giovedì 12 settembre 2013

La tomba fra i monti Himeliani - un racconto su Conan il Cimmero



«Prendetelo!»
Yezda indicò Conan e lasciò che i suoi guerrieri si gettassero nella tomba. Il cimmero aveva solo un pugnale, e l’agilità e i muscoli di un leone. Scagliò l’arma contro il primo, facendogli scoppiare la carotide quindi balzò sul sarcofago che stava al centro della sala.
Un dardo gli strisciò il fianco e una katana gli mancò d’un soffio il piede. Conan sferrò un calcio allo sgherro di Yezda e gli si gettò addosso con tutto il suo peso. La schiena dell’uomo s’inarcò e gli occhi si rovesciarono mentre il cimmero lo atterrava. Usò quell’uomo per parare un colpo di katana, quindi gli prese la katana.
«Su! bastardi!» disse, digrignando i denti. Uno di quelli accolse l’invito e lo caricò con la katana.
Conan abbassò la testa e gli diede una spallata, quindi si alzò e se lo fece volare dietro la schiena. Schivò una freccia gettandosi dietro il sarcofago.
C’erano tre uomini in piedi. Yezda guardava la scena dall’alto.
Conan afferrò una pietra, una delle tante staccatesi dal sarcofago, e la scagliò sul leader dei turaniani. Vide la sua testa incassarsi e spappolarsi come un melone. Yezda scivolò a terra come una foglia in autunno.
Un nemico portò la freccia all’orecchio e scaricò l’arco. La punta d’acciaio si conficcò nel bicipite di Conan. il cimmero passò la katana nella mano sinistra e caricò l’uomo. mentre quello cercava di incoccare una freccia, gli tagliò la gola e si gettò di lato, dietro una massa di detriti. Uno dei due supersiti scartò l’arco e sguainò la katana. lui e Conan presero a guatarsi.
Il cimmero ebbe cura di frapporre il sarcofago tra loro, quindi si abbassò, afferrò una pietra e la scagliò. Il braccio, ferito, non impresse al proiettile la potenza necessaria, che pure bastò per stordire l’uomo e farlo indietreggiare. La katana di Conan gli mozzò un orecchio. L’ultimo scaricò l’arco e colpì il cimmero sopra la cintura. Se fosse stato diretto a un individuo meno forte, il dardo avrebbe prodotto un danno devastante, ma gli addominali di Conan erano duri come acciaio e tesi come corde.
Il cimmero si strappò la freccia, quindi spezzò l’asta del dardo che ancora aveva nel braccio.
Ferito e insanguinato, affondò la freccia nella gola del turaniano e si preparò a combattere l’ultimo uomo.
Questi, nel frattempo, aveva scartato l’arco e snudato la katana e il pugnale. Assalì Conan con due rapidi colpi. Il cimmero parò il pugnale e deflesse la katana. Una testata fece barcollare il turaniano e gli aprì la guardia. Conan lo spinse con la pianta del piede e lo sbatté contro il cumulo di detriti. Il turaniano inciampò e il pugnale gli sfuggì. Cercò, inutilmente, di parare il taglio di Conan.
La sua testa mozzata è ancora lì, nella tomba.
Penetrava una fioca luce dall’alto, dal passaggio dove i turaniani erano scesi. C’era un odore di muffa e di vecchie ossa.


A sinistra, in una nicchia, la statua del dio Hanuman sedeva a gambe incrociate, con l’enorme fallo sporgente e puntato verso l’orrida testa di scimmia.
Più avanti, sulla stessa parete, c’era un enorme, massiccio portale a doppio battente: era fatto di bronzo, come la campana a forma di maglio che pendeva legata a una corda robusta dal soffitto invisibile. Alla fioca luce, Conan intravide gli stessi simboli sul bordo della campana, sul sarcofago e sulla porta.
