mercoledì 29 febbraio 2012

In cammino - 8

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Il gerarca era palermitano, aveva un’uniforme nera e degli alti stivali di cuoio. Era un uomo fiero, con la testa tonda, un paio di baffi e un pizzetto. Benché Fausto lo superasse in altezza, l’altro gli incuteva un sacro timore ogni volta che lo guardava, che si muoveva, che stava fermo. Gli dava l’idea di un uomo che avrebbe potuto risolvere ogni problema sulla faccia della terra, un ariete di un’epoca antica e più civile.

Era stato pilota nella Targa Florio e durante un’edizione, aveva finito la corsa con sole tre ruote. Fausto vide un filmino di quell’impresa: la macchina del cavalier Giuseppe Mangia usciva dalla curva perdendo la ruota anteriore sinistra, ma l’uomo controllava la sbandata e faceva procedere il bolide in un mare di scintille verso il traguardo.
Il cavalier Mangia era membro del Partito Fascista e dell’Ordine dei Cavalieri di Malta. In casa sua, campeggiavano la tunica e il mantello dei Cavalieri: neri e con l’enorme croce d’Amalfi a otto punte colorata di bianco.
I Gariffo fecero conoscere il gerarca a Fausto in occasione della festa di compleanno della figlia, a cui gentilmente erano stati invitati.
Quando il sergente entrò e vide la casa addobbata con nastri di multicolori, sorrise, stupito perché era a una festa: un qualcosa che nel mondo alieno della guerra non trovava spazio, un fatto normale.
Gli anni in Francia gli avevano dato un modo diverso in cui vedere le cose, e avevano quasi spazzato via il vecchio Fausto: il giovane ponderato, amichevole e tranquillo, l’alunno “più onesto della scuola”.
Aveva visto uomini farsi la guerra, aerei cadere in fiamme, mortai sparare sul nemico e aveva visto il “nemico”: un Fausto con la divisa francese che imbracciava il fucile per non morire.
Ora quella festa di compleanno gli avrebbe dato l’occasione per trasformare il modo di vedere le cose in una semplice prospettiva, un qualcosa a cui fare appello per trarne il massimo vantaggio, la massima saggezza e non un cambiamento radicale di pensiero.
La figlia del gerarca era una bella ragazza di ventidue anni dai riccioli castani e dagli occhi scuri. Sorrideva sempre e aveva un neo sul labbro superiore. I suoi denti sembravano piccole perle bianche. Quando era allegra, e accadeva spesso, tutto il viso le si illuminava.
Angela.
Fausto non riuscì più a pensare ad altro. Quella ragazza piccola e forte gli dava calore, lo faceva sentire allegro: era contagiosa. Raramente in sua presenza qualcuno ostentava il muso lungo e nella casa di Bergamo tutto era una dolce musica di battute, scherzi e risate.
Per la prima volta Fausto, il rigido sergente, assaporò la calma.

«Insomma, lei che intenzioni ha nei confronti di Angela?» il gerarca guardava Fausto con un cipiglio che non ammetteva errori. Era elegante e delicatamente profumato. I capelli scuri erano pettinati all’indietro accuratamente.
Fausto, il viso lungo, lo guardò e disse: «Serie, signore: desidero sposarla.»
E, impetuosa, arrivò Angela. Disse: «Papà, io sono d’accordo.»
Il cavalier Mangia guardò la sua bambina e la rivide neonata, mentre si agitava sul fasciatoio dopo che la mamma, Enza, le aveva fatto il bagnetto. Si ricordò che gli piaceva mordere le manine e i piedini a lei e a suo fratello.
Il cavaliere non era abituato a perdere, eppur chinò la testa, quella volta e disse: «E sia!»

continua

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