mercoledì 4 gennaio 2012

Canto di lince

Era per via dei libri.
Aveva letto tanto e in modo diligente; aveva assimilato, appreso. Poi gli era venuta voglia di sognare, di vedere le cose “da un’altra prospettiva”, come il padre lo aveva sentito chiamare la follia, tempo addietro.
Ora stava sellando Erwin e si preparava ad affrontare il viaggio.
Da mesi, la moglie lo sentiva ripetere le stesse cose: che i vicini, a un giorno di cavallo, avevano addestrato un piccolo mastodonte e che ora, diventato adulto, lo avrebbero sicuramente ucciso e mangiato.
«Non possono tenerlo.» disse, mentre stringeva il sottopancia dell’asino. «Mangia come venti mucche!» aggiunse.
«Se è vero quel che dici,» intervenne la moglie, stringendosi nello scialle, «come faremo noi? Cosa gli daremo da mangiare?»
Lui scosse la testa.
«Non capisci.» fece.
«Ogni volta che vai dal vicino ho paura: è un viaggio lungo.»
«Non capisci.» ripeté lui.
La moglie fece un sospiro. Non capisco, pensò, sì, è per via dei libri.

Nikolaj aveva imparato a leggere da piccolo, da un viaggiatore tedesco. Lo affascinavano le storie che i libri possono raccontare a chi conosce la giusta chiave. Lo affascinavano le terre al di là del suo orizzonte: la Polonia, la Germania.
S’era fatto narrare storie di soldati, di terre conquistate metro per metro; storie di villaggi dove la gente è felice e ascolta musica che scaturisce da favolosi aggeggi meccanici; storie di macchine alte sino a sfiorare la cima dell’abete più grande e di uomini e donne, prodi di sentirsi i difensori della propria nazione.
Questo, in particolare, era un concetto nuovo, estraneo: la nazione come legame tra le piccole fattorie, come la sua, e i villaggi e le città; la nazione come solidarietà tra la gente.

A volte leggeva ad alta voce, la sera, più spesso, ma anche durante le giornate troppo fredde per uscire di casa. Si metteva sulla vecchia sedia, col viso di taglio al fuoco, e apriva uno dei suoi dieci libri.
Allora gli sembrava di rivedere il viso del viaggiatore, con le lenti rettangolari sul naso e quella faccia stretta, coperta da una lanugine bionda.
La moglie ascoltava in silenzio e dopo ogni lettura, quando lui le chiedeva se le fosse piaciuto, rispondeva che i libri parlavano sempre di cose tristi, aggiungendo «Ne abbiamo già una vita piena, di cose tristi.»
«Ma non capisci?» disse una volta lui, picchettando sulla copertina di un volume tascabile, «Qui dice di uomini e donne che hanno costruito una società civile! Gente che si aiuta l’un l’altra per realizzare qualcosa!»
«Bugie,» rispose la moglie, «nessuno aiuta nessun’altro: questo è solo un mondo di lupi.»
La odiò quella volta.
Gli capitava a volte di vederla danzare accanto al fuoco, sulle note del canto del vecchio Ilija. Era felice, sì, in quegli attimi lo era e tutto ciò che per Nikolaj sembrava spento, per lei rappresentava la vita.
Spaccare legna, accumulare legna, prendersi cura di Erwin, tenere in perfetto ordine le armi, badare al campo, badare agli animali, andare a caccia, pattugliare i confini della proprietà; Nikolaj si era trovato a pregare Dio perché facesse smettere tutto questo. Guardava le icone, chiudeva gli occhi e pregava: «Fammi vedere la Germania, Signore; fa’ che riesca a portarci Nadia e il piccolo Ilija.»
Il vecchio Ilija, il cantore, il padre di Nikolaj, era già morto all’epoca di quelle preghiere. Gli era venuta la febbre, aveva perso metà del suo peso e se n’era andato prima della fine dell’inverno.
Nikolaj l’aveva messo sottoterra, assieme ai suoi bambini mai nati; pregava Dio mentre il coltello incideva i rami che avrebbe trasformato in croce. Si batteva il petto e si diceva che avrebbe dovuto affrontare prima quel viaggio e portare Ilija in Germania. Nei libri c’era scritto che i tedeschi avevano delle cose chiamate “ospedali”, posti dove la gente viene curata con metodi scientifici e macchine; posti dove non si ricorre a uno sciamano zingaro per far passare la febbre.
«Bugie.» continuava Nadia.
E il vecchio Ilija, intanto, si congelava sottoterra.

