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«Signor Sputnik,
buongiorno!» Veronica Negri si alzò e strinse la mano all’uomo.
Sputnik era alto, magro,
vestiva d’un completo Gucci e aveva occhiali Armani dalle astine spesse e
bianche. Sulla cravatta, blu scuro, c’era una minuscola bandierina della
Svezia.
Veronica annusò un
leggerissimo odore di dopobarba e quell’asettico aroma di scarpe nuove di tela
leggera.
Lei indossava un tailleur
e due gocce di Alien di Mugler versione estiva. Per ricevere Sputnik, si mise
anche un sorriso di denti bianchi, scintillanti.
«Signora Negri! Lei è un
incanto!» Sputnik le strinse la mano, gliela trattenne, se la avvicinò alla
bocca e accostò le labbra sul dorso. Dove un italiano avrebbe semplicemente
detto “che piacere”, Sputnik era andato oltre.
Veronica aumentò il
sorriso e disse: «Un caffè?»
Sputnik sorrise a sua
volta e annuì. Veronica gli indicò la sedia rossa, di design: «Prego!» disse. L’uomo
annuì e si accomodò.
Aveva una valigetta.
Assomigliava a una Sanwa
in alluminio, una porta-pistole; Sputnik la sollevò e la depositò delicatamente
sul tavolo in vetro bianco di Veronica.
Bussarono alla porta.