Non avevano niente a che fare con la lingua di Vendhya e neanche col culto del dio-scimmia. Erano geroglifici simili a una pioggia di frecce che s’abbatteva su una figura irta di tentacoli, qualcosa che Conan non aveva mai visto.

l'immagine è di AzrielMordecai, potete trovare l'originale qui

Senza stare a pensarci, il cimmero fece leva con la katana per aprire il coperchio. La lama si spezzò e Conan continuò a far leva col troncone, poi spinse. il coperchio scivolò di lato e si frantumò in due enormi parti.
Non avrebbe dovuto prestare attenzione a chi stava nella tomba, o almeno questo era stato l’ordine di Narmod il mago. “Prendi la polvere d’ossa e non guardare chi c’è dentro il sarcofago!”.
A Conan parve di vedere un teschio, tutto lì. L’osso etmoidale era stranamente poco pronunciato e la nuca sembrava troppo lunga per appartenere a un uomo. che razza di cosa era sepolta in quella tomba? Conan ammirò le orbite vuote ed esse divennero enormi, fino a che non gli torturarono la mente con visioni da incubo di vasti spazi cosmici e gelide stelle distanti al di là d’ogni possibile immaginazione. E dal vuoto siderale una voce gli parlò nella testa, gli disse del Viandante delle Stelle venuto da Arcturus quando la Terra era giovane e sepolto in un cuore di roccia, antico quando ancora i figli di Set camminavano su piedi umani.
Conan si ritrovò a sudare in quel gelo sotterraneo. La sua volontà di barbaro lottò contro quella disumana della cosa, la cosa che non era che un mero accolito del Viandante e non aveva che un decimo del suo potere.
Conan sentì gelidi artigli invisibili scivolare sul suo essere e poi, con un ultimo sforzo, si scosse e si riprese: sentì la forza ipnotica che sdrucciolava sul suo cervello fatto di semplicità e istinto. Sentì le catene di una razza maledetta e civile aver la peggio sul suo cuore barbaro.
Poi il teschio si spezzò e Conan vide il pavimento sollevarsi a colpire il soffitto. Cadde a terra e si rialzò con l’agilità di una pantera.
Enormi macigni schiacciarono il corpo di Yezda e chiusero il passaggio da dov’erano giunti i turaniani.
Una pietra s’abbatté sulla campana e la fece oscillare. Adagio, l’enorme campana colpì il portale e ne fece risuonare i battenti di bronzo.
«Crom!» bestemmiò il cimmero, sbalordito.
Giurava che quella cosa morta avesse fatto crollare tutto di proposito e per rabbia!
Bisognava uscire di lì, ma tutti i passaggi (anche quello da cui era venuto) sembravano impraticabili.
La campana, poco sopra il bordo, era coperta da uno spesso strato di corda.
Conan si rammentò delle corde dei turaniani e frugò i cadaveri. Trovò cinque braccia di robusta canapa e un arco. Era di Yezda e aveva la forma a doppia curva di quelli ircaniani. Era fatto di tendine e corno: elastico e robusto.
Conan prese la corda e la legò agli impennaggi di una freccia, poi mirò alla campana, tese e scoccò. Il dardo, sibilando, fu scagliato dritto sul bordo di bronzo e si conficcò in profondità nel tessuto. Afferrata la corda, il cimmero diede uno strattone con tutta la sua forza. La campana oscillò paurosamente e colpì il portale con un grande spostamento d’aria. Il boato risuonò lungo i muri della tomba e il sostegno – invisibile da quella parte – che teneva chiuse le porte di bronzo si schiantò e la campana passò attraverso i battenti.
Conan si mise l’arco a tracolla e agganciò una faretra alla cintura. Rinvenne una katana e un pugnale sui cadaveri, poi s’addentrò nel passaggio. Pazienza per la polvere di Narmod: era importante uscire di lì adesso.
Oltre le porte c’era un’ampia camera vuota con un passaggio molto piccolo e puntellato da travi di legno.
Qualcuno usava quel passaggio: era evidente dalle orme di piedi nudi nella polvere e dalle travi stesse, di legno robusto.
