«Si dice che il vecchio Francis lassù abbia trovato
qualcosa.» tutti pensarono all’oro e Greedy Mule s’affrettò a rispondere:
«Nah… lui cerca il filone principale, quel pazzo, ma non è
di quello che parla la gente.»
«E di cosa?» Talverston schiacciò una pulce che aveva preso
dalla barba.
«Sia dannato se lo so.» Greedy batté il bicchiere vuoto sul
tavolo e alzò due dita, senza nemmeno guardare il barista.
«Non posso più farti credito Johnson.» disse il barista,
versandogli però un bicchierino.
«Tutte le volte la stessa storia!»
«Però ci guadagni sempre un bicchiere, Tector!» ridacchiò
Talverston.
Tector Johnson, alias Greedy Mule, alzò il “calice”: «Alla
salute!» disse.
E guardò ciascuno dei presenti con un’occhiata carica di
male.
«Francis!» Buck Talverston vide i picchi carichi di neve
sprofondare nelle immense distese di abeti rossi, giganteschi e possenti.
Sembravano lance che gli antichi dèi d’una natura guerriera avessero
dimenticate lì, pronte per l’ultima battaglia.
L’aria odorava di gelo, di cuoio e di pelo di cavallo.
Talverston si portava dietro un mulo carico di cose acquistate all’emporio.
«Oooh! Adagio Bess!» esclamò, mentre affrontava la discesa
per la capanna di Francis. Era un sentiero strappato in parte alla foresta,
dove scisti e quarziti s’alternavano luccicando alle prime piogge o creando
trappole sotto la neve.
«Da quando quel vecchiaccio non esce?» si domandò, notando
il manto bianco che copriva il sentiero.
Bess allungò uno zoccolo e fece per posarlo più avanti:
cambiò idea e si spostò sulla sinistra. Dietro di lei il mulo caracollava
adagio, le scorte ondeggianti come un piccolo vascello nella tempesta.
Sembrò, all’uomo, che non ci fosse nessuno nella capanna
fino a che un ricciolo di fumo non uscì dal comignolo di latta.
Allora Buck chiamò: «Fraaanciiis!»
Perché il vecchio aveva il grilletto facile.
Ma non rispose nessuno, né la porta della baracca s’aprì.
Buck Talverston continuò ad avanzare, adagio, alla larga
dagli alberi che con le loro radici coperte di bianco costituivano un’insidia
per gli zoccoli di cavalli e muli.
Pensava quanto tutto ciò fosse strano: Francis era un orso,
d’accordo, ma aveva smesso di nevicare da due settimane e non c’era una sola
impronta di zoccolo o scarpone! E quella era l’unica strada da prendere se,
lasciando la capanna, si voleva scendere all’emporio o in paese.
Così fu con un brutto presentimento che legò Bess e cominciò
a scaricare il mulo.
«Francis!» gracchiò, cercando d’apparire allegro, «t’ho
portato zucchero, farina… insomma, tutto come m’hai chiesto!»
Mise giù un grosso sacco di farina e sbuffò:
«Hey Francis! Insomma… potresti farti vedere giù al bar… o
all’emporio di Butler!»
Sbuffò di nuovo, poi ne ebbe abbastanza: «Al Diavolo!» disse
e aprì la porta.
Vide due occhi spiritati guardarlo dal buio, poi sentì un
gran colpo al lato del viso.
Nel sogno c’era un uomo-bestia che parlava in una lingua
sconosciuta. L’uomo-bestia lo guardava e lo additava pronunciando quelle
parole, quelle frasi che per Talverston erano nere.
Quando si svegliò, sentì odore di zolfo e di carne cotta.
C’era una piccola, sgangherata stufa, su cui qualcuno aveva
messo una padella. Dietro il portello danzavano lingue di fiamma.
Buck Talverston sentì la lingua sconosciuta del sogno
scaturire da una voce arrochita e vecchia.
C’erano i contorni di un uomo. Galleggiava nel buio, chino
come una bestia, coperto da una gran pelle d’orso su cui danzavano circhi di
pulci.
L’uomo leggeva da un grosso libro, posato sul pavimento, e
tracciava sulle assi dei disegni geometrici. Accanto a lui c’era una
rivoltella.
L’uomo aveva il profilo di un corvo: la fronte e il naso,
ossuti, sfuggivano da una corona di fili folti e bianchi e da una barba sporca
di tabacco. Due occhi lo fissarono.
