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mercoledì 21 marzo 2012

In cammino - 11 - finale

Fausto sudava nell’uniforme grigio-verde della Polizia Repubblicana.
Nonostante il freddo.
In alto, sulle mura, spuntavano gli elmetti d’acciaio dei tedeschi. Fausto li guardò, occhi azzurri in occhi azzurri.

mercoledì 14 marzo 2012

In cammino - 10

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Angela guardava una cinciallegra dal capo nero e lucido ripetere il suo canto di tre sillabe, sulle mura di Bergamo.
Era caduta la neve e la strada da casa all’ufficio sembrava coperta da un morbido piumone bianco. Il sole splendeva fioco, come quando lo si guarda da sott’acqua e gli alberi si muovevano nella danza portata dal vento.

mercoledì 7 marzo 2012

In cammino - 9

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Per Fausto, Angela fu una scoperta: lui che era così misurato e calmo, si trovava davanti una persona forte, risoluta, combattiva.
Un pomeriggio, mentre passeggiavano lungo le mura, lei gli disse: «Quando era incinta di me, se andavano in macchina, mamma diceva a papà “Corri! Corri più forte!” e lui correva.» poi, un sorriso, «Credo di avere la velocità nel sangue, ecco.»


mercoledì 29 febbraio 2012

In cammino - 8

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Il gerarca era palermitano, aveva un’uniforme nera e degli alti stivali di cuoio. Era un uomo fiero, con la testa tonda, un paio di baffi e un pizzetto. Benché Fausto lo superasse in altezza, l’altro gli incuteva un sacro timore ogni volta che lo guardava, che si muoveva, che stava fermo. Gli dava l’idea di un uomo che avrebbe potuto risolvere ogni problema sulla faccia della terra, un ariete di un’epoca antica e più civile.

mercoledì 22 febbraio 2012

In cammino - 7

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Passò l’inverno con i compagni su in montagna, nascondendosi nelle caverne e portando viveri agli americani che combattevano giù a valle.
Lui e i suoi non parteciparono ad alcuna azione contro i tedeschi: erano un’unità troppo piccola e male organizzata.
Poi, mentre guardava gli alberi risplendere d’argento per la galaverna, si ricordò di qualcosa.
A scuola, c’era un certo Gariffo Luigi, un bambino zoppo dalla nascita che si era trasferito, a quanto ne sapeva, in Bergamo ancora adolescente.
«Forse lui… » masticò quel pensiero a lungo, finché una mattina, con lo zaino in spalla e il cappotto rammendato, non salutò i compagni e discese i monti.


mercoledì 15 febbraio 2012

In cammino - 6

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«Vorrei sapere notizie della mamma, di mia sorella Lalla, dei miei fratelli… » Fausto parlava, mangiando cucchiaiate di polenta, mentre lo zio Cesare, zoppicando casa-casa, già scuoteva la testa.
«Coi tedeschi in giro?» disse, alzando le braccia.
«Almeno per far sapere che sono vivo!» replicò Fausto.
«Tale’, meno persone sanno che sei vivo, meglio è.»
«Ma almeno devo fare qualcosa!» Fausto ingoiò un’altra cucchiaiata di polenta e fissò il piatto, poi lo zio, con gli occhi celesti.

venerdì 10 febbraio 2012

In cammino - 5

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Milano continuava ad essere bombardata e circolavano storie su “penne esplosive” lanciate dagli aerei americani per mutilare i bambini.
Fausto sentiva le notizie dai pochi abitanti di Lomazzo, mentre cercava la casa dello zio Cesare.
«Mai sentito.» gli rispose una donna con un vestito a fiori.
«Lei è probabilmente la centesima persona a cui domando.» disse Fausto.
«Ma scusi, è sicuro che sia proprio questo il paese dove abita suo zio?»
«Sì… o almeno credo… mi pare di ricordare fosse Lomazzo o qualcosa di simile.» rispose Fausto.
«Qualcosa di simile a Lomazzo, qui al Nord?» chiese la donna.
«Sì, in Lombardia.» rispose Fausto, annuendo.