La luce – tranne per un fioco barlume nel passaggio – era svanita con il crollo dei massi e Conan dovette affidare la propria sopravvivenza all’istinto. Si mise il pugnale fra i denti e s’infilò nel tunnel, strisciando a carponi. Il passaggio a terra era coperto d’una sabbia farinosa dove insetti dalle strane forme strisciavano e anelavano al contatto con la carne umana.
Conan sentì un frollare d’ali e vide una piccola ombra passargli accanto.
Pure la luce tenue lo guidava: una piccola lama nelle tenebre.
Il cimmero, a un tratto, dovette girarsi e infilare l’enorme profilo tra le pareti. Mentre così faceva, avvertì un intenso puzzo di carcassa e sentì una presenza. Ancor prima di vederla, percepì la morte: non seppe se era animale o umana, ma capì che doveva distruggerla, colpire con tutte le forze.
Il pugnale gli balzò in mano e, stretto dalle dita d’acciaio, scattò dal basso verso l’alto. qualcosa gli artigliò il petto e gli morse la carne fra la spalla e il collo. Il cimmero sentì la lama penetrare nella carne del nemico e fu investito da uno sbocco di sangue. un odore pestilenziale lo travolse e lo costrinse a girare la testa. Ritrasse e affondò ancora il pugnale. L’urlo che sentì, parve tanto tremendo e forte da lasciar tremare le pareti millenarie di roccia. La creatura fuggì, strappando il pugnale dalle mani del barbaro e infilandosi nella sua antica casa di buio.
Conan continuò a strisciare senza nemmeno riprender fiato. Sentì la cinghia che gli assicurava la faretra alla cintura strapparsi, ma proseguì comunque.
Il passaggio iniziò a salire e divenne più largo. Ora le spalle del cimmero strisciavano appena contro le pareti.
Più avanti, nel buio apparve un globo di luce. Era fatto da dieci candele che puzzavano del grasso di qualche animale. La luce rischiarava una scena. Molte figure stilizzate erano incise nella roccia basaltica e osservavano qualcosa in procinto di scendere dal cielo. Conan riconobbe la massa di tentacoli sulla tomba e vide i sottili geroglifici a forma di freccia.
Qualunque cosa aspettassero o adorassero quegli uomini, non era Hanuman, né alcuno degli dèi conosciuti. Sembrava una specie di bestia, come bestie erano i suoi accoliti: più in là venivano ritratti chini su figure umane in un’assurdamente chiara stilizzazione di cannibalismo.
Tutto questo, che avrebbe reso pazzo un uomo civile, ebbe l’effetto di farlo infuriare. Se fosse uscito vivo, avrebbe aperto la testa a Narmod e si sarebbe preso una borsa d’oro per il disturbo.
Oltrepassò il sacrario e, finalmente, uscì all’aperto, sotto un lucore cadaverico.
Il vento gli urlò nelle orecchie, spingendolo con una forza tremenda verso i bastioni di roccia basaltica.
Davanti a lui, un lungo, triste ponte d’assi di legno galleggiava sull’abisso, mentre sinistri stendardi rossi sventolavano come bandiere di sangue all’inizio, alla fine e a metà del ponte.
Non c’era altra via.
Oltre il ponte, una specie di tempio di legno e pietra spuntava come un tumore dalla montagna. Il portale, alto come sei uomini, era socchiuso.
Quell’edificio era vecchio e probabilmente ospitava – o aveva ospitato – monaci vendhyani adoratori del dio-scimmia.
Dai portali vide arrivare un uomo, di corsa. Uno dei guerrieri di Yezda, un gigante, con gli occhi folli e un’ascia in pugno. Conan si abbassò, cercò di ignorare il dolore al braccio e al torace. Il turaniano sbavava dalla bocca, urlando parole incoerenti.
«Tcho… tcho…» disse.
