giovedì 8 dicembre 2011

Maghi, famigli, vergini e apprendisti

«Signore!» disse l’apprendista mago, scendendo di corsa i gradini, «penso di aver dimenticato di nutrire il suo famiglio.»
«Oh, non preoccuparti!» rispose il maestro, «a Zaffendorf farà bene un giorno di digiuno… è troppo grasso.»
«Beh, per la verità sono diciotto.» balbettò l’apprendista.
«Diciotto? Che significa, ragazzo?» fece il mago.
«Sono diciotto giorni – giorno più, giorno meno – che Zaffendorf non mangia.» disse l’apprendista. «Magro lo sarà di sicuro.» aggiunse.
Melvin lo scostò brutalmente e salì – facendo i gradini due alla volta – sino a raggiungere la porta dello studio. Chiuse la mano attorno al pomolo e tirò.
C’era un tremendo tanfo di carogna. Melvin fece un passo, staccò una torcia dal muro e si avvicinò alla forma di demonio avvizzito che giaceva sul fondo della voliera. Gli vennero le lacrime agli occhi.
«Zaffendorf!» disse. «Mio caro!»

«Signore!» la voce dell’apprendista raggiunse Melvin attraverso lo strazio dei sensi che gli dava il dolore.
«Tu e io, io e tu!» disse Melvin, tra un singhiozzo e l’altro. «Ricordo ancora quando ti evocai, quando colsi questo piccolo demonio alato come un geranio nella odorosa desolazione della geenna al prezzo ridicolo del sangue d’una vergine! A proposito, dov’è la vergine che c’era legata al tavolo delle torture?»
«Ehm, signore,» disse l’apprendista, «le volevo giusto dire… uhm… io e la vergine l’altra notte abbiamo iniziato a parlare… uhm… e una cosa tira l’altra… sa com’è… »
«Ma che vuoi dire?» Melvin si alzò e allargò le braccia.
«Bambinone, è tornato il vecchio?» disse una voce. Dalla porta dello studio apparve una donna flessuosa con le pudende coperte da un gonnellino semitrasparente e i seni chiusi da coppe di ferro appuntite.
«Tu!» disse Melvin. «Ti avevo lasciata sul tavolo, in catene! Tornaci! Solo col sangue d’una vergine potrò evocare un nuovo famiglio.»
La donna, guardandosi le unghie, rispose: «Si, ma… io non sono più vergine.»
Melvin divenne paonazzo e smise di respirare per un attimo lunghissimo. Si girò verso l’apprendista e cacciò un urlo.
«Ma no, signore, ma no! Proviamo lo stesso, magari va bene comunque, eh?» disse l’apprendista.
«Ma che… sei scemo?» intervenne la donna. «Mi devo far sacrificare per la tua faccia?»
«Non intendevo dire così, cara… è solo per non farci rimanere male il maestro!»
«Ma io ti ammazzo!» urlò Melvin.
«Vieni cara, credo sia meglio lasciarlo solo col suo dolore.» l’apprendista afferrò la mano della donna ed entrambi corsero giù per le scale.
«Bambinone! Che modi!» protestò lei, incespicando sui gradini.
«Sai, Zaffendorf era il suo demonio alato preferito, ecco… è stato un po’ come quando è morto Gigi, il mio pesce rosso… a pensarci bene è accaduto dopo che gli ho fatto un acquario segando a metà quella vecchia sfera di cristallo che Melvin teneva su in soffitta… »
«Ma dove andiamo?» chiese la donna.
«Giù al laboratorio! Lì ci sono i miei strumenti.» rispose l’apprendista. «Nel caso a Melvin venga voglia di farci arrosto, ecco.»
Alla fine della rampa, imboccarono un corridoio e poi presero il primo passaggio a sinistra. C’era una porta di legno gonfio per l’umidità. L’apprendista prese una chiave dalla tasca, l’infilò nella toppa e girò tre volte in senso antiorario. La porta si aprì. L’apprendista e la donna entrarono nel laboratorio. Era pieno di boccette e rotoli di pergamena.