Il vicino era un cacciatore, un pastore e un contadino; si chiamava Artem Jurevich, aveva trentasei capre, due asini, un cavallo e cinque figli robusti. Ora aveva anche il mastodonte.
Come Nikolaj, e come chiunque vivesse da quelle parti, non si fidava dei mezzi di trasporto meccanici: i motori spesso non resistono all’inverno e il ghiaccio finisce per penetrare nelle loro parti delicate, trasformandoli in inutili cumuli di metallo. Ma un animale come il mastodonte, sette tonnellate ricoperte da un triplo strato di pelo, non si “guasta” mai.
Quella mattina, mentre Nikolaj finiva di sellare l’asino, Nadia lo guardò a lungo: «Kolja,» gli disse, «non andare.»
Dalle labbra le uscì questo, ma avrebbe voluto dirgli “non smettere di amarmi”.
Lui le diede uno sguardo che Nadia riuscì a interpretare solo molte ore dopo, quando sedeva con Ilija addormentato in grembo e ascoltava la voce del vento. “Mi dispiace, ma è tardi” avevano detto quegli occhi; “mi dispiace, ma tu vieni dopo i miei sogni” aveva aggiunto la carezza sulla guancia che era riuscito a darle.
Quella sera, premette il pulsante d’accensione del piccolo aggeggio di Nikolaj. “Funziona a batterie” le aveva detto, “e fa sentire musica”. Dentro c’era un disco scintillante non più grande di un pugno, una specie di talismano; “lì” diceva Nikolaj “c’è la musica”.
Nadia la odiava e ogni volta che lui accendeva quella macchina, si segnava con fervore e baciava le icone. C’era una voce di donna, che cantava in una lingua aliena, una voce che a Nadia suscitava terrore da quant’era bella.
L’ascoltò al crepuscolo, desiderando che lui tornasse presto.
Mi hai tradito con i sogni, con le macchine, pensò, con i racconti di uno stupido che sarà già preda dei lupi da molti inverni.

Nikolaj mise una mano sul muso di Erwin e controllò che le cinghie fossero a posto. Poco prima, Ilija lo aveva aiutato a indossare l’armatura del nonno, fissandogli i ganci del busto e posizionandogli l’elmetto sul capo. Sulla pelle di lega e ceramica si vedevano numerose piccole bruciature e intacchi più lunghi e profondi.
Quando lo vide in sella a Erwin, Ilija gli portò un’icona di San Juri, intagliata nel legno, e gli disse: «Sei tu, papà.»
Nikolaj sorrise, poi divenne serio: «Bada alla mamma mentre non ci sono.»  
Ilija lo aveva guardato con quei suoi occhi da gatto, rubati al viso di Nadia. «Sì, e al ritorno mi farai sparare con la lince.»
La “lince”, il fucile del nonno, quello con cui s’abbattevano le bestie più pericolose; l’altro, l’AKS, serviva per gli uomini e gli animali piccoli.
Nikolaj le aveva pulite prima di partire. Era andato nella “stanza delle armi”, dietro la tenda e aveva tolto la croce ortodossa che riposava su ciascuna, l’aveva baciata, l’aveva fatta baciare a Nadia e al bambino.

Ilija dette un ultimo sguardo al padre, al mantello colorato in cui s’era chiuso, allo zaino col sacco a pelo arrotolato in cima, all’armatura del nonno, piena di solchi dei laser. Nikolaj svanì dietro una betulla, poi rimase solo il vento.

