, serpentello.» s’intromise Vyrl.
«No, nessuna spiegazione
incomprensibile… per gente civilizzata…
ma, perché quel nome?» domandò, curioso, il dwemer.
Vyrl sorrise, mentre il
ragazzo divenne rosso.
«Oh, la sua gente adora i
draghi… e lui pure.» disse il mer delle nevi.
«Mai sentito di nessuno
tanto stupido da adorare quelle bestiacce,» fece Cuolec, sfiorandosi la barba,
«però sono potenti e furbe, questo sì! Tra me e una di loro ci sarebbe sempre
competizione, mai un rapporto di sudditanza… di sicuro!»
«Fra te e una di quelle
bestie ci saresti tu bruciato vivo.» intervenne Vyrl.
Il dwemer, punto
sull’orgoglio, si girò a guardarlo: aveva da tempo in serbo una domanda e
decise che sì, era venuto il momento di usarla contro la stupidità di Vyrl.
Disse: «Come ha preso il
ragazzo la storia di Saarthal?»
Il mer chiuse la bocca e
spostò lo sguardo sul suo giovane umano.
Egli strinse i denti e
fece scivolare gli occhi sull’arco dell’oculario: come il resto della macchina
(e come ogni artefatto dwemer) era d’un metallo color ottone, sconosciuto ai mer
e agli uomini; aveva un complesso sistema di lenti che scomponevano e
deflettevano la luce stellare assorbita da un cristallo.
Cuolec alzò un
sopracciglio e mise una delle lunghe mani ossute sulla spalla del giovane:
«Oh, mi spiace,» disse
falsamente, «devi perdonarmi, ma conosco la tua storia: avevi una moglie e dei
figli… eri molto dotato nell’arte della magia e li hai lasciati a Saarthal per
cercare un maestro tra la gente di Vyrl… spero siano sani e salvi ad Atmora – i
membri della tua famiglia, intendo – anche se ho sentito che solo tre persone,
tre uomini sono riusciti a fuggire da Capo Hsaarik.»
«Acqua… passata.» mormorò
il ragazzo.
«Certo, certo!» disse il
dwemer in fretta.
Vyrl si schiarì la gola: «E
quella? È Tamriel! La riconosco!» il mer delle nevi indicò qualcosa sulla
parete di fronte a loro.
Cuolec fece schioccare la
lingua e gesticolò, annoiato: «Oh, sì: prendiamo la luce delle stelle e,
attraverso l’oculario, disegniamo mappe.»
«Non c’è terra che io
riconosca qui.» mormorò il ragazzo umano.
«Capo Hsaarik…» il dwemer
sfiorò una linea costiera col dito, «e qui c’è… uhm c’era…»
«Saarthal.» concluse per
lui il biondo.
«E questi punti luminosi?»
domandò Vyrl rapido, per salvare la situazione.
Cuolec sorrise: «Certo… i
punti luminosi! Questa non è solo una mappa, ma un registro di tutte le linee
di forza.»
«Traccia gli agglomerati
di magia?» domandò Vyrl.
Il mer barbuto scrollò le
spalle: «Uhm, sì.»
«Mereth…» mormorò il
ragazzo, toccando la mappa di luce.
«Che interessante
corruzione della lingua aldmer, cara effimera creatura!» disse Cuolec, «La
parola mer, “popolo”, assieme alla vostra “eth”, terra! Un po’ come mischiare
due ingredienti.»
Il giovane non replicò, ma
rimase a fissare la mappa.
«Architetto!» una nuova
voce s’insinuò nella sala dell’oculario e un dwemer raggiunse i tre, chinando
il capo:
«Abbiamo bisogno di te
nella caldaia!»
Cuolec emise un sibilo:
«Beh! Pare che dovremo interrompere la nostra gita… per il momento. Spero mi
farai vedere quel che i mer conservano a Saarthal, caro Vyrl!» disse, facendo
un sorriso.
