«Prendetelo!»
Yezda indicò Conan e
lasciò che i suoi guerrieri si gettassero nella tomba. Il cimmero aveva solo un
pugnale, e l’agilità e i muscoli di un leone. Scagliò l’arma contro il primo,
facendogli scoppiare la carotide quindi balzò sul sarcofago che stava al centro della sala.
Un dardo gli strisciò il
fianco e una katana gli mancò d’un soffio il piede. Conan sferrò un calcio allo
sgherro di Yezda e gli si gettò addosso con tutto il suo peso. La schiena dell’uomo
s’inarcò e gli occhi si rovesciarono mentre il cimmero lo atterrava. Usò
quell’uomo per parare un colpo di katana, quindi gli prese la katana.
«Su! bastardi!» disse,
digrignando i denti. Uno di quelli accolse l’invito e lo caricò con la katana.
Conan abbassò la testa e gli diede una spallata, quindi si alzò e se lo fece volare
dietro la schiena. Schivò una freccia gettandosi dietro il sarcofago.
C’erano tre uomini in
piedi. Yezda guardava la scena dall’alto.
Conan afferrò una pietra,
una delle tante staccatesi dal sarcofago, e la scagliò sul leader dei
turaniani. Vide la sua testa incassarsi e spappolarsi come un melone. Yezda scivolò
a terra come una foglia in autunno.
Un nemico portò la freccia
all’orecchio e scaricò l’arco. La punta d’acciaio si conficcò nel bicipite di
Conan. il cimmero passò la katana nella mano sinistra e caricò l’uomo. mentre
quello cercava di incoccare una freccia, gli tagliò la gola e si gettò di lato,
dietro una massa di detriti. Uno dei due supersiti scartò l’arco e sguainò la katana.
lui e Conan presero a guatarsi.
Il cimmero ebbe cura di
frapporre il sarcofago tra loro, quindi si abbassò, afferrò una pietra e la
scagliò. Il braccio, ferito, non impresse al proiettile la potenza necessaria,
che pure bastò per stordire l’uomo e farlo indietreggiare. La katana di Conan
gli mozzò un orecchio. L’ultimo scaricò l’arco e colpì il cimmero sopra la
cintura. Se fosse stato diretto a un individuo meno forte, il dardo avrebbe
prodotto un danno devastante, ma gli addominali di Conan erano duri come
acciaio e tesi come corde.
Il cimmero si strappò la
freccia, quindi spezzò l’asta del dardo che ancora aveva nel braccio.
Ferito e insanguinato, affondò
la freccia nella gola del turaniano e si preparò a combattere l’ultimo uomo.
Questi, nel frattempo,
aveva scartato l’arco e snudato la katana e il pugnale. Assalì Conan con due
rapidi colpi. Il cimmero parò il pugnale e deflesse la katana. Una testata fece
barcollare il turaniano e gli aprì la guardia. Conan lo spinse con la pianta
del piede e lo sbatté contro il cumulo di detriti. Il turaniano inciampò e il
pugnale gli sfuggì. Cercò, inutilmente, di parare il taglio di Conan.
La sua testa mozzata è
ancora lì, nella tomba.
Penetrava una fioca luce
dall’alto, dal passaggio dove i turaniani erano scesi. C’era un odore di muffa
e di vecchie ossa.
A sinistra, in una
nicchia, la statua del dio Hanuman sedeva a gambe incrociate, con l’enorme
fallo sporgente e puntato verso l’orrida testa di scimmia.
Più avanti, sulla stessa
parete, c’era un enorme, massiccio portale a doppio battente: era fatto di
bronzo, come la campana a forma di maglio che pendeva legata a una corda
robusta dal soffitto invisibile. Alla fioca luce, Conan intravide gli stessi
simboli sul bordo della campana, sul sarcofago e sulla porta.
