«Io nel dubbio mi sono venduto il tuo culo.»
Szmu* mise una mano sulla
spalla del nano Dolek Kozak e ridacchiò con un angolo della bocca (dall’altro
pendeva una sigaretta piegata a boomerang).
Dolek alzò lo sguardo
rassegnato verso Szmu e annuì:
«Grazie amico, è proprio
un bel pensiero da giudeo.»
Le parole del nano
strapparono una risata all’uomo alto dal naso aquilino e gli occhi azzurri da omicida:
«Pensa se … ah! No, è
troppo divertente!»
«Parla pure!» lo invitò
Dolek, facendo fare un mezzo giro alla mano destra e mettendo il palmo
all’insù.
Szmu tolse la sua dalla
spalla del nano e, ridendo, si pulì la saliva con la manica del cappotto:
«Pensa se fossi nato nano
ed ebreo!» disse, prima di cedere a una nuova esplosione di risa.
Dolek alzò un sopracciglio:
«Divertente, molto divertente …
magari perché non negro?»
Szmu si bloccò, quel tanto
che bastava per udire le parole dell’altro, e poi inarcò la schiena e gettò la
testa all’indietro, continuando a ridere: «Negro! Pensa un po’: ebreo, nano e negro!»
«E sentiamo: cosa gli hai
detto?» Dolek piegò la testa di lato, facendo guizzare i suoi occhi verdi
addosso all’ebreo.
Szmu lo guardò e smise di
ridere. Senza rispondere, prese un fiammifero e lo accese sfregandoselo tra due
dita. Il fuoco – miracolo di un altro mondo – inghiottì un poco di grigio e
bruciò la carta e il tabacco della sigaretta.
A questo punto, Szmu fece
un lungo tiro, si tolse la cicca di bocca, buttò fuori il fumo e solo allora
rispose:
«Gli ho detto che sei dei
loro, che conosci la lingua e che ci parlerai.»
Dolek distolse lo sguardo,
annuì e disse: «La ling … » si bloccò e riportò lo sguardo sull’ebreo. Il viso
di Szmu era coperto da una nuvola di fumo.
«Vedrai che ci
riusciremo.» Szmu fece un passo e mise il piede su una piccola sporgenza di
roccia.
Da lassù, in mezzo alla
tempesta, un falco risalì il corso dello Svansjo e vide due piccoli uomini
nella bocca di una grotta, fra le montagne coperte di neve.
«Ci siamo adattati a
tutto, ci adatteremo anche a questo.» disse Szmu, indicando il pianoro che
affiorava dal turbine di neve.
Una raffica di vento trovò
la strada per l’imbocco della grotta e colpì Dolek, alzandogli i capelli biondi
sul capo e aprendogli il cappotto; il nano si affrettò a richiuderlo,
stringendone il bavero con le mani.
«Già … ci siamo adattati a
tutto.» disse.
Rimase con lo sguardo
fisso e si mise a pensare. Le sue sopracciglia si posavano su un’arcata
massiccia e gli occhi, leggermente infossati, gli davano un’aria perennemente
malinconica, rassegnata e anche allegra. Quando poi rimanevano fissi, era come
se attraverso loro, l’anima di Dolek s’alzasse e scivolasse sul vento,
liberandosi della tempesta e cercando nel passato un giorno di sole.
Ripensò ai suoi genitori,
che lo tenevano nascosto sotto le assi del bagno. C’era una puzza antica là,
che gli parlava di cose morte. E Dolek doveva stare nascosto o i tedeschi
l’avrebbero trovato.
Gli era andata bene … per
quanto? Sei giorni. Poi aveva sentito dei passi e degli spari nella ulica. Voci in tedesco che gridavano
alt!
E qualcuno aveva aperto la
porta del bagno e l’aveva richiusa.
Szmu, ebreo in fuga, aveva
portato i tedeschi nel nascondiglio del nano per errore.
Poi: la deportazione e il
ghetto di Sosnowiec, in Slesia.
E adesso, lì.
«Questo posto non è
neanche la Terra, Szmu.» Dolek lo disse con un lontano rammarico, mentre i suoi
occhi seguivano il volo di un falco.
«Com’è che lo chiamano i
crucchi?» domandò l’ebreo.
«Asgard.» Dolek lo disse
d’un fiato.
Szmu ebbe un sussulto:
«Che cazzo di nome.»