Il ragazzo studiò il viso
del mer delle nevi, poi distolse lo sguardo.
* * *
Stava leggendo un libro,
ed era seduto sulle rocce di Capo Hsaarik, quando Vyrl lo trovò.
«Una bellissima alba!»
fece, a mo’ di saluto, il mer.
Il ragazzo chiuse il libro
e se lo mise in grembo.
«Si gela… e hai addosso appena
una casacca!» commentò Vyrl, divertito.
«Qualcuno mi ha insegnato
a far muovere quattro molecole per scaldare l’ambiente.» disse l’umano.
«Ti sei fatto uno scudo
contro il gelo per stare qui a… che
stai studiando?»
Il ragazzo alzò il libro
dalla copertina color ottone.
«Roba dwemer!» esclamò
Vyrl, «Ancora?»
«Sapevi che imbrigliano
l’energia dei fulmini?» sbottò l’umano.
«E allora? Non te l’ho
insegnato anch’io, forse?»
«Parliamo di cose diverse:
tu mi hai fatto vedere come scagliare fulmini dalle mani; loro invece li attirano in quelle macchine.»
«Macchine? Quegli aggeggi
sono innaturali!» disse Vyrl, «i fulmini passano attraverso l’aria, la nostra
pelle, le ossa, ed è giusto, perché siamo tutti della stessa materia… ma quelle
macchine!
“E guarda dove vivono i dwemer! Non si respira l’odore del vento e ci
sono sempre rumori, c’è sempre fumo e nebbia e congegni che girano, scattano,
frullano… pensavo ti interessasse la magia!
«È la conoscenza che
cerco, Vyrl!» sbottò il ragazzo, «Perché credi che abbia lasciato morire mia
moglie e i miei figli?
“La gente di Atmora non
aveva più nulla da insegnarmi e sono venuto da te.
La creatura dai capelli
bianchi sogghignò:
«E ora neanch’io ho più
niente da insegnarti, giusto?»
«Giusto? Strano uso che
fai di una parola tanto importante, ma è così, Vyrl.» disse il ragazzo.
«Quel libro!» il mer lo
indicò, «Chi credi che gli abbia dato la forma che ha? Noi! Siamo stati noi!
Invece di srotolare un’unica, lunghissima pergamena da un cilindro, tu sfogli
pagine, comodamente seduto! E i dwemer si definiscono intelligenti e si dicono
scopritori! Ah!» sbottò.
«Il libro è uno strumento,
così come la magia: poco importa chi lo abbia inventato.» disse il ragazzo,
guardando le onde pigre del Mar dei Fantasmi infrangersi sulla costa.
«Se la magia è lo
strumento,» ribatté Vyrl, «mi domando quale sia il fine.»
Il giovane si alzò e
disse:
«La conoscenza… è la
conoscenza.» poi gli scagliò il libro ai piedi, «Ora non hai niente da
insegnarmi.»
* * *
«Cuolec di Scheziline, che
cos’è il sole?» domandò, girando le orbite di un piccolo planetario, il Capo
Architetto Yagrom Mzahnch.
Il dwemer allargò le
braccia e disse:
«Quando l’Architetto di
Mundus volle fuggire da ciò che aveva creato, fece uno strappo nell’Oblivion e
se ne andò nell’Aetherius.» recitò Cuolec.
«Dunque è un minuscolo
riflesso del reame di Aetherius che noi chiamiamo sole?» domandò il Capo
Architetto.
«Possiamo vederla così.»
fece Cuolec.
«C’è un solo modo di
vederla!» il tono di Mzanch divenne aspro, «Come c’è un solo modo di vedere
quel che stai combinando. Credi che umiliare Vyrl e gli altri mer porti
vantaggi?
“Non è questo il modo di
arrivare a quel che c’è sotto Saarthal, né di prepararsi al ritorno dei Figli
del Cielo.