Il cimmero attese che l’altro sollevasse l’arma, poi gliela bloccò con entrambe le mani e gli affondò il ginocchio nello stomaco. Pazzo, il turaniano lo morse al collo. Conan gli torse le braccia, gli strappò l’ascia e con quella gli aprì uno squarcio sulla nuca.
Poi si fermò.
Il sudore stava rapidamente trasformandosi in ghiaccio sulla pelle e il gelo aumentava, come richiamato da una forza oscura. Inoltre, il turaniano aveva una protezione di ferro foderata di pelliccia, e portava con sé una faretra con un’unica freccia; dell’arco non c’era ombra.
Rapido, il cimmero s’infilò l’ascia alla cintura, poi sollevò il cadavere e tornò indietro, alla relativa sicurezza del passaggio sotterraneo. Lì, tenendo d’occhio le porte del tempio, spogliò il guerriero e ne prese le vesti e le armi.
Yezda e i suoi avevano trascorso molte stagioni a vendere la katana a sud dei monti Himeliani, perciò il loro abbigliamento s’era adeguato al clima.
L’armatura che ora Conan indossava, era fatta di pelle di yak ricoperta di piastre d’acciaio e foderata di pelliccia di pecora.
Cosa poteva aver spaventato quell’enorme guerriero a tal modo?
Oltrepassò il ponte, con la sensazione d’essere spiato.
Davanti a lui, il tempio incombeva silenzioso come il morso d’una bestia. Conan s’infilò nel portale.
L’interno era ampio e flagellato dal vento che entrava dalla parete a sinistra. Un primitivo sistema di imposte di legno sbatteva mosso dalla forza dell’aria. Conan vide che le imposte erano agganciate tramite corde a un sistema di pulegge comandato da una specie di ruota di timone. La tessa cosa avveniva per una piattaforma di legno al centro della sala, agganciata al soffitto tramite corde e carrucole. Il cimmero capì che, girando un’altra delle ruote di timone – questa posta alla base della piattaforma – si sarebbe potuto alzarla fino a una sorta di balconata che si protendeva dal muro davanti a lui.
Qualunque cosa ci fosse là sopra, lui doveva arrivarci. Non poteva tornare indietro, né rimanere lì. Non poteva nemmeno scendere dalla montagna dato che non c’erano passi, né sentieri.
Una freccia gli si conficcò nella corazza e lo spinse a buttarsi dietro una specie di catafalco ligneo. Questa struttura era adiacente alla piattaforma mobile e la schermava, in qualche modo, dal vento.
Pure la freccia doveva essergli arrivata da sinistra, poiché, a causa del vento, da qualsiasi altra direzione sarebbe stato impossibile tirare con l’arco.


Conan individuò una figura ingobbita, nascosta nell’ombra, incoccò e portò la freccia all’orecchio.
La figura grugnì e si piegò in avanti.
Adagio, il cimmero le si avvicinò, sguainando la katana. a ogni passo, la figura assumeva contorni umani. Era una creatura rinsecchita dalla pelle luccicante di grasso e vestita con una rozza tunica stretta in vita da una corda. L’arco che stringeva fra le mani morte era simile a quello dei guerrieri di Yezda.
Conan rivoltò il cadavere con il piede.
«Crom!» disse. Quello che gli stava davanti non era un uomo, ma una specie di spettro dal muso giallo e sporco di sangue, allungato come quello di un cane, ma glabro e lucido di grasso. I suoi denti sporgevano un poco e, sia che fossero naturalmente acuminati, sia che la creatura li avesse resi con mezzi artificiali di quella forma, fecero pensare a Conan ai cannibali dei regni neri.
Poteva essere uno degli adoratori del groviglio di tentacoli? Uno degli adepti della creatura venuta da Acrturus?
Il cimmero si liberò di arco e faretra, poi andò alla piattaforma, guardò per un momento la ruota e decise di girarla.