Non avevano niente a che
fare con la lingua di Vendhya e neanche col culto del dio-scimmia. Erano
geroglifici simili a una pioggia di frecce che s’abbatteva su una figura irta
di tentacoli, qualcosa che Conan non aveva mai visto.
l'immagine è di AzrielMordecai, potete trovare l'originale qui |
Senza stare a pensarci, il
cimmero fece leva con la katana per aprire il coperchio. La lama si spezzò e
Conan continuò a far leva col troncone, poi spinse. il coperchio scivolò di
lato e si frantumò in due enormi parti.
Non avrebbe dovuto prestare
attenzione a chi stava nella tomba, o almeno questo era stato l’ordine di
Narmod il mago. “Prendi la polvere d’ossa e non guardare chi c’è dentro il
sarcofago!”.
A Conan parve di vedere un
teschio, tutto lì. L’osso etmoidale era stranamente poco pronunciato e la nuca
sembrava troppo lunga per appartenere a un uomo. che razza di cosa era sepolta
in quella tomba? Conan ammirò le orbite vuote ed esse divennero enormi, fino a
che non gli torturarono la mente con visioni da incubo di vasti spazi cosmici e
gelide stelle distanti al di là d’ogni possibile immaginazione. E dal vuoto
siderale una voce gli parlò nella testa, gli disse del Viandante delle Stelle
venuto da Arcturus quando la Terra era giovane e sepolto in un cuore di roccia,
antico quando ancora i figli di Set camminavano su piedi umani.
Conan si ritrovò a sudare
in quel gelo sotterraneo. La sua volontà di barbaro lottò contro quella
disumana della cosa, la cosa che non era che un mero accolito del Viandante e
non aveva che un decimo del suo potere.
Conan sentì gelidi artigli
invisibili scivolare sul suo essere e poi, con un ultimo sforzo, si scosse e si
riprese: sentì la forza ipnotica che sdrucciolava sul suo cervello fatto di
semplicità e istinto. Sentì le catene di una razza maledetta e civile aver la
peggio sul suo cuore barbaro.
Poi il teschio si spezzò e
Conan vide il pavimento sollevarsi a colpire il soffitto. Cadde a terra e si
rialzò con l’agilità di una pantera.
Enormi macigni
schiacciarono il corpo di Yezda e chiusero il passaggio da dov’erano giunti i
turaniani.
Una pietra s’abbatté sulla
campana e la fece oscillare. Adagio, l’enorme campana colpì il portale e ne
fece risuonare i battenti di bronzo.
«Crom!» bestemmiò il
cimmero, sbalordito.
Giurava che quella cosa
morta avesse fatto crollare tutto di proposito e per rabbia!
Bisognava uscire di lì, ma
tutti i passaggi (anche quello da cui era venuto) sembravano impraticabili.
La campana, poco sopra il
bordo, era coperta da uno spesso strato di corda.
Conan si rammentò delle
corde dei turaniani e frugò i cadaveri. Trovò cinque braccia di robusta canapa
e un arco. Era di Yezda e aveva la forma a doppia curva di quelli ircaniani. Era
fatto di tendine e corno: elastico e robusto.
Conan prese la corda e la
legò agli impennaggi di una freccia, poi mirò alla campana, tese e scoccò. Il
dardo, sibilando, fu scagliato dritto sul bordo di bronzo e si conficcò in
profondità nel tessuto. Afferrata la corda, il cimmero diede uno strattone con
tutta la sua forza. La campana oscillò paurosamente e colpì il portale con un
grande spostamento d’aria. Il boato risuonò lungo i muri della tomba e il
sostegno – invisibile da quella parte – che teneva chiuse le porte di bronzo si
schiantò e la campana passò attraverso i battenti.
Conan si mise l’arco a tracolla
e agganciò una faretra alla cintura. Rinvenne una katana e un pugnale sui
cadaveri, poi s’addentrò nel passaggio. Pazienza per la polvere di Narmod: era
importante uscire di lì adesso.
Oltre le porte c’era
un’ampia camera vuota con un passaggio molto piccolo e puntellato da travi di
legno.
Qualcuno usava quel
passaggio: era evidente dalle orme di piedi nudi nella polvere e dalle travi
stesse, di legno robusto.