«Gli uomini?» Cuolec
impallidì.
«Ma certo, non è una
sorpresa!» sbottò Mzanch, alzandosi, «anche i nostri cugini delle nevi lo sanno,
pure se il loro principe ha avuto il buongusto di non chiederci nulla,
“Ma ogni animoculotorio di
queste parti ha triplicato la produzione di sfere, ragni e centurioni!
«Perché?» domandò Cuolec,
alzando la voce, «Cos’abbiamo da temere noi?»
«Siamo dei mer! Credi che
gli uomini faranno distinzioni?» replicò il Capo Architetto.
* * *
Come un fantasma, l’ombra
traslucida del Principe delle Nevi apparve sulla roccia battuta dal vento.
Le onde sonore della sua
voce, portate da una grande distanza e potenziate dalla magia, erano più forti
della tempesta.
«Niente convenevoli,»
disse, «sappiamo tutti d’avere un problema.»
Vyrl rabbrividì
nonostante, come faceva il ragazzo, si fosse lanciato addosso una magia contro
il freddo.
«Principe,» disse,
annoiato, uno dei mer in piedi davanti a lui, «è buffo che usi quel tono
d’allarme visto che ti trovi a leghe da qui, sulla tua piccola isola!»
«Ma noi abbiamo un
problema reale,» s’intromise un altro, «per quanto tempo hai regalato la nostra
magia a quel Figlio del Cielo, Vyrl?»
«È un ragazzo!» protestò
il diretto interessato, «e secondo voi è questo il nostro problema? Non sono le
navi che arriveranno qui da Atmora?»
«Battere le spade con la
magia è possibile,» intervenne il Principe, «l’abbiamo già fatto… ma
quell’umano… lui ha studiato da te, Vyrl!»
«So che i dwemer gli hanno
insegnato ad armonizzare le sette nature del metallo.» disse un altro.
Gli occhi bianchi del
Principe scrutarono Vyrl e la sua voce chiese:
«Dov’è adesso?»
Vyrl valutò parecchie
risposte, poi disse:
«Beh… non ne ho idea.»
* * *
Il ragazzo seguiva due alti
e silenziosi mer attraverso una distesa di gialli fiori di finocchio selvatico
e pietre levigate dal vento.
L’aria odorava di terra
bagnata dalla pioggia e di bergamotto e l’alito del vento sapeva di mare.
Corone d’alchemilla
sfioravano i gradini d’un pozzo di marmo bianco al cui centro s’agitava uno
sbaffo di luce.
«Ora osserva bene.» la
femmina mer indicò il pozzo, facendo tintinnare i gioielli di rame che le adornavano
il braccio.
«Questo è un luogo carico
d’energia.» disse.
«Che cos’è?» domandò
l’umano.
«Un pozzo, non si vede?
Solo che è fatto di ferro meteorico e sorge all’incrocio di due linee di
potenza… quella luce che vedi è il riflesso delle stelle, ossia un frammento di
Aetherius, che noi convogliamo nel pozzo e usiamo.»
Il ragazzo annuì e la mer
rivolse la propria attenzione al maschio che le stava accanto e che guardava
per terra, senza espressione.
«Una volta finito con lui,
dovremo lasciarlo qui,» annunciò la femmina, «perché comincia a puzzare,
nonostante l’essenza al bergamotto.»
Poi chiuse gli occhi,
sfiorò la fronte del mer maschio e quello cadde come un oggetto inanimato.
«Ora protendi una mano
verso la luce del pozzo,» disse al giovane, «richiamala e fattela scorrere
dentro! Punta l’altra sul cadavere e bada che questa è un’evocazione più
potente rispetto a quelle che conosci: non ci limiteremo a stimolare il
cervello rettile, come ho fatto io per farlo camminare sin qua, ma toccheremo
il paleopallium e cioè gli daremo emozioni, risveglieremo in lui l’istinto,
quindi la magia gli fluirà nell’amigdala, che regola la paura. Avendo paura,
potrà sopravvivere a lungo. Ora agisci!»