«Qui ci dovrebbe essere una pergamena di “blocca porta”!» disse l’apprendista. «Eccola!» fece, prendendone una dal mucchio che c’era su un tavolino.
Proprio in quell’attimo, la voce di Melvin rimbombò. «Maledetto!»
«Signore, non faccia così, sono addolorato anch’io per Zaffendorf!» urlò l’apprendista, mentre rompeva il sigillo e srotolava la pergamena.
«Bambinone, ma che vuole il vecchio?» fece la donna. L’apprendista alzò una mano. «Non ora, cara, sto recitando l’incantesimo.» disse.
Cominciò a leggere le parole scritte sulla pergamena, osservato dalla donna. «Toh, guarda! Man mano che le pronunci si cancellano!» disse.
Ad ogni modo, finì l’ultima riga e la pergamena divenne bianca, come se nessuno ci avesse mai scritto.
«Ho una strana sensazione allo stomaco.» disse. «Mi sento sottosopra.»
«Anch’io!» fece la donna.
La verità è che erano sottosopra, appesi al soffitto a testa in giù. I mobili stavano inchiodati vicino a loro lasciando il pavimento sgombro come non lo era stato da anni.
La polvere formava mulinelli che dal basso s’innalzavano sino al loro naso.
«Bambinone! Ma che succede?» domandò la donna.
«Uhm… non ne sono sicuro.» fece l’apprendista, poi urlò: «Signore, è possibile che abbiate lasciato una pergamena con l’incantesimo “invertire la gravità” nel mio laboratorio?»
«Io ti ammazzo!» urlò Melvin. Ora lo si sentiva chiaramente scendere per le scale di pietra della vecchia torre.
«Bambinone, non capisco, ma che gli ha preso?» fece la donna.
«È stato via per più di due settimane nel regno vicino, mia cara: chissà che diavolo mangiano lì! Forse si tratta di acidità di stomaco… lui reagisce sempre male a questi disturbi.» rispose l’apprendista.
«Rinnego il giorno in cui tuo padre mi chiese di assumerti come apprendista!» urlò Melvin, infilando il corridoio.
Qualche attimo dopo, entrò nel laboratorio, fluttuando verso il soffitto. Aveva un’espressione temporalesca negli occhi e le dita delle mani gli si agitavano come se stesse per lanciare un sortilegio.
Disse una sola parola nella lingua della magia e lui, l’apprendista, la donna e tutto quel che c’era nella stanza ricaddero sul pavimento.
Adagio, Melvin si alzò. «Ora io ti - »
«Signore! Stia attento al pozzo che ho coperto con un’illusione!» urlò l’apprendista.
Ma Melvin era già sparito. Proprio infondo al pozzo.
«Mi dispiace tanto!» gli gridò l’apprendista, sporgendosi dall’orlo del pozzo. «Ora ci vorrebbe proprio una bella pergamena di “invertire la gravità”, eh?»
Da sotto – molti e molti metri più sotto – gli giunse un lamento.
«La tireremo fuori!» disse l’apprendista. La donna si mise un mignolo in bocca e lo guardò sbattendo le ciglia. «Ma è proprio necessario?»
«Beh, in effetti… » mormorò l’apprendista. Dal pozzo, giunse un altro lamento.
«Secondo me non s’è fatto troppo male, piange così per Zaffendorf, quel demonio del cavolo. Puzzava sempre di verza vecchia, sai cara?»
«Beh, ma allora che facciamo?»
«Cara, dovrebbe esserci un coperchio da qualche parte, forse sotto quelle pergamene e quei cocci d’alambicco – ecco tra parentesi dov’era finito il suo alambicco, signore – e trascinalo, possibilmente senza spezzarti le unghie, proprio sull’orlo del pozzo. Ecco così, brava.»

Fine.

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