«Asgard era la casa degli
dèi germanici.» spiegò il nano, solenne.
«Adesso è la nostra,» disse
Szmu, «e butteremo fuori i tedeschi.»
La sicumera dell’altro
fece sorridere Dolek: «Senz’armi?»
«Hey! Quei piccoli barbuti
hanno coltelli, asce, archi e frecce … e poi guarda quanto spazio!» Szmu gettò
la sigaretta, ed essa venne inghiottita dal mondo grigio.
«I tedeschi sono pochi,
Dolek!» disse l’ebreo, «Ce la possiamo fare.»
«I tedeschi sono pochi?
Non credi possano usare quella specie di “passaggio” come abbiamo fatto noi?»
il nano si girò e puntò le braccia verso Szmu, con i palmi di taglio:
«Ascolta! Abbiamo avuto
fortuna. Quando ci hanno portati di qua, nessuno era preparato ad accoglierci.»
Per tutta risposta, Szmu
si tirò su la manica del cappotto rivelando l’avambraccio nudo e un numero
impresso sulla pelle:
«Qui non è come il lager,
nano. Qui loro hanno fatto uno sbaglio … e per Dio, noi useremo quello sbaglio
per mettergliela nel culo!» disse, con la voce a metà tra un sussurro e un
ringhio.
Dolek annuì, calò le
braccia lungo i fianchi e piegò la testa di lato:
«O moriremo tentando di
farlo.» disse.
«Morire con il cazzo nel
culo di Adolf non è una bella cosa.» constatò Szmu.
Poi entrambi si misero a
ridere.
Erano tutti lì, ottocento
ebrei rifugiati nelle grotte fra quei monti in tempesta. I primi ottocento di
una lunga serie che i tedeschi avrebbero portato nel nuovo lebensraum.
Per la maggior parte
venivano dalla Polonia, ma Dolek aveva sentito anche qualche straniero, benché
la differenza fosse solo di lingua, perché quei visi, tutti quei visi erano
scolpiti dal dio del tormento e della sofferenza e, agli occhi del nano,
risultavano uguali.
«Adam è morto.» una donna,
poteva avere vent’anni ma anche cinquanta, guardò Szmu con le lacrime agli
occhi, prima di calare lo sguardo su Dolek e mettersi a piangere.
Il nano trasse un sospiro
e chinò il capo, facendo ondeggiare appena le sue braccia corte. Pensò a
quell’uomo: Adam … come si chiamava? Adam Rudik, no … Rubner … Rubin, Adam Rubin. S’era beccato una
scarica di mp40 che gli aveva quasi staccato il braccio. Faceva il fabbro a
Lodz ed era forte come un toro: solo per questo aveva resistito tanto.
Senza un medico, lì
perduti nelle grotte di un mondo alieno, quanti Adam Rubin sarebbero morti?
«È morto … » ripeté la
donna. Aveva un fazzoletto sulla testa, legato come un soggolo sotto il mento.
I suoi occhi erano nascosti dalle lacrime. Si teneva addosso una giacchetta a
righe da detenuta e una piccola sciarpa fatta con la camicia di un morto.
La testa enorme di un uomo
le riposava in grembo, presso una specie di nicchia scavata dal vento nella
nuda roccia.
Dolek sentì il peso di
quello sguardo e ne ebbe paura, paura che la donna potesse dire “è colpa sua!”
puntandogli il dito contro.
Ma perché avrebbe dovuto, dopo tutto?, pensò il nano. Volle alzare gli occhi – senza tirare su il capo – e sbirciare, furtivo, la scena.
Ma perché avrebbe dovuto, dopo tutto?, pensò il nano. Volle alzare gli occhi – senza tirare su il capo – e sbirciare, furtivo, la scena.
E poi disse la prima cosa
che gli suggeriva la mente:
«Sei la moglie?»
La donna fece in tempo a
scuotere la testa, prima di piegarsi sul corpo dell’uomo ed essere torta dai
singhiozzi.
Ma che stupido!, pensò
Dolek, nessuno qui ha legami familiari: vengono dal lager e laggiù i tedeschi
li hanno separati dai loro cari. I padri, le madri, i figli e i fratelli di
queste persone sono ancora sulla terra, in mezzo al filo spinato e alle torri
di guardia.