L’uomo annuì e aprì la
mano destra, protesa verso il pozzo. Sentì un formicolio alle dita e vide la
luce arricciarsi come fumo. Eccola! S’allungava come un braccio pallido verso
di lui.
Sentì una vibrazione forte
attraversargli il corpo, quindi stese la mano sinistra e indicò il mer
cadavere.
Il morto mosse un dito,
poi alzo la mano, piegò le dita dei piedi, il ginocchio, un attimo dopo era in
piedi.
Il perizoma ingioiellato
si gonfiò, poi negli occhi del morto apparve un barlume di coscienza.
«Il paleopallium agisce
sugli istinti sessuali.» spiegò la mer femmina, indicando l’erezione.
Il giovane spostò una mano
avanti e indietro; gli occhi del morto seguirono il movimento.
«Non sembra come gli altri
rianimati.»
«Perché non lo è.» spiegò
la mer.
«È un peccato doverlo
lasciare.» fece il ragazzo.
«Te ne darò un altro più
fresco al ritorno in città: potrai tenerlo come servitore… o guardia del
corpo.» suggerì la donna.
Il ragazzo sorrise e
annuì.
Lasciò che il morto si
guardasse attorno e inspirò l’odore dell’aria, consapevole, per la prima volta,
di avere potere su qualcuno, su un essere inferiore; consapevole di ciò che
questo comportava.
Per un breve istante fu
tentato di rigettare ogni cosa e di tornare indietro nella sua casa distrutta a
dormire presso le tombe dei suoi cari.
Poi sospirò e guardò per
terra, neanche s’aspettasse di trovare un binario, di qualche macchina dwemer, che
doveva percorrere a forza.
«Il clima è incantevole.»
disse, «A quest’ora a Mereth nevica.»
«Oh! Qui accade così
raramente che molti non conoscono il significato della parola fal.» disse la mer.
Fal: neve.
Quella parola! Al ragazzo fece
tornare in mente Vyrl e il massacro di Saarthal.
Agitò la mano: un gesto
distratto che tolse la vita al morto e lo fece crollare a terra.
Sentì le lacrime
inondargli il viso, poi i suoi occhi scivolarono sulla donna.
La contemplò a lungo.
Disse:
«Sì, me ne darai uno più fresco…»
* * *
Quello stile regolare e
meraviglioso dove l’ottone si fonde col giaietto creando strutture grandi,
pulsanti di vita, ammantate dal vapore, dai suoni di macchinari idraulici, e
dal riflesso delle dinamo sui globi di lapislazzuli, fra gli architetti tonali
era conosciuto come hoagen kultorra.
Personalmente, Cuolec
preferiva il più sobrio stile settentrionale o “luogo profondo”.
Ma quell’animoculotorio
era stato costruito dal suo predecessore e non ci si poteva fare nulla, proprio
nulla…
… esattamente come per
risolvere il rompicapo cubico!
Ci stava dietro da sei
giorni; muoveva le tessere e schiacciava i bottoni dimenticandosi perfino di
mangiare. Per lui era diventata una “questione personale”.
In piedi, sulla torre, con
la schiena appoggiata a una delle colonne ornamentali, guardò le caverne del
livello successivo perdersi nel lucore degli abissi.
Poi imprecò, strinse il
cubo quasi a volerlo rompere e, benché consapevole fosse vergognoso socialmente
esternare la propria rabbia, lo scagliò centrando un ragno meccanico di
passaggio.
Tamburellò con le dita
sulla colonna, accarezzandosi la barba, per poi dar sfogo a un urlo: il cubo
s’era mosso e ora galleggiava a mezz’aria.
Le sue facce scorrevano e
si piegavano.
In pochi secondi, le
tessere andarono tutte al loro posto.
«Non era difficile!» disse
una voce.