Lo aspettarono tre giorni, inchinandosi davanti alle icone, pregando Dio e i Santi. Quando lui tornò, Nadia aveva perso ogni lacrima; Ilija, invece, si mise a saltare, imbrogliato com’era negli abiti invernali, e corse, facendo crocchiare la neve.
Papà tornava con la “lince” a tracolla e il mastodonte, placido, al guinzaglio. C’era anche il vecchio Erwin, coperto dal basto e agghindato d’un’armatura con vetri colorati per gli occhi e prese d’aria al muso, una di quelle che usava il cavallo del nonno, al tempo dei signori della guerra.
Il mastodonte aveva la gobba altissima e due zanne lunghe quanto un uomo; la coda era piccola e rotolava nel vento come un ricciolo di neve. Per la verità, a Ilija, tutta quella bestia parve un immenso cumulo di neve, una neve soffice e morbida come la prima all’alba d’inverno.
Nikolaj si tolse gli occhiali protettivi e fece un gran sorriso. «Ilija!» urlò, spalancando le braccia. Il bambino gli si buttò addosso, sollevando spruzzi bianchi come di farina. «Ilija!» continuava a ripetere Nikolaj, ridendo di gioia.
Nadia, avvolta nello scialle, vide il marito, la barba nera incrostata di ghiaccio e le guance rosse per il freddo; vide gli occhi, schiacciati dagli zigomi, scintillare dell’azzurro di un cielo terso. Sollevando Ilija, mentre il piccolo gli affondava la testa fra le braccia, lui la guardò e sorrise.
Si avvicinarono: il bambino felice, l’uomo tornato bambino e il vecchio Erwin, con quel catafalco d’armatura guerriera.
Il mastodonte fece il verso come di mille trombe, poi cercò un poco da brucare, fra i rami di betulla.
Nikolaj raggiunse Nadia e l’abbracciò. Il calore di tre corpi si fuse assieme in un anello indistruttibile.
«Nadia.» disse Nikolaj. Lei vide che il sorriso continuava a splendere sulla faccia coperta di brina del marito.
«Entriamo in casa.» disse.
Lui annuì.

Ripose la “lince” e l’altro fucile nella “stanza delle armi”; mise sopra di ognuno la croce ortodossa, poi domandò a Ilija di aiutarlo con l’armatura.
Spolverò via la neve dai vestiti e si mise davanti al fuoco, immerso nell’odore di cavolo acido che impregnava le pareti.
Dopo aver mangiato, fece una cosa: prese i libri, ne guardò la copertina e, uno ad uno, li diede alle fiamme.
Trattenne Nadia, che si era gettata su di lui; la trattenne col fuoco che gli ardeva negli occhi e con un cenno di diniego del capo.
«Kolja.» disse lei. Lui fece un sospiro: «Erano bugie.» mormorò.
«Ma cosa… cosa è successo… raccontami… ti prego.»
Lo sguardo di Nikolaj divenne buio.