«Signor Dolek.» si
avvicinò un uomo magro, con la barba di qualche giorno. Portava, come quasi
tutti, una giacca a righe bianche e nere con una stella gialla fatta da due triangoli
di stoffa sovrapposti sul petto.
Il nano alzò il mento e
attese.
«Signor Dolek … quel
ragazzo, Scharf … la febbre non gli passa.» continuò l’uomo.
«La ferita sta facendo
infezione.» si aggiunse una donna.
Dolek strinse gli occhi.
Ma cosa volevano facesse?, che gli imponesse le mani per guarirlo?
Aprì la bocca, per
rispondere in maniera sarcastica, ma la richiuse: aveva paura che dicessero
“sì, la prego, lo guarisca!”
E perché?, perché aveva un
cappotto sottratto a un tedesco nella precipitosa fuga dall’Artiglio?
O perché era l’unico nano
tra di loro?
Poi il corso dei pensieri
fu interrotto da qualcosa, qualcosa che dapprima Dolek non capì, benché il suo
subconscio l’avesse a lungo registrata: il silenzio.
Quella folla di morti di
fame piangeva lacrime senza suoni e non s’arrabbiava: non ne era capace. Dolek
li vide ondeggiare piano come spighe al vento e sentì un vago, lugubre,
mormorio levarsi dalle loro indistinte file. E poi si ricordò che quelli non
erano più uomini.
I tedeschi li chiamavano haftlinge ed erano tutti uguali, tutti
magri, pelati, infreddoliti e pieni di pulci.
Avevano marciato,
lavorato, patito la fame nel lager; erano morti, erano sopravvissuti. E poi
erano stati caricati su un treno e portati nel cuore della Germania. E da lì, a
un castello.
Dolek non ne sapeva il
nome, ma quando lo vide, gli parve un cattivo presagio: era così alto e
terribile, circondato da una grande foresta di pini così verdi e cupi da fare
male agli occhi.
A piccoli gruppi, gli
haftlinge erano stati condotti alla visita medica, e dopo, erano scesi nei
sotterranei del castello e da lì, i tedeschi li avevano fatti immergere in una
pozza di giada liquida.
Dall’altra parte c’erano
già le guardie urlanti, le botte coi manganelli e il calcio dei fucili. C’era
la corsa su per le scale e il raggruppamento nel cortile pieno di neve.
E allora, qualcosa era
scattato negli haftlinge e li aveva spinti a ribellarsi, ad assalire le guardie
e a seguire quel mezzo uomo biondo e il suo compagno alto, dagli occhi azzurri.
Forse era nell’aria e gli
haftlinge l’avevano fiutato. Forse avevano capito, coi loro nasi da animale,
che il tedesco, laggiù, era spaesato quanto loro e che la sua presa ferrea non
si era ancora stretta attorno ai loro colli.
Adolf ha fretta, pensò
Dolek, e “presto e bene non vanno mai insieme”.
Il nano prese fiato e
coraggio: salì su una sporgenza di roccia, alzò le mani e le abbassò, adagio:
«Parlerò con loro.» disse,
«e li convincerò a darci cibo e … a far venire un medico.»
«Sì, signor Dolek.» disse
l’uomo che gli aveva parlato di Scharf.
«Dove sono le guardie,
signor Dolek?» domandò una specie di scheletro umano.
«Non ci sono le guardie.»
rispose il nano, meravigliato, «Qui non ce ne sono.»
«Andremo a parlamentare
con i barbuti.» intervenne Szmu, alzando le mani e abbassandole, «Adesso!»
aggiunse.
Dolek annuì e saltò giù
dalla sporgenza, poi si chiuse bene il cappotto, nascondendo la giacca da
detenuto col triangolo nero sul petto con la “P” di “polacco”.
Il cappotto gli stava
grande e lo faceva inciampare; gli zoccoli di legno gli lasciavano il tallone
libero e il piede aveva poca presa. Dolek doveva così camminare adagio, con una
specie di andatura saltellante da uccellino, cosa che faceva ridere Szmu.
La luce era cambiata. Se ne accorse quando uno screzio grigio-turchese dipinse gli strati più alti dell’atmosfera. La direzione del vento cambiò, sfiorando le grotte e soffiando verso la piana. I turbini di neve, come elfi capricciosi, s’allontanarono.