Il ragazzo era in piedi sul
colmo color ottone di un tetto e guardava Cuolec.
Aveva un arco e una sacca a
tracolla, una faretra alla cintura. Per il resto sembrava il piccolo,
silenzioso apprendista di sempre.
Con un movimento, fece
volare il cubo e lo portò al livello del dwemer. Cuolec prese il cubo e se lo
rigirò tra le mani.
«Gli ayleidi t’hanno
insegnato bene…» mormorò, spostando lo sguardo dall’oggetto all’uomo.
«Sai del mio viaggio?» domandò
questi, con un sorriso, «I mer sono dei chiacchieroni!»
«Già. Ad ogni modo, ho
troppo lavoro per continuare la pantomima.» sbottò Cuolec.
Il ragno meccanico di
prima era già arrivato al livello del dwemer sulle sue zampe d’ottone, quando,
improvvisamente si girò e si spostò verso la bassa torre dove stava il ragazzo.
«Volevo solo fare un po’
di conversazione, amico dwemer… qua fuori c’è un esercito di ayleidi morti
pronti a rispondere ai miei ordini, quanto a questo simpatico ragno…» il
giovane alzò una mano e fletté le dita. La struttura del ragno tremolò e il suo
giroscopio fu strappato da una forza invisibile: fluttuando a mezz’aria, l’oggetto
finì tra le dita dell’uomo.
Con uno sbuffo di vapore,
il ragno cadde nel vuoto e s’infranse in pezzi.
«Attento!» disse il
dwemer, «Non sai dove sei finito!»
«Adesso sei tu che fai
pantomima!» sbottò l’altro, «So benissimo dove sono: in un posto di cui ho
scassinato la serratura facilmente (dopo aver bevuto una pozione a base d’orecchio
di mer delle nevi, uovo di ragno e altre cose) e in cui sono sgusciato senza
che nessuno, nemmeno le tue macchine, mi vedesse.
«Oh, a proposito di
macchine…» fece Cuolec, alzando un sopracciglio. Un paio di sfere scivolarono
lungo la rampa e s’aprirono sbuffando vapore e rivelando ciascuna un automa
dalla forma umana e dalla testa allungata, dotato di spada e balestra.
Due dardi d’ottone
scattarono verso il giovane e rimbalzarono sulla sua tunica, come sulla pietra.
«Agitiamo qualche
molecola!» disse questi, aprendo entrambe le mani. L’aria attorno alle dita si
scaldò e due getti di fiamma si materializzarono dal nulla e colarono sulle
sfere come il soffio di un drago.
«Oh! Ma insomma! Che vuoi?»
domandò Cuolec, piccato.
«La mappa delle linee di
forza!» rispose il ragazzo.
«Idiota! Vuoi portarti via
l’oculario?» ridacchiò il dwemer.
Il giovane scosse la testa
e afferrò l’arco, poi lo scaricò su Cuolec. Il dwemer si strinse l’asta che gli
sporgeva dal collo; rovesciò gli occhi e cadde giù.
Con calma, il ragazzo aprì
la sacca e prese una boccetta, la aprì e ne bevve il contenuto. Sapeva d’acqua
di mare.
Una volta finito, guardò
la boccetta e la infilò nel sacco. Aveva bevuto solo una modesta quantità d’energia
magica. Scrollò le spalle.
Sentì come un soffio di
vento. Un dardo rimbalzò contro la sua tunica.
Sulla rampa erano comparsi
due dwemer armati di balestra.
Il ragazzo portò l’arco
all’orecchio: un balestriere cadde. Un altro dardo rimbalzò sulla veste del
mago, che incoccò e scaricò di nuovo l’arco.
Il secondo balestriere
riuscì a mettersi al riparo dietro alla colonna di Cuolec; la freccia del
ragazzo colpì la pietra che le impresse un furioso momento orizzontale e la
scagliò nel vuoto.