La luce – tranne per un
fioco barlume nel passaggio – era svanita con il crollo dei massi e Conan
dovette affidare la propria sopravvivenza all’istinto. Si mise il pugnale fra i
denti e s’infilò nel tunnel, strisciando a carponi. Il passaggio a terra era
coperto d’una sabbia farinosa dove insetti dalle strane forme strisciavano e
anelavano al contatto con la carne umana.
Conan sentì un frollare
d’ali e vide una piccola ombra passargli accanto.
Pure la luce tenue lo
guidava: una piccola lama nelle tenebre.
Il cimmero, a un tratto,
dovette girarsi e infilare l’enorme profilo tra le pareti. Mentre così faceva,
avvertì un intenso puzzo di carcassa e sentì una presenza. Ancor prima di
vederla, percepì la morte: non seppe se era animale o umana, ma capì che doveva
distruggerla, colpire con tutte le forze.
Il pugnale gli balzò in
mano e, stretto dalle dita d’acciaio, scattò dal basso verso l’alto. qualcosa
gli artigliò il petto e gli morse la carne fra la spalla e il collo. Il cimmero
sentì la lama penetrare nella carne del nemico e fu investito da uno sbocco di
sangue. un odore pestilenziale lo travolse e lo costrinse a girare la testa.
Ritrasse e affondò ancora il pugnale. L’urlo che sentì, parve tanto tremendo e
forte da lasciar tremare le pareti millenarie di roccia. La creatura fuggì,
strappando il pugnale dalle mani del barbaro e infilandosi nella sua antica
casa di buio.
Conan continuò a
strisciare senza nemmeno riprender fiato. Sentì la cinghia che gli assicurava
la faretra alla cintura strapparsi, ma proseguì comunque.
Il passaggio iniziò a
salire e divenne più largo. Ora le spalle del cimmero strisciavano appena
contro le pareti.
Più avanti, nel buio
apparve un globo di luce. Era fatto da dieci candele che puzzavano del grasso
di qualche animale. La luce rischiarava una scena. Molte figure stilizzate
erano incise nella roccia basaltica e osservavano qualcosa in procinto di
scendere dal cielo. Conan riconobbe la massa di tentacoli sulla tomba e vide i
sottili geroglifici a forma di freccia.
Qualunque cosa
aspettassero o adorassero quegli uomini, non era Hanuman, né alcuno degli dèi
conosciuti. Sembrava una specie di bestia, come bestie erano i suoi accoliti:
più in là venivano ritratti chini su figure umane in un’assurdamente chiara
stilizzazione di cannibalismo.
Tutto questo, che avrebbe
reso pazzo un uomo civile, ebbe l’effetto di farlo infuriare. Se fosse uscito
vivo, avrebbe aperto la testa a Narmod e si sarebbe preso una borsa d’oro per
il disturbo.
Oltrepassò il sacrario e,
finalmente, uscì all’aperto, sotto un lucore cadaverico.
Il vento gli urlò nelle
orecchie, spingendolo con una forza tremenda verso i bastioni di roccia
basaltica.
Davanti a lui, un lungo,
triste ponte d’assi di legno galleggiava sull’abisso, mentre sinistri stendardi
rossi sventolavano come bandiere di sangue all’inizio, alla fine e a metà del
ponte.
Non c’era altra via.
Oltre il ponte, una specie
di tempio di legno e pietra spuntava come un tumore dalla montagna. Il portale,
alto come sei uomini, era socchiuso.
Quell’edificio era vecchio
e probabilmente ospitava – o aveva ospitato – monaci vendhyani adoratori del
dio-scimmia.
Dai portali vide arrivare
un uomo, di corsa. Uno dei guerrieri di Yezda, un gigante, con gli occhi folli
e un’ascia in pugno. Conan si abbassò, cercò di ignorare il dolore al braccio e
al torace. Il turaniano sbavava dalla bocca, urlando parole incoerenti.
«Tcho… tcho…» disse.
