Il cane abbaiò,
slanciandosi in avanti e ricadde, trattenuto dalla mano di ferro del
proprietario.
Avevano seguito una strada
di impronte fino al cerchio d’alberi presso il fiume. Il cielo indossava una
sfumatura metallica e lasciava cadere piccoli fiocchi come penne di gallina.
Uno di questi si depositò, senza far rumore, sulla punta del naso di Reyan
Caeen re di Tulo. Il microscopico, perfetto, cristallo si ruppe bagnando lo
strato di grasso che ricopriva la pelle del re.
«Maestà, il giovane qui
non è un cane bene educato.» disse Caolan Balthair, capo della guardia reale.
Reyan fece schioccare la
lingua e richiamò l’attenzione del quadrupede, quindi lasciò il collare. Nella
mano destra, però, aveva già pronta una strisciolina di carne essiccata che
aveva preso da una borsa alla cintura. Il cane guardò la carne. Reyan alzò
l’indice e il cane si sedette, toccò il pugno del re col naso e aspettò. Reyan
aprì la mano e il cane prese delicatamente la carne, la inghiottì e si girò di
nuovo.
Dal sentiero arrivavano
due uomini: i loro stracci volteggiarono al soffio dell’aria; i loro passi furono
incerti. La testa di uno era gettata all’indietro. Le bocche erano aperte e
facevano uscire un monotono, lungo e lugubre “aaah”.
Il cane rizzò i peli sul
collo e cominciò a ringhiare, poi girò la testa verso il padrone. Reyan disse:
«No!» e sollevò ancora l’indice. Il cane si mise seduto. Reyan aprì la mano e
disse: «Resta!»
Poi sguainò la spada lunga
da combattimento e avanzò sulla neve gelata.
Aveva sedici anni ed era
un perticone magro dagli occhi giallo-grigi, l’occhio destro più chiuso e più
grande dell’altro e il naso dritto come un pugnale. Le guance erano piene e
lisce, fatta eccezione per un solco che, dal mento, spaccava la pelle fino allo
zigomo sinistro.
I capelli del re riposavano
legati in un codino nero spalmato di grasso. Il grasso luccicava sulle guance e
sul naso di Reyan e gli dava un leggero fetore di morte.
«Mio signore!» disse
Caolan, sguainando la spada. L’altro alzò una mano.
«Ho giurato di proteggerti!»
protestò Caolan. Il re non rispose e continuò ad avanzare.
Il capo della guardia si
girò e fece un segnale a chi lo seguiva. Tre armigeri afferrarono gli archi e
incoccarono le frecce. Il cane guaì, ma rimase fermo dov’era.
Reyan si girò: «Se fate
partire una sola freccia, vi stacco la testa.» disse.
Uno degli armigeri guardò
il re, guardò Caolan, ricevette il segnale d’abbassare l’arco e obbedì. Anche
gli altri due obbedirono e rimasero a guardarsi la punta delle scarpe.
Il cane abbaiò. Bastò una
sola occhiata di Reyan per raggelarlo.
Nel frattempo, i due lungo
il sentiero avevano accelerato il passo. Uno era caduto e si era rialzato e ora
teneva un braccio, lungo il fianco, piegato in posizione innaturale.
Reyan avanzò e li guardò
negli occhi: ombre bianche come quelle di un pesce bollito.
Uno alzò la mano dal dorso
bluastro e dalle dita nere.
Il sovrano non si
scompose: menò un fendente diagonale, ringhiando. La lama strappò i cenci, spaccò
la clavicola e mozzò collo e spalla sinistra all’altro. Reyan ebbe la
sensazione di ossa che si spaccavano, come quelle dei polli, e di carne tesa,
morta, che veniva strappata.
Quello dal braccio rotto,
l’unico superstite, graffiò la manica del giubbone di pelle del re. Reyan fece
scivolare la punta verso terra, poi alzò la spada facendo una mezza piroetta in
senso orario. La mano dell’avversario galleggiò a mezz’aria, separata dal
polso, poi fu il turno del naso e dello zigomo sinistro.
Dalle ferite non uscì una
goccia di sangue.
Reyan imprecò, fece un
passo indietro e mozzò la testa all’uomo. il corpo cadde.
Il cane latrò e corse ad
avventarsi sul primo cadavere; chiuse le fauci attorno al tronco senza testa e
cominciò a strappare la stoffa indurita dal ghiaccio.
Caolan arrivò di corsa,
alzò la spada ne rivolse la punta all’ingiù . Reyan si girò: la testa
mozzata muoveva gli occhi ciechi e
apriva e chiudeva la bocca. Caolan le spinse la lama in mezzo alla fronte,
finché un rivolo biancastro non uscì dagli occhi e la punta della spada non
scavò nella neve gelata.
Reyan annuì, mentre Caolan
alzava la testa infilzata sulla spada.
«Due “maiali lunghi”!»
disse il re. Fece un secco gesto e disse: «I corpi sul carro, le teste nel
sacco.»
Caolan si girò e urlò:
«Voi del carro, venite avanti!»