Altri due balestrieri
apparvero dalle caverne superiori; puntarono le armi.
Il giovane aprì la sacca e
bevve un’altra pozione, mentre i dardi saltavano innocui contro la sua barriera
magica.
In un attimo, la sua forma
si fuse con l’ambiente: il ragazzo sparì alla vista.
Scese dalla torre, coperto
dal rumore delle macchine, quindi sgattaiolò in uno dei corridoi ammorbato di
luci verdi, pulsanti. Superò un cancello aperto e proseguì correndo.
Dalla sua nicchia nel
muro, una sfera dwemer scese lungo il binario di rilascio sino a terra;
cominciò a rotolare.
Il giovane si bloccò e si
spostò di lato. La sfera cambiò direzione, allontanandosi, rotolando via come
una biglia enorme e rumorosa.
Armata di morti!, pensò. La sua armata camminava sulle gambe di un’unica femmina
ayleide e si trovava fuori, vestita d’un armatura mer, una spada e un bastone.
D’un tratto si fermò e si
nascose dietro un gigantesco intrico di tubi. Sotto di lui c’era una grata di
sottili e fitte sbarre d’ottone da cui, a intermittenza, veniva su del vapore
caldo.
Una pattuglia di sfere lo
oltrepassò rotolando e svanì dietro un angolo.
Il ragazzo si mise a
pensare. In un certo senso invidiava gli uomini di Atmora, suoi fratelli: la
loro logica semplice, il pensiero dritto come una spada non lasciavano spazio
al dubbio e al rimorso. Perfino il colto Ysgramor era poco più d’un semplice
fattore superstizioso che adorava totem scolpiti con le fattezze di lupi e
orsi.
Invece lui, il ragazzo,
era pieno di dolore e di ricordi.
Pensò alla sua famiglia e
disse: li ho sacrificati per la
conoscenza.
Si sentiva diviso in due:
una parte assetata di sapere e di magia, mentre l’altra smarrita nel silenzio d’una
notte troppo lunga.
Vorrei che tutto finisse e presto!, pensò.
Non avrebbe retto ancora
per molto. A ogni passo, ogni volta che la conoscenza suprema si faceva più
vicina, il giovane sentiva la propria sanità mentale svanire.
Allora: fortunati i dwemer
che erano nati cinici! Fortunati i falmer che avevano trovato la forza di
uccidere un popolo sulla base d’un conto matematico!
Fortunati gli ayleidi che
davano la vita ai morti e gliela toglievano senza starci a pensare.
Quel ragazzo, invece, a
neanche venti estati aveva dovuto prendere decisioni terribili e dolorose.
Ora odiava la magia,
odiava la scienza, non più di quanto odiasse i mer che avevano distrutto
Saarthal.
Ma era anche lui sul
binario di una sfera e doveva andare avanti.
Scivolò giù dai tubi e
percorse un altro corridoio.
Vide alcuni dwemer aprire
un enorme cancello e precipitarsi ad attivare un centurione meccanico.
Si fermò, incoccò una
freccia e scaricò l’arco.
Uno dei dwemer cadde.
«Dov’è?» urlò un altro.
Il ragazzo portò una
freccia all’orecchio. Colui che aveva finì a terra.
Le sfere si bloccarono e
tornarono indietro. Aprendosi, puntarono sul ragazzo le balestre.
Un dardo rimbalzò sulle
sue vesti, un altro gli graffiò il fianco.
Due guerrieri
completamente corazzati spuntarono dal passaggio di destra.
I dwemer avevano sul serio
l’incursione.
Il giovane scartò l’arco e
aprì la mano destra.
Annaffiò una delle sfere
con un interminabile cono di fiamma; sollevò la seconda e la scagliò forte contro
la terza.
In uno sbaffo di luce gli
apparve in pugno una spada nera, circondata da un alone di nebbia viola.