Il cimmero attese che l’altro
sollevasse l’arma, poi gliela bloccò con entrambe le mani e gli affondò il
ginocchio nello stomaco. Pazzo, il turaniano lo morse al collo. Conan gli torse
le braccia, gli strappò l’ascia e con quella gli aprì uno squarcio sulla nuca.
Poi si fermò.
Il sudore stava
rapidamente trasformandosi in ghiaccio sulla pelle e il gelo aumentava, come
richiamato da una forza oscura. Inoltre, il turaniano aveva una protezione di
ferro foderata di pelliccia, e portava con sé una faretra con un’unica freccia;
dell’arco non c’era ombra.
Rapido, il cimmero s’infilò
l’ascia alla cintura, poi sollevò il cadavere e tornò indietro, alla relativa
sicurezza del passaggio sotterraneo. Lì, tenendo d’occhio le porte del tempio,
spogliò il guerriero e ne prese le vesti e le armi.
Yezda e i suoi avevano
trascorso molte stagioni a vendere la katana a sud dei monti Himeliani, perciò
il loro abbigliamento s’era adeguato al clima.
L’armatura che ora Conan
indossava, era fatta di pelle di yak ricoperta di piastre d’acciaio e foderata
di pelliccia di pecora.
Cosa poteva aver
spaventato quell’enorme guerriero a tal modo?
Oltrepassò il ponte, con
la sensazione d’essere spiato.
Davanti a lui, il tempio
incombeva silenzioso come il morso d’una bestia. Conan s’infilò nel portale.
L’interno era ampio e
flagellato dal vento che entrava dalla parete a sinistra. Un primitivo sistema
di imposte di legno sbatteva mosso dalla forza dell’aria. Conan vide che le
imposte erano agganciate tramite corde a un sistema di pulegge comandato da una
specie di ruota di timone. La tessa cosa avveniva per una piattaforma di legno
al centro della sala, agganciata al soffitto tramite corde e carrucole. Il cimmero
capì che, girando un’altra delle ruote di timone – questa posta alla base della
piattaforma – si sarebbe potuto alzarla fino a una sorta di balconata che si
protendeva dal muro davanti a lui.
Qualunque cosa ci fosse là
sopra, lui doveva arrivarci. Non poteva tornare indietro, né rimanere lì. Non poteva
nemmeno scendere dalla montagna dato che non c’erano passi, né sentieri.
Una freccia gli si
conficcò nella corazza e lo spinse a buttarsi dietro una specie di catafalco
ligneo. Questa struttura era adiacente alla piattaforma mobile e la schermava,
in qualche modo, dal vento.
Pure la freccia doveva
essergli arrivata da sinistra, poiché, a causa del vento, da qualsiasi altra
direzione sarebbe stato impossibile tirare con l’arco.
Conan individuò una figura
ingobbita, nascosta nell’ombra, incoccò e portò la freccia all’orecchio.
La figura grugnì e si
piegò in avanti.
Adagio, il cimmero le si
avvicinò, sguainando la katana. a ogni passo, la figura assumeva contorni
umani. Era una creatura rinsecchita dalla pelle luccicante di grasso e vestita
con una rozza tunica stretta in vita da una corda. L’arco che stringeva fra le
mani morte era simile a quello dei guerrieri di Yezda.
Conan rivoltò il cadavere con
il piede.
«Crom!» disse. Quello che
gli stava davanti non era un uomo, ma una specie di spettro dal muso giallo e
sporco di sangue, allungato come quello di un cane, ma glabro e lucido di
grasso. I suoi denti sporgevano un poco e, sia che fossero naturalmente
acuminati, sia che la creatura li avesse resi con mezzi artificiali di quella
forma, fecero pensare a Conan ai cannibali dei regni neri.
Poteva essere uno degli
adoratori del groviglio di tentacoli? Uno degli adepti della creatura venuta da
Acrturus?
Il cimmero si liberò di
arco e faretra, poi andò alla piattaforma, guardò per un momento la ruota e
decise di girarla.