Si era lasciato la foresta alle spalle e avanzava piano lungo il primo lembo di steppa meridionale; qua e là poteva vedere ancora le macchie zebrate di betulle, come ditate di taiga sulla vasta e secca pianura.
A oriente, un’alba rossa; i raggi del sole inondarono tutto come una colata di miele, accendendo di toni morbidi la steppa.
Nikolaj si tolse le lenti polarizzate e chiuse gli occhi. Era la prima alba del mondo.
Sorrise e la sciarpa scricchiolò.
Più avanti vide un branco di struzzi delle steppe correre a grandi salti. Erano polli enormi, alti quanto due uomini. Uno dei libri di Erwin, il tedesco, ne parlava: “gli struzzi delle steppe, in origine, normali galline, vennero contaminati dalle radiazioni nucleari”; Nikolaj ricordava le parole esatte, benché non riuscisse a comprenderne appieno il significato.
Erwin gli aveva detto quel che dicevano anche i libri e cioè che il mondo moderno era frutto di una catastrofe capitata anni prima, un evento per cui molti uomini avevano lasciato la terra urlando di dolore.
Dopo, c’erano stati ottant’anni di inverno, e la Russia aveva dormito un letargo di ghiaccio.
Ancora adesso, gli inverni erano lunghi e artigliavano la terra con la forza di un uomo attaccato alla vita. Ma già il sole splendeva più caldo ogni anno, mandando giù qualche altro palmo di neve. In Germania, poi, tutto sarebbe stato diverso.
Guardò l’orizzonte, spronando Erwin sul sentiero appena accennato fra le rive di nevischio.
Più tardi mangiò qualcosa e bevve dalla borraccia.
Il tramonto giunse fin troppo presto, cogliendolo lungo una pista d’animali, in una macchia di betulle. C’erano vasti spruzzi di rododendri, che doveva recidere con l’ascia per aprirsi un passaggio e la luna splendeva, inondando tutto d’una luce liquida.
Tagliò alcuni rami e scavò una piccola buca nella neve, ci mise un po’ di legna formando una specie di piramide, poi afferrò dal basto una delle meraviglie di Erwin il viaggiatore, un accendino a gas. Lo usava solo in casi speciali e ogni volta, avendo cura di ripetere bene i movimenti mostratigli dal tedesco.
Fece girare la rotella che stava in cima e produsse una fiamma bluastra, poi, diede fuoco all’erba che aveva usato come esca.
Dopo cena, sparse certe erbe attorno al suo giaciglio, si mise in ginocchio e pregò Dio e i Santi, come faceva ogni sera, prima di dormire, quindi aprì lo zaino e prese un vecchio libro a cui mancava la copertina; tirò fuori un paio di lenti bifocali, se le mise, quindi si sedette e aprì il libro.
«Nei villaggi della foresta nera, dentro casette colorate, i ragazzi ascoltano musica rock e i genitori guardano film alla televisione.»
Sapeva a memoria quella parte. Sapeva a memoria il resto del libro.
Cercò un’altra delle sua parti preferite e lesse a mezza voce.
«Nella Comunità Collettiva di Poznan, si raffinano metalli, si costruiscono veicoli, materiali edili e componenti per la Nuova Repubblica Tedesca.»
Fece un sospiro, quindi chiuse il libro e se lo batté due volte sui denti.
«Nella Comunità Collettiva di Poznan.» disse.
Si tenne in grembo, come fosse un bambino; si tolse gli occhiali e guardò il cielo.
«I ragazzi ascoltano musica rock.» ripeté, facendo schioccare la lingua.
Rimase sveglio, appoggiato a una grande betulla, coperto da un sacco a pelo e dall’odore penetrante di Erwin. La “lince” gli riposava in grembo, carica e pronta a sparare.

L’oscurità era attraversata da un fascio di luce azzurra che si estendeva da una parte all’altra del cielo. A Nikolaj, quelle “cose” avevano sempre ricordato un fulmine che, per ragioni imperscrutabili all’uomo, si scarichi in orizzontale. L’aria cambiava odore e diveniva pungente. Inalarla faceva quasi male.
Quando vedeva le “linee”, come le aveva chiamate il viaggiatore, tirava fuori la piccola croce ortodossa che portava al collo e le dava un bacio, poi era tutto un segnarsi e pregare.

Più tardi, il respiro della notte venne violentato da un miagolio bizzarro e da voci in russo, scaturite da gole aliene.
Chissà quale entità aveva messo il naso fuori dalla “linea” e stava consumando uno festino dove il suo sguardo non arrivava a vedere.
Tutto quello che fece Nikolaj, fu di puntare la “lince” in direzione dei rumori e aspettare con un dito sul grilletto.

L’alba lo vide, già in arcione sul basto di Erwin, percorrere la steppa, verso sudest. Mancava poco alla casa di Artem Jurevich. Nikolaj sorrise e diede un colpetto ai fianchi dell’asino. «Coraggio, piede scalzo, coraggio!»
Oltrepassarono una piccola altura rocciosa, superando cerchi di funghi dai colori mortalmente pastello. «Siamo all’albero piegato.» disse Nikolaj, individuando una specie di vecchia, contorta, betulla.
«Artem Jurevich, sono Nikolaj!» gridò.