Adagio, il gruppo di
guerrieri fu raggiunto da alcuni servi che trascinavano una grossa slitta.
Dietro di loro, quattro armigeri e un guerriero chiudevano il cerchio.
«Caccia grossa, maestà?»
ruggì il guerriero.
Reyan si girò: «Un paio di
maialini congelati.»
«Li mettiamo nella
dispensa, eh Piccolo Wyn?» disse Caolan, ridacchiando, al guerriero.
Piccolo Wyn indicò
qualcosa con la sua lunga lancia nera: «Se il cane non se li mangia prima!»
Reyan sorrise e fece
schioccare la lingua. Il cane lo guardò e Reyan gli diede un bocconcino di
carne essiccata, poi puntò un dito verso il basso e lo fece girare tre volte.
Il cane seguì il dito, girando e si sedette quando il re disse: «Seduto!»
«Bella grassa quella bestia!»
commentò Piccolo Wyn, arrivando vicino al re e al capo delle guardie.
Reyan sorrise, afferrò un
bocconcino di carne e se lo mise fra i denti; puntò la spada sul ventre del
guerriero e disse: «Già … bella
grassa.»
Piccolo Wyn si bloccò:
l’allegria fu spazzata dal suo viso.
«Io … non volevo … Sire …
» fece.
Reyan spinse e la punta
bucò il giubbone di cuoio, toccando la casacca di cotone di Piccolo Wyn:
«Non adesso, non ti mangio
adesso. La sai la regola: prima
diventi zombi, poi io vado a caccia, ti stacco la testa e metto il tuo corpo al
fresco.»
Adagio, Reyan cominciò a
ridere: dapprima fu una specie di tremore che si trasformò in uno scoppio
incontrollato e terribile.
«Sì, mio re.» Piccolo Wyn
deglutì e piegò la testa.
«Dobbiamo finire tutti così! Anche mio padre è risorto dalla tomba.
Le donne faranno i pasticci salati con la tua carne, Piccolo. Li faranno con la
mia e, quando morirà, anche con quella del cane.» Reyan aprì le braccia e la
spada scintillò per una rara goccia di sole: «È la legge!»
I servi buttarono i
cadaveri sulla slitta.
«Così io sfamo il popolo
di Tulo!» ringhiò Reyan, masticando la strisciolina di carne, «E così ha fatto
mio padre e suo padre prima di lui.»
Involontariamente, si
leccò le labbra sporche di grasso di morto-vivente. Il cane guaì e ringhiò ai
servi.
Reyan diede una pacca
sulla spalla al guerriero e s’incamminò fino al primo albero. Esso era nero
come la notte e aveva la forma d’una punta di lancia. Le sue foglie possedevano
una sfumatura pallida.
«Ci stiamo estinguendo … »
mormorò il re all’albero, «Voi siete morti come mosche al freddo e non ci avete
dato più legno per i bevitori di sangue. Il nostro acciaio è vecchio … e ci
nutriamo di cadaveri.»
La mano guantata del re
s’aggrappò a uno dei rami. Reyan infilò la sua spada da combattimento nella
neve e lasciò che un servo la pulisse e la riponesse, con cura, sulla slitta.
Il cane rizzò le orecchie,
indietreggiò, abbassò le orecchie e cominciò a ringhiare. Aveva la coda tra le
gambe.
Poi, in risposta alle parole
del re, all’orizzonte apparve una belva quadrupede. Arrivò a balzi, piantandosi
a debita distanza dal guerrieri e annusando l’aria.
Aveva un volto cieco, la
pelle bianco-latte, viscida, venata di rosso. Gli artigli, che erano stati
mani, sembravano rostri e la bocca possedeva un’unica, orribile, zanna ricurva
là dove la mutazione aveva fatto cadere gli altri denti.
«Succiasangue!» urlò un
armigero.
La creatura si erse sulle
zampe posteriori come un grizzly. Frustò l’aria con la lunga lingua viola ed
emise una serie di ticchettii.
Reyan tornò sui suoi
passi:
«Dammi la lancia!» disse a
Piccolo Wyn. Il guerriero obbedì e il re, quel sovrano sedicenne e imberbe,
scagliò la lancia.
La punta di legno nero
s’infilò nella bocca del vampiro e gli spezzò il dente, poi uscì dall’altra
parte. A causa dell’impatto, la creatura fu sbilanciata e cadde all’indietro,
arcuando la schiena.
Poi giacque molle, con gli
artigli abbandonati nella neve.
Il re le si avvicinò e
recuperò la lancia:
«Mi dispiace, Wyn … è
spezzata!» disse, sollevando il troncone nero. Lo gettò fra le mani del
guerriero e disse:
«Faremo fare due paletti
dal maestro d’armi. L’ottimo legno non deve venire sprecato.»
«Sì, mio re!» disse
Piccolo Wyn.
«Potremmo tagliare gli
alberi … » iniziò Caolan.
«Gli alberi non si
tagliano!» con un ringhio, il sovrano gli fu addosso, «Non-si-tagliano.»
scandì.
«E ora, ripulite questo
casino: voglio tornare al castello e godermi una tazza di sangue.»
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