I muscoli si gonfiarono e
il meccanismo scricchiolò, protestò, ma alla fine cedette. La ruota si mise a
girare, ma a ogni ciclo, il braccio ferito di Conan perdeva mordente e,
diminuendo la forza, rallentava il meccanismo.
Quando la piattaforma
superò il catafalco, fu colpita dal vento e schizzò a destra come un lampadario
di una nave in tempesta. E lì rimase, all’altezza di due uomini, irraggiungibile.
Conan sfilò l’ascia e ne
conficcò il manico fra i raggi della ruota, avendo cura di incastrarlo sotto il
bancone da dove essa sporgeva.
Il cimmero realizzò che,
bloccando le enormi imposte e tagliando fuori l’aria, la piattaforma sarebbe
stata raggiungibile e, da lì, anche la balconata.
Corse, perciò, alla
seconda ruota, si guardò attorno e recuperò il robusto arco ircaniano, fece
forza sulla ruota e cominciò a muoverla. Adagio, le imposte si chiusero e l’urlo
del vento morì.
Conan infilò l’arco fra i
raggi e bloccò il meccanismo.
Tornò alla piattaforma e
la vide oscillare e sbattere contro il catafalco.
S’arrampicò su di esso e
saltò sulla piattaforma. Stava per balzare sulla balconata, quando l’arco si
spezzo e la ruota scorse rapida. Il vento divelse le imposte e colpì la
piattaforma con tutta la sua forza.
Conan si trovò come sul ponte
di una nave in tempesta e fu solo la sua esperienza di pirata a non farlo
cadere giù. Il cimmero s’aggrappò alle corde della piattaforma, individuò una
fessura fra le tavole malmesse che rivestivano la parete su cui s’apriva la
balconata e spiccò un salto.
Riuscì ad afferrarsi e a
tirarsi su. Allungò la mano sinistra e s’aggrappò all’orlo della balconata. Il legno,
marcio, si sbriciolò sotto la presa del cimmero. Conan usò il braccio ferito
per aggrapparsi di nuovo e, con un colpo di reni, rotolò sulla balconata,
mentre essa continuava a sgretolarsi.
Senza prendere fiato, si
cacciò in un passaggio.
Sembrava scavato nella
montagna su cui s’appoggiava il tempio.
Oltrepassò una strettoia,
graffiando la corazza e apparve in una camera più ampia, dove candele di grasso
umano bruciavano come facce di spettro nel buio.
Avvertì un fruscio alla
sua destra. Si girò e vide un altro di quei cannibali, di quegli orridi
uomini-bestia, acquattato nell’ombra.
Conan gli spaccò il cranio
fino alla mandibola, quindi si girò.
Un uomo era apparso alla
luce delle candele. Uno straniero alto e magro, dalla pelle gialla e gli occhi
obliqui, come quelli dei misteriosi abitanti del Khitai.
A un suo comando, tre
cannibali balzarono dal buio e gli si avventarono brandendo crude mazze fatte
da femori umani.
Conan fece sibilare la
katana, mozzando il braccio del primo, quindi parò il colpo del secondo, lo
spinse via col piede e gli squarciò la faccia. Il terzo riuscì a colpirlo al
fianco: il cimmero incassò e gli aprì le viscere.
Pur stanco e col fiato
mozzo, s’avventò sullo straniero.
«Fermo!» gli disse questi,
alzando entrambe le mani.
«Perché non dovrei
ammazzarti?» ringhiò Conan.
«Sono l’unico che può
farti abbandonare queste montagne!» rispose lo straniero, «Il mio nome è
Yang-Li; nascerò in seno all’impero di Tsan-Chan fra molte migliaia d’anni e…»
Impugnando la katana, il
cimmero gli staccò la testa dal collo. Il sangue di Yang-Li spruzzò dalle
arterie. Il corpo si afflosciò ai piedi di Conan.
«La strada me la trovo da
solo!» mormorò il cimmero.
Si inginocchiò e prese lo
strano amuleto che Yang-Li aveva al collo, una specie di bulbo d’un metallo
sconosciuto, irto di spine.
Poi lasciò cadere la spada
e si sedette a riposare.
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