Il paese giusto si chiamava Domaso. Era all’estremo Nord del lago di Como, sulla sponda opposta a Colico.
Fausto ci arrivò un po’ a piedi, un po’ salendo dietro carretti trainati da asini o muli. Alcuni gli ricordavano le bestie del plotone mortai e una volta, in un mulo rossiccio e grande, gli parve di riconoscere Mimmo.
E pensò: «Povirazzo! Che fine avrai fatto?»
Domaso gli si annunciò in un tripudio di odor di alloro e camelie, mentre i cipressi ne coronavano la forma arroccata sulle spiagge del lago. Era un villaggio dolce, di poche anime, dove l’acqua ospitava piccole barche e le strade, biciclette e asinelli.
Fausto ci arrivò con qualche grammo di speranza in corpo, visto che non aveva altro.
Non c’erano tedeschi a turbare la quiete del lago, ma solo il grigiore che prelude l’apparire del sole.
Un uomo lavorava sulla chiglia di una barca tirata in secca.
Lui e Fausto erano le uniche persone in movimento su uno scenario di casette grigie e di asini piccoli e silenziosi.
L’uomo aveva il naso grosso, le guance rubizze e la struttura enorme, ma era magro e gli occhi sembravano volersi nascondere dentro le orbite.
Guardò Fausto e gli disse qualcosa che lui non capì.
Che diavolo di lingua parlavano in quel posto?
«Senta, ci sono tedeschi in giro?» si decise a chiedere.
L’altro guardò a destra, a sinistra, poi posò gli occhi su Fausto e, serio, disse: «No.»
Il sergente parve rilassarsi un poco.
«Sto cercando un mio zio, abita qui, si chiama Cesare… » stava per dire il cognome, quando il pescatore indicò una delle case che s’affacciavano sulla spiaggia. Era stretta e a due piani, incassata fra altre costruzioni simili, dall’aria vetusta.
Fausto sorrise: «La ringrazio.» disse.
Quello annuì con un grugnito e si rimise al lavoro.
Fausto camminò sino alla porta di legno verde. Al piano superiore, le imposte erano aperte e una donna lo sbirciava. Alzò la mano, la chiuse a pugno… e bussò.
Rumore di passi strascicati, poi un: «Sì?» di voce arrochita dagli anni.
Il sergente si schiarì la gola.
«Uhm… zio Cesare… sono io, Fausto, tuo nipote da Palermo.»
Dall’altra parte, silenzio. Poi un mormorio indistinto e, infine: «Faustino?» nel nome riaffiorò un po’ di quell’accento siciliano addormentato dal lago.
La porta fu aperta e un uomo basso, dalla faccia rotonda e grinzosa, spalancò le braccia. «Faustino!»
«Zio Cesare!» per la prima volta dopo giorni, il sergente sorrise… e abbracciò il vecchio.
Il corpo di Fausto ritrovò la sensazione perduta di essere stretto da mani amiche.
Lo zio Cesare si girò verso la donna che, proprio allora, scendeva giù dalle scale.
«Zia! Tale’ ccu’ ccé! Preparaci qualcosa a Faustino!» disse.
Lei, una donnetta bassa con la cuffia bianca a fiorellini, guardò il nipote che non aveva mai visto. E gli sorrise.
«Polenta.» disse.
E Fausto ne mangiò tanta di polenta e poi si mise a dormire, mentre la zia gli rammendava i pantaloni e il cappotto presi in Francia.

continua

mercoledì 1 febbraio 2012

In cammino - 4

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Alla stazione centrale, Fausto cercò di nascondersi in mezzo alla folla fatta di cappotti, di sporte, di volti mal rasati e occhi stanchi. Fuori, le camionette dei tedeschi e i soldati di guardia con le pistole-mitragliatrici.
Qualcuno gli toccò il braccio. «Mi scusi.» disse, in italiano. Accento locale.

mercoledì 25 gennaio 2012

In cammino - 3

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« Ora il problema si pone. Guerra o pace? Resa a discrezione o resistenza a oltranza?...Dichiaro nettamente che l'Inghilterra non fa la guerra al fascismo, ma all'Italia. L'Inghilterra vuole un secolo innanzi a sè, per assicurarsi i suoi cinque pasti. Vuole occupare l'Italia, tenerla occupata. E poi noi siamo legati ai patti. Pacta sunt servanda. »
(Mussolini al termine del discorso introduttivo nella seduta del Gran Consiglio)


lunedì 9 gennaio 2012

In cammino - 2

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Due anni dopo l’ora delle “decisioni irrevocabili”, Fausto si trovava a dirigere i tiri di mortaio fra le colline di Menton, accanto a una bellissima villa settecentesca coronata dagli alberi. Era il 22 di Giugno e faceva un caldo secco, mitigato dalla brezza del mare che portava odori tanto simili a quelli della Sicilia, da far sorridere ad occhi chiusi il sergente. C’era il profumo dei limoni, anche se quelli erano striminziti in confronto ai giganti siculi; c’era l’aroma del gelsomino e delle more. Mancavano i fichi d’india e la zagara odorosa che tanto piaceva a quel ventenne alto e biondo come un tedesco.

martedì 20 dicembre 2011

In cammino - 1




Scritto il
13-Giugno-2011
Di M. Nicolini
Basato sulle memorie di F. Nicolini

1.

La guerra per Fausto era arrivata con un aereo francese e le sue bombe. Un caccia si era alzato a intercettarlo, dal porto di Genova, e i due piloti avevano ingaggiato un violentissimo combattimento fatto di evoluzioni e scariche di mitraglia a cui facevano da contrappunto le batterie del porto.
Fausto si vide passare sopra la testa uno dei due aerei. Sotto le ali c’era il tricolore francese. La batteria costiera sparò una salva, che esplose nel cielo.
«Tale’ sergente! (guarda sergente)» urlò Iaco, il conduttore di muli, indicando la battaglia. «Ora ’u pigghia! Ora ’u pigghia!» aggiunse, eccitato, mentre la contraerea faceva esplodere un’altra salva.
Fausto seguì con gli occhi le evoluzioni del francese: lo vide fare un giro della morte, evitando una salva, per mettersi in coda all’apparecchio italiano.
Sulla riviera, alcuni liguri applaudirono e Iaco agitò un pugno, gridando: «Scimuniti!»
L’italiano virò a coltello, cercando di disimpegnarsi, mentre il francese evitava di nuovo la batteria costiera.
Nuvolette di fumo sospese nel cielo e odore di mare.
Finalmente l’italiano riuscì a mettersi in coda al nemico. «’U pigghia!» disse Iaco, saltellando sui piedi scalzi. «’U pigghia!»
L’italiano era in posizione e il francese, spacciato. Poi la batteria costiera sparò.
«Minchia!» disse Fausto.
«Minchia santissima!» urlò Iaco. Nell’eccitazione si era dimenticato i gradi e aveva stretto forte, forte il braccio del sergente.
Il caccia italiano stava precipitando, abbattuto dalla contraerea.
Questo fu il primo sapore di guerra per Fausto: era amaro e aveva il puzzo della carne bruciata. Si vedeva il pilota con le braccia abbandonate all’aria, sporgere dalla carlinga del velivolo che bruciava semidistrutto. Poi tutto finì in mare, dove affondò lentamente.