«F-Francis!» Buck cercò di alzarsi, ma sentì molti giri di
corda stretti attorno al corpo.
«Hai dimenticato il gesso… e le candele!» gracchiò Francis.
«Il gesso?» l’aveva scordato, è vero.
«Slegami!» disse.
Ma l’altro riprese a leggere in quella lingua bizzarra.
Talverston sbatté le palpebre e dei rivoli di sudore gli
fecero bruciare gli occhi. Sentì le pulci agitarglisi fra i peli della barba.
«Francis… cos’è quel libro? E… puah! Che puzza!»
«Non riuscirò mai a concentrarmi se fai chiasso!»
«Ascolta… slegami… Francis… io…»
«Silenzio!»
«Stai invocando il Diavolo, Francis?» domandò Buck.
L’altro fece un sogghino:
«Maledetto ignorante! Idiota!» sputò un grumo di tabacco,
«Tutti voi idioti e ignoranti!» premette un’unghia sulle pagine del libro.
Sembrava molto vecchio.
«Non capiresti niente! Neanche se ti spiegassi…» borbottò.
«A-ascolta… Greedy dice che hai trovato… qualcosa…»
intervenne Buck.
La risata di Francis parve il sibilo di una teiera:
«Ah, così dice? S’è sparsa la notizia? Beh, questa è
alchimia, idiota! Il libro che vedi fu scritto da un grande scienziato ed è
scritto in greco antico che conosco alla perfezione…»
«C-che vai dicendo Francis? Non…» Talverston cercò di nuovo
di tirarsi su, ma ricadde, con un sospiro.
«Dico che mentre voi cercherete l’oro, io lo farò nascere
qui, su questo pavimento… da quei sassi laggiù!»
L’uomo si alzò e caracollò come un piccolo orso fino a un
cumulo di pietre. Afferrò una pietra e la mise nell’intrico di disegni
geometrici.
«Diventerà oro, capisci? Tutto quel che toccherò sarà oro…»
disse Francis.
«Ma tu ti sei dimenticato le candele, pezzo di idiota!»
urlò, poi si sedette e tirò a sé un sacco di tela, ci frugò dentro e estrasse
un gessetto rotto.
«Ho quasi terminato,» disse, «e… al posto delle maledette
candele, userò la stufa…»
Buck assistette, impotente, al vecchio che disegnava cose
senza senso sulle assi e salmodiava in greco antico, levando le braccia al
soffitto, sputacchiando tabacco.
E le fiamme, come magnifici serpenti, danzarono e si
levarono in alto; strinarono la pelle d’orso e avvilupparono Francis. Poi ci fu
uno scoppio e la capanna intera venne avvolta. Il fumo colpì le narici di Buck
e gli entrò a viva forza nella gola, negli occhi, nei polmoni.
E mentre urlava, dalle fiamme vide emergere un essere
meraviglioso, d’oro puro… un essere che aveva gli occhi di Francis.
«Si dice che ci sia un fantasma ora, nella concessione del
vecchio Francis…» Greedy Mule sollevò un bicchiere pieno di whisky fino
all’orlo e sorrise.
«Il povero Buck… non posso crederci…» Obed Butler, dell’emporio,
scuoteva la testa, seguendo il filo di pensieri suoi.
«Un fantasma...» continuò Greedy, dopo aver trangugiato il
whisky, «tutto d’oro, d’oro puro.»
«Dicono questo?» Butler s’ accigliò.
«Già! Un uomo d’oro puro come la vena madre!» Greedy batté
forte il bicchiere sul tavolo, poi s’alzò, si sistemò il cinturone carico di
proiettili e agguantò il fucile.
«Niente whisky, Johnson?» domandò, un po’ stupito, il
barista, pulendo un bicchiere.
«Nah…» Greedy Mule sorrise e si calcò in testa un
cappellaccio floscio, «vado a caccia.» disse.
«E di che?» domandò Butler.
«Se ho ragione, c’è una grossa pepita d’oro su due gambe
lassù, dal vecchio Francis…»
fine
Diventerà presto il più ricercato del west!
RispondiEliminaIl Moro
Hey Moro!!
Eliminapraticamente a me interessa scrivere 'sti raccontini perché li uso come esercizi, ergo: scrivendone uno imparo a usare correttamente il corsivo, con un altro imparo a chiamare i personaggi sempre con uno o due appellativi (nome compreso), eccetera.
Cioé, leggo le regole di stile e grammaticali e scrivo un raccontino rispettandole.
Tutto per migliorarsi!
;)
Saludos!