Dolek non aveva mai visto
niente di simile, perché quei monti erano i più alti del mondo. A casa sua,
tutto era piatto, eccezion fatta per i Tatra che sembravano delle colline a
confronto. C’era la neve, in Polonia, in inverno, ma nulla di paragonabile a
quella tempesta che infuriava da ore.
Dolek ne assaporò il gelo
e disse un muto “grazie”. Era a causa sua, della tempesta, che i tedeschi non
li avevano trovati … o a Dolek piaceva pensarlo.
«Pronto?» Szmu gli diede
una pacca sulle spalle e gli fece un sorriso, poi frugò nelle tasche del suo
cappotto e trasse una sigaretta, se la rigirò fra le dita e la diede al nano.
«Ti consiglierei di
tenerle.» disse Dolek, «Potremmo usare le sigarette come moneta di scambio.»
Szmu piegò gli angoli
della bocca all’ingiù e alzò le sopracciglia: «Buona idea.» disse,
riprendendosi la sigaretta.
Dolek si chiuse bene il
cappotto, poi guardò lo stretto sentiero che costeggiava la roccia:
«Hai idea di dove andare?»
chiese.
Szmu indicò proprio il
sentiero con la sigaretta spenta. Dolek scosse la testa:
«Ah! Perché te l’ho
chiesto?»
Si avviarono adagio,
guardando dove mettevano i piedi e facendo una pausa ogni qual volta il freddo
succhiava loro le forze.
Dovettero camminare su un
costone di roccia e aggirare una parete sporgente.
Il vento cambiò ancora
direzione, soffiando tra due alte colonne naturali che si staccavano dal grosso
della montagna. Fra di esse, uno strapiombo invalicabile sanciva il confine
delle terre dei nani.
Dolek guardò verso l’altra
parete. Là, nascosto dalla tempesta, c’era l’Artiglio del Lupo: il castello di
Adolf Hitler.
Il nano sentì una specie
di rigurgito invadergli l’esofago e dovette fermarsi e portare la manica del
cappotto alla bocca.
Szmu, forse capendo il
perché del gesto, indicò la direzione del castello con la sigaretta e urlò
qualcosa che si perse nella tempesta.
L’ebreo si girò e fece
segno al nano: davanti si vedevano delle ombre.
Dolek annuì e passò sotto
le gambe di Szmu, fermandosi con la schiena contro la parete di roccia. Fu
allora che vide i nani.
Avanzavano adagio, con le
barbe al vento e dei bastoni e delle pertiche in pugno. Erano in quattro.
Si avvicinarono ai
polacchi come bestie selvatiche che vedano per la prima volta un uomo.
Silenziosi, saltellarono giù da un inaccessibile costoncino di roccia e si
pararono di fronte ai due.
Il primo puntò il bastone
oltre la spalla di Szmu; l’ebreo si girò, guardando la strada che lui e Dolek
avevano appena percorso. Quando Szmu si rigirò, il nano annuì.
L’ebreo indicò la strada
col pollice e il nano annuì ancora.
Dolek alzò gli occhi verso
Szmu e urlò: «Vogliono che li portiamo al rifugio!»
«Sì, credo di sì!» urlò
l’ebreo di rimando.
Il nano col bastone annuì
e urlò: «Ja!»
«Sprechensie Deutsch?» domandò, gridando, Szmu.
«Bringen mich … dort!» urlò il nano, in un rozzo tedesco.
«Ha detto di portarli al
rifugio!» disse l’ebreo a Dolek.
«E va bene allora!» urlò
Dolek.
Szmu annuì, girò i tacchi
e cominciò a camminare.
Dolek e i nani si
osservarono. Quello che aveva parlato era poco più alto di lui e aveva una
barba bionda, finissima, agitata dal vento con la violenza d’una frusta. Gli
occhi erano piccoli e infossati dietro un’arcata sopraciliare da uomo
preistorico e il naso era piccolo, forte e dritto.
Il vento portò alle narici
di Dolek l’odore di cuoio e corpi non lavati. E c’era anche qualcosa di nuovo,
di alieno, che il nano non riuscì a classificare. Era l’odore del diverso.
A questo punto, il nano
barbuto parlò in una lingua dolce e musicale; parlò adagio, come si fa quando
si avvicina un cervo.
Dolek non disse niente.
L’emozione rischiava di traboccargli dal cuore. Quella creatura forte e libera
gli parlava, voleva stabilire un contatto con lui, povero polacco del ghetto.