I muscoli si gonfiarono e il meccanismo scricchiolò, protestò, ma alla fine cedette. La ruota si mise a girare, ma a ogni ciclo, il braccio ferito di Conan perdeva mordente e, diminuendo la forza, rallentava il meccanismo.
Quando la piattaforma superò il catafalco, fu colpita dal vento e schizzò a destra come un lampadario di una nave in tempesta. E lì rimase, all’altezza di due uomini, irraggiungibile.
Conan sfilò l’ascia e ne conficcò il manico fra i raggi della ruota, avendo cura di incastrarlo sotto il bancone da dove essa sporgeva.
Il cimmero realizzò che, bloccando le enormi imposte e tagliando fuori l’aria, la piattaforma sarebbe stata raggiungibile e, da lì, anche la balconata.
Corse, perciò, alla seconda ruota, si guardò attorno e recuperò il robusto arco ircaniano, fece forza sulla ruota e cominciò a muoverla. Adagio, le imposte si chiusero e l’urlo del vento morì.
Conan infilò l’arco fra i raggi e bloccò il meccanismo.
Tornò alla piattaforma e la vide oscillare e sbattere contro il catafalco.
S’arrampicò su di esso e saltò sulla piattaforma. Stava per balzare sulla balconata, quando l’arco si spezzo e la ruota scorse rapida. Il vento divelse le imposte e colpì la piattaforma con tutta la sua forza.
Conan si trovò come sul ponte di una nave in tempesta e fu solo la sua esperienza di pirata a non farlo cadere giù. Il cimmero s’aggrappò alle corde della piattaforma, individuò una fessura fra le tavole malmesse che rivestivano la parete su cui s’apriva la balconata e spiccò un salto.
Riuscì ad afferrarsi e a tirarsi su. Allungò la mano sinistra e s’aggrappò all’orlo della balconata. Il legno, marcio, si sbriciolò sotto la presa del cimmero. Conan usò il braccio ferito per aggrapparsi di nuovo e, con un colpo di reni, rotolò sulla balconata, mentre essa continuava a sgretolarsi.
Senza prendere fiato, si cacciò in un passaggio.
Sembrava scavato nella montagna su cui s’appoggiava il tempio.
Oltrepassò una strettoia, graffiando la corazza e apparve in una camera più ampia, dove candele di grasso umano bruciavano come facce di spettro nel buio.
Avvertì un fruscio alla sua destra. Si girò e vide un altro di quei cannibali, di quegli orridi uomini-bestia, acquattato nell’ombra.
Conan gli spaccò il cranio fino alla mandibola, quindi si girò.
Un uomo era apparso alla luce delle candele. Uno straniero alto e magro, dalla pelle gialla e gli occhi obliqui, come quelli dei misteriosi abitanti del Khitai.
A un suo comando, tre cannibali balzarono dal buio e gli si avventarono brandendo crude mazze fatte da femori umani.
Conan fece sibilare la katana, mozzando il braccio del primo, quindi parò il colpo del secondo, lo spinse via col piede e gli squarciò la faccia. Il terzo riuscì a colpirlo al fianco: il cimmero incassò e gli aprì le viscere.
Pur stanco e col fiato mozzo, s’avventò sullo straniero.
«Fermo!» gli disse questi, alzando entrambe le mani.
«Perché non dovrei ammazzarti?» ringhiò Conan.
«Sono l’unico che può farti abbandonare queste montagne!» rispose lo straniero, «Il mio nome è Yang-Li; nascerò in seno all’impero di Tsan-Chan fra molte migliaia d’anni e…»
Impugnando la katana, il cimmero gli staccò la testa dal collo. Il sangue di Yang-Li spruzzò dalle arterie. Il corpo si afflosciò ai piedi di Conan.
«La strada me la trovo da solo!» mormorò il cimmero.
Si inginocchiò e prese lo strano amuleto che Yang-Li aveva al collo, una specie di bulbo d’un metallo sconosciuto, irto di spine.
Poi lasciò cadere la spada e si sedette a riposare.

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