mercoledì 7 marzo 2012

In cammino - 9

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Per Fausto, Angela fu una scoperta: lui che era così misurato e calmo, si trovava davanti una persona forte, risoluta, combattiva.
Un pomeriggio, mentre passeggiavano lungo le mura, lei gli disse: «Quando era incinta di me, se andavano in macchina, mamma diceva a papà “Corri! Corri più forte!” e lui correva.» poi, un sorriso, «Credo di avere la velocità nel sangue, ecco.»


Parlavano italiano: benché Angela conoscesse il dialetto, in casa il padre preferiva la lingua nazionale e la imponeva ai due figli.

Giuseppe, che aveva lo stesso nome del padre, una volta disse a Fausto: «Vedi, me patri e me suoru sunnu ’i stissi (mio padre e mia sorella sono uguali), ma lei guai ad ammetterlo!»
Fausto corrugò la fronte. «E perché?» chiese.
L’altro sospirò: «Lei imputa a papà la morte della mamma: sai, morì giovane, poverina.»
Fausto annuì, ma non disse niente.
«Papà andava spesso con altre donne, se mi capisci e Lina non glielo ha mai perdonato.»
continuarono a camminare, in silenzio. Poi Giuseppe disse: «È una specie di rapporto amore-odio… a volte le sento dire che sarebbe felice se lui morisse… »
«Ma io so che lui è tutto per lei.» aggiunse.
Fausto lo guardò.
Giuseppe gli strizzò l’occhio. «E qui entri in ballo tu.» disse.
Il sergente dimenticò la faccia cupa. E sorrise.
«Già.»

Il gerarca governava la città e non tollerava ingerenze da parte dei tedeschi. Un giorno chiamò Fausto e gli disse: «Senti, tu ti trasferirai qui, se ti aggrada ed entrerai nella Polizia Repubblicana. È l’unico modo che ho per proteggerti dai tedeschi Fausto.»
Il sergente era orgoglioso e non accettava aiuto da nessuno.
Ma Giuseppe Mangia si era dato per vinto la prima e l’ultima volta; fulminandolo con gli occhi, disse: «Considera l’accettare questa proposta come il tuo primo atto di doverosa protezione nei confronti di Angela.»
Un semplice dettaglio, che però cambiava le prospettive.

Passeggiavano lungo le mura e i capelli di Angela avevano il colore leggero del brandy nella luce del pomeriggio.
Lei stava raccontando a Fausto la sua vita precedente alla guerra, qualcosa di tanto normale da scuotere il sergente.
«Sai, avrei dovuto cantare quella canzone napoletana, quella che fa “Catari’, Catari’… ”,» disse, accennando una melodia, «e poi, fu nel quaranta, una bomba cadde sulla nostra casa a Palermo e dovemmo andarcene. Eravamo sfollati, a Reggio Calabria… e poi, per il lavoro di papà, siamo venuti qui.»
Fausto fece un sorriso e disse: «Ne combina di stranezze, la guerra, eh Lina?»
Lei lo guardò. Ricambiò il sorriso.

La guerra accelera i tempi; Angela e Fausto, tre mesi dopo, uscivano dal municipio di Bergamo sotto il sole e i lanci di fiori. Angela era elegante in un tailleur color miele, con i boccoli che le danzavano sulle spalle. Fausto aveva un completo chiaro, sobrio. Il suo sorriso, per la prima volta dalla guerra, si estendeva agli occhi.
Davanti a loro, la enorme Balilla del prefetto di Bergamo li attendeva, con l’autista in livrea.
Il gerarca Mangia aveva indossato un’uniforme da parata e osservava quei due ragazzi con un mezzo sorriso sulla bocca.
«Il Signore vi protegga e vi doni gioia.» mormorò.

Come una calda coperta, la vita di ogni giorno si distese sulla pelle di Fausto, regalandogli una direzione, degli obiettivi, una ragione per cui lavorare e vivere.
Lina andava ogni giorno alla Previdenza Sociale, dove lavorava; scherzava con le colleghe, con le amiche, nonostante la guerra e le bombe degli Alleati.

continua

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