Quando gli parlò di nuovo,
Dolek rispose. Con una lacrima.
Grave in viso, il nano
barbuto annuì, si avvicinò e sfiorò la spalla di Dolek con una mano tozza. Il
polacco toccò quella mano con la sua e il nano annuì di nuovo e disse:
«Bringen … bringen!»
Dolek si girò e seguì
Szmu.
Quando misero piede al
rifugio, gli haftlinge erano per terra, raggomitolati nei loro stracci a dormire.
Si riscossero adagio,
annusando l’aria come bestie e guardando nell’oscurità. Nessuno osava accendere
un fuoco, per paura dei tedeschi.
I nani batterono a terra i
bastoni e le pertiche e anche le scarpe, per far cadere la neve.
Avevano le barbe
incrostate di ghiaccio e le sopracciglia da vecchi gufi. Ma, giudicò Dolek,
sembravano ben pasciuti: sì, molto più in carne degli haftlinge.
Il nano che aveva parlato
prima indicò Dolek col bastone e disse: «Kommen … von … Burg?»
Dolek sorrise e alzò una
mano col palmo rivolto verso il barbuto, poi guardò Szmu e chiese:
«Parli tedesco?»
«Poco … ma chiedono se
arriviamo dal castello.» disse l’ebreo.
Frattanto, uno dei nani –
uno con la barba nera e riccioluta da assiro – parlò a un compagno nella loro
lingua.
Il compagno annuì e alzò
il mento verso i rifugiati.
«Che dicono?» sbottò
Dolek, battendosi i fianchi con le braccia. Szmu fece spallucce.
«Io … io capisco … » disse
una voce.
Dolek e Szmu si
guardarono, poi guardarono gli haftlinge. E uno di loro uscì dalle file di
stracci e si batté adagio il petto dicendo: «Io … io capisco!»
Era basso, magro (come
tutti loro) e aveva la pelle più scura degli altri. I suoi occhi erano neri e
sul mento c’era un accenno di barba. Era uno degli stranieri: sulla giacca la
stella gialla riportava le lettere N e J: Netherlander
Juden, ebreo olandese.
«Bene!» Dolek allargò le
braccia e fece un sorriso, «Cosa dice, allora?»
«Vittime del sacrificio.»
replicò il detenuto.
Szmu piegò gli angoli
della bocca verso il basso e alzò le sopracciglia, poi fece fare al polso una
teatrale torsione: «Beh, mica male, no?»
«Siamo vittime sacrificali
per il lupo … che lui dice “aelf” e
vuol dire sia “spirito maligno” che “lupo”.» spiegò lo haftlinge.
«Spirito … » Dolek
sorrise, sbatté le braccia lungo i fianchi e girò la testa: «Ma insomma: che
lingua è? Parlano olandese?»
«No signore.» rispose lo
haftlinge.
«E allora?» domandò il
nano.
«Vede,» disse l’altro, «io
mi chiamo Jacob … Jacob Franco e vengo da Leyda, nei Paesi Bassi, ma per anni
ho abitato in Islanda e quella lingua sembra una specie di dialetto islandese.»
«Tu riesci a capirli?»
s’intromise Szmu.
Franco sospirò e disse:
«Sissignore.»
«Va bene.» Dolek annuì,
giunse le mani a preghiera, fece un sospiro. Ad un tratto, alzò gli occhi e
annuì di nuovo, si girò brevemente verso Franco e disse: «Traduci.»
Poi parlò:
«Noi siamo circa ottocento
e veniamo … dalla Germania … Io credo che lo spirito maligno di cui parli sia
Adolf Hitler. So che lui e i suoi generali abitano quel castello laggiù. Adolf
Hitler è pericoloso, come lo sono tutti i tedeschi – Dolek fece un gesto di
taglio con la mano – questa gente ci ha imprigionato senza motivo e noi siamo
scappati. Ma abbiamo bisogno di cibo, di … una casa – e alzò gli occhi e le
mani verso il soffitto – di cure, medicine, qualunque cosa abbiate … di vestiti
per tenerci caldi … e armi per difenderci.»
La traduzione di Franco
terminò molti istanti più tardi di quella del nano.
Dei quattro, rispose un
individuo magro, dalle braccia nervose e la barba nera, a punta, decorata da
trecce e striata di grigio. Sembrava un lupo, con quei suoi occhi del colore
delle spade e l’espressione d’intensa calma, tristezza, da predatore. Tuttavia,
a Dolek non sfuggì il breve, musicale, discorso che il nano nero e un altro
avevano fatto poco prima.