Fece la stessa cosa con la
mano sinistra ed evocò un pugnale.
I guerrieri gli vennero
incontro. Nonostante i dwemer si dedicassero molto all’architettura, alla
scienza e allo studio delle stelle, nonostante le loro armature fossero piene
di dettagli inutili e belli, erano equipaggiamenti da guerra a tutti gli
effetti: robuste e ben progettate.
La spada scivolò sulle
piastre pettorali di un guerriero e la lama del pugnale fu deviata dalla finta
bocca sull’elmo.
L’ascia del dwemer s’abbatté
sul braccio sinistro del giovane, con uno schizzo di sangue.
Sbilanciato, il ragazzo
cadde e aprì la mano destra. Il guerriero alzò l’ascia e caricò il colpo.
Ma in uno spasmo di
vibrazione, dalle dita dell’umano scaturì una catena di fulmini che avvolse il
dwemer.
Un puzzo di carne bruciata
e uno sbaffo di fumo uscì dalle fessure dell’elmo, poi il guerriero s’accasciò
e cadde con rumore di metallo.
Il giovane sollevò l’ascia
e la scagliò addosso all’altro dwemer corazzato.
Si alzò e fece un salto
all’indietro, balzando fino ai tubi e arrampicandosi. Seguì il corso di uno di
essi e si lasciò cadere su una rampa di gradini luminescenti di verde.
E di nuovo scomparve.
Lungo il cammino, si
fermò, frugò nella sacca e prese uno degli elisir curativi che aveva distillato
lui stesso nella terra degli ayleidi, lo stappò e lo bevve.
Quando raggiunse l’uscita,
vide parecchi ragni pattugliarne il corridoio e un guerriero alla porta, presso
il meccanismo a leva d’apertura.
Telecinesi nella mano
destra, fulmini nella sinistra: il ragazzo scagliò la propria forza sulla leva.
I ragni lo videro e gli si
gettarono incontro.
La leva si mosse, facendo
scorrere l’enorme porta.
Una scarica di fulmini
bruciò il giroscopio del primo ragno. Il guerriero portò una freccia all’orecchio
e la scagliò.
Il suo perfetto volo fu
interrotto da una forza telecinetica e la freccia schizzò lontano, innocua.
I ragni inseguirono il
giovane mago sino agli alloggi delle guardie, dove un braciere ardeva accanto a
tavoli e sedili scolpiti nella pietra.
Le gambe del giovane lo
portarono sopra uno dei tavoli; con la sinistra frisse la dinamo di un altro
ragno, con la destra ne fece scivolare un terzo.
Poi il tavolo si sollevò e
lo colpì sul fianco.
Uno dei ragni, scaricato
il proprio dardo elettrico sul mago, balzò sulla sedia e alzò le zampe
metalliche.
Il giovane vide l’enorme
rubino scintillare al centro del giroscopio e le chele color ottone aprirsi e
chiudersi, pronte a schiacciargli la testa come si fa con una noce.
Poi, in un lampo, qualcosa
portò lì una creatura spettrale, non legata al mondo fisico, traslucida eppure
ben tangibile nella sua forma di grosso lupo di vapore azzurro.
Con le fauci s’avventò sul
giroscopio e lo strappò dal torso del ragno, lasciando la macchina a girare
impazzita e a sputare vapore.
Il giovane cercò di
alzarsi, mentre colui che lo aveva salvato già scivolava in un altro piano d’esistenza,
abitato dagli spiriti.
Presso la porta,
inchiodato al muro, il dwemer giaceva con una spada conficcata in gola.
E sull’uscio, ecco una
alta ayleide dai capelli neri, vestita d’una corazza mer e con un bastone
magico in pugno.
Il giovane sorrise con la
bocca sporca di sangue:
«Bene!» disse, «Finiamo di
conquistare questo posto.»
Poi sentirono uno schianto
e videro l’enorme testa del centurione sorgere dai livelli inferiori.
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