Questo nano sembrava il
più vecchio del gruppo: la barba era un fluire di bianco sul petto e le iridi
erano costellate di pagliuzze scure. Era l’unico, inoltre, ad avere un’arma:
portava a mo’ di bastone una lancia lunga. Il legno di tasso dell’asta era
stato lavorato e inciso di rune, mentre la testa aveva la forma di una foglia e
risplendeva d’acciaio.
Il nano nero parlò a
lungo, condendo il discorso con gesti eloquenti.
Franco tradusse:
«Dice che si chiama Snurr
della Stirpe Orientale e che ci da il benvenuto a Passo Norreno in nome di
Vanar, luogotenente del re Gelden, il tredicesimo del suo nome, sovrano delle
Terre Orientali, dal Passo Norreno al Passo di Baldrin, Protettore di Porto di
Miogard e del Passo di Svalin e va avanti così per un po’ … dice che Aelf ha
perduto il favore degli dèi dell’Hornung, che ha reso schiavo il suo popolo e
che ha attirato su di esso una cosa che si chiama “ustmerc”, perciò loro sono
stati mandati da questo Vanar per avere un contatto con noi, dopo che ci hanno
visti scappare dall’Artiglio … Dice che “ustmerc” sta attaccando il castello e
che noi, da adesso, siamo sotto la protezione dei nove barba-grigia.»
Dolek ascoltò e annuì, poi
disse:
«Rispondi che io sono
Dolek Kozak, portavoce di questa gente. Chiedigli come si concretizzerà la
protezione dei barba-grigia. Chiedi se ci daranno un tetto, delle coperte, del
cibo caldo, delle armi.»
Franco annuì e tradusse,
poi, lenta, arrivò la risposta del nero, suggerita dal vecchio con la lancia.
«Snurr dice che “ustmerc”
è arrivato dalle Coste Nebbiose e che ha risalito lo Svansjo. Dice che sta
attaccando il Picco Inaccessibile da Nord e che non è saggio andare là, ma che
bisogna spostarsi a Sud e lasciare questo posto, che lui chiama “il Pianoro dello
Sjonerin” e andare al “Pianoro delle Caverne” e da lì, alle fortezze chiamate “Porte
di Nørr”.»
«Digli che per me queste
parole non hanno senso. Chiedigli se ci daranno coperte e cibo.» replicò Dolek.
Lo haftlinge tradusse,
aspettò la risposta e tradusse ancora.
«Dice che il Picco
Inaccessibile è un luogo mistico dove Aelf ha costruito l’Artiglio del Lupo,
col lavoro di molti del popolo di Gelden. E dice che dobbiamo fare un viaggio
di tre giorni a Sud, per arrivare alle Porte. E che avremo l’onore di viaggiare
con Vanar, il luogotenente.»
Dolek ascoltò, annuì e
incrociò le braccia, poi si guardò la punta degli zoccoli e alzò un
sopracciglio:
«No. Non mi piace.» disse.
Szmu annuì e gli toccò la
spalla:
«Parliamo un attimo in
privato.» disse. Dolek fu d’accordo. Il nano guardò Franco: «Digli che dobbiamo
discutere e che torniamo subito.» e mentre l’olandese traduceva, Dolek guardò
oltre la spalla di Snurr, negli occhi del vecchio con la lancia e il vecchio
annuì.
Szmu si spostò imboccando
un passaggio laterale, seguito dal minuscolo polacco.
Quando furono soli, Szmu
si sedette su una roccia:
«Da quello che ho capito,
questi hanno paura di Adolf.»
«Già, e ci vogliono far
fare la scorta al loro re.» replicò Dolek.
«Ma perché?» domandò Szmu.
Dolek alzò le braccia e le lasciò ricadere lungo i fianchi:
«Non so, forse ci vedono
come giganti!»
«Sì! Giganti emaciati e
scheletrici.» commentò l’ebreo.
«Pur sempre giganti.» fece
Dolek.
«Tu, specialmente!» disse,
sarcastico, Szmu.
Stranamente, Dolek non
commentò: si teneva il mento nella mano e pensava. Dopo un po’, alzando un
sopracciglio, disse:
«E perché no!»
«Cosa?» fece Szmu.
«Diamogli la scorta, visto
che non c’è niente da fare.» disse il nano.
Szmu fece un movimento col
braccio: «Una camminata di tre giorni fra le montagne? Gli haftlinge
moriranno!»
«La faremo a tappe e ci
faremo dare prima buone scarpe, cappotti e scorte di cibo. Parleremo agli
uomini e alle donne delle Porte di Nørr come della Terra Promessa.»
«Scharf morirà.» disse,
agro, Szmu.
«Non possiamo restare in
una grotta, per quanto enorme, così vicina ai tedeschi.» disse Dolek.
«C’è quel tizio, quell’ustmerc
che li sta attaccando.» fece l’ebreo.
«Ustmerc … di cui non
sappiamo niente.»
«Credi possa essere peggio
di Adi?»
«Già.»
«Allora, ci muoviamo?»
«Sì, ma alle nostre
condizioni.»
«Andiamo a dirlo a Snurr.»
«No!» fece Dolek,
«Parliamo col vecchio.»
Tornarono dagli altri e
Dolek toccò la gamba di Franco e gli disse: «Vieni!»
Franco annuì e seguì il
nano. Dolek trotterellò sino al gruppo dei quattro e superò Snurr, puntando al
vecchio.
Non sfuggì, al polacco, il
movimento improvviso e incerto di Snurr e degli altri due nani, né l’impugnare
il bastone da parte del biondo.
«Dolek.» disse il polacco,
battendosi il petto. Il vecchio annuì e replicò:
«Horain.»
Dolek annuì, si concesse
un attimo per pensare, quindi, alzò il mento e parlò:
«Vi scorteremo alle Porte
di Nørr, a condizione che ci darete ora vestiti caldi, cibo, cure mediche e
armi. Altrimenti resteremo qui e voi con noi, a quanto ho capito.»
Franco tradusse e Dolek
osservò la reazione di ciascuno dei nani.
Vide il biondo sogghignare
e Snurr sgranare gli occhi. Vide l’altro nano (dalla barba castana) corrugare
la fronte.
Il vecchio rimase
impassibile o forse fece un piccolo sorriso.
Poi rispose e Franco
tradusse:
«Horain si domanda quale
colpa tu abbia commesso per aver ricevuto il taglio della barba.»
«Nessuna.» rispose Dolek,
«A casa mia, questa è la moda.» aggiunse.
Franco tradusse e il
vecchio sogghignò, prima di rispondere.
«Horain crede che tu sia
un vero “hor”, anche se hai maniere strane. Si domanda come mai tu sia andato a
vivere nella Terra dei Giganti Oltre il Castello.»
«Digli che ci sono nato.»
replicò Dolek, afferrando il senso del panegirico del vecchio.
«Dice che è impossibile:
tutti gli hor vengono da qui, dalla Terra degli dèi dell’Hornung, mentre i
giganti vengono da Oltre il Castello.» tradusse Franco.
Dolek si accigliò:
«Cioè … non ci sono … “giganti”
qui?»
«Horain dice che essi
vivono Oltre il Castello e che sono arrivati per colpa di Aelf. Dice che Aelf
ha risvegliato “ustmerc” e che adesso tutti sono in pericolo.»
Dolek annuì, poi si girò a
indicare gli haftlinge:
«Qui ho ottocento giganti.
Sono stanchi, sono affamati e infreddoliti. Aelf li ha ridotti così, ma
procuraci cibo, procuraci abiti per l’inverno, procuraci armi … e avrai un
esercito per il tuo Vanar, motivato contro Aelf come nessun’altro. Te lo
giuro!»
Franco tradusse. Il nano
castano annuì, il biondo sgranò gli occhi, mentre Snurr e il vecchio rimasero
impassibili.
Poi il vecchio disse
qualcosa e Franco fece:
«Giuri sulle Sacre Corna?»
Dolek alzò un
sopracciglio: «Eh?»
«Chiede se giuri sulle
Sacre Corna.»
Dolek scrollò le spalle e
disse:
«E giuriamo su ’ste sacre corna!»*in polacco, il gruppo "sz" si pronuncia come in "sceriffo".
Sei davvero bravissimo, le vicende di questa "Asgard" sono state pubblicate?
RispondiEliminaGrazie, Save :)
Eliminano, le ho pubblicate solo qui, sul blog! Magari in futuro!
Saludos!