In casa non c’era nessuno. La struttura metallica rimbombava per l’urlo del vento. A fianco, la stia per i polli era vuota, così l’ovile e la grande legnaia. Le porte erano aperte e i lucchetti buttati sulla neve. L’unica, bizzarra, forma di vita era il mastodonte. Ruminava cauto, all’interno di un recinto di pannelli arrugginiti e assi di legno. Era legato a un enorme palo da quella che all’uomo parve una specie di doppia cavezza. Sembrava troppo corta per una bestia di quelle dimensioni, eppure, per tutto il tempo che l’ebbe sott’occhio, il mastodonte si limitò ad allungare il collo e brucare calmo.
Nikolaj s’accorse di stare sudando. Tolse gli occhiali protettivi e si sfilò l’elmetto, poi si passò sul volto una mano coperta dal guanto.
Si avvicinò alla staccionata e vi legò Erwin, poi si rimise l’elmetto, gli occhiali e imbracciò la “lince”.
Per i lunghi istanti in cui rimase a guardare quella desolazione, non finì di chiedersi che diavolo potesse essere accaduto al vicino.
C’erano delle tracce, sulla neve, solchi di pneumatici che non poteva aver lasciato la motocicletta di Artem Jurevich; la trovò infatti dietro la casa, ad arrugginire assieme ad altri rifiuti.
Col calcio della “lince” ben piantato contro la spalla, scandagliò il terreno attraverso il cannocchiale.
L’ombra di un pino macchiava metà della casa, muovendosi come le mani di un vecchio. Il cielo aveva il colore di un fiume gonfio di pioggia.
Fuori casa c’erano dei panni stesi ad asciugare. Si fece coraggio ed entrò.
Vide la propria ombra ungere il tavolo, risalire sui piatti, su una bottiglia di vetro ancora piena di liquido bianco-giallastro. La prese, l’annusò: vodka. C’era un’etichetta. Nikolaj lesse “Collettivo Oleodotto”. Veniva da una comunità guerriera a nord, con cui Artem Jurevich gli aveva detto di fare scambi.
Nell’unico ambiente, palpitava odore di sigaretta.
C’era della zuppa nelle scodelle; sapeva di cavolo e di pollo. C’era un cucchiaio di legno. Nikolaj si tolse gli occhiali, si sedette e mangiò.
Quando udì un rumore, alzò il fucile e vide un topo. Gli diede un pezzetto di carne che quello prese con le zampine.
Finita la zuppa, scostò la sedia e bevve un dito di vodka.
Il topo era scomparso.
C’era una stufa a legna sotto ogni letto. Le coperte erano fatte di stoffa e avevano l’aria d’esser state rammendate più volte.
Aprì una cassapanca di legno e vide che conteneva vestiti e pelli conciate.
C’era una porta, sul retro; l’aprì e si trovò davanti un piccolo fiume. Vide qualcosa sulla riva. Si avvicinò.
Un mucchio di stracci bagnati. C’era anche un pezzo di sapone; lo annusò, poi prese un sacco dallo zaino e ve lo fece scivolare dentro.
Tornò dov’era impastoiato Erwin, poi mise il fucile nella guaina sulla sella.

Non fu difficile seguire le tracce di pneumatico; doveva trattarsi di un veicolo molto pesante, visto come affondava nella neve.
Oltrepassò i contrafforti di un colle roccioso, poi una macchia di arbusti da cui spuntava la parete di un edificio distrutto.
Gli occhi di Nikolaj individuarono un segno: un triangolo giallo con all’interno un punto nero da cui si dipartivano tre raggi.
«Quando si vede il marchio del diavolo, ci si mette la maschera.» recitò una cantilena imparata dal nonno e fece fermare l’asino.
Indossò la maschera antigas; il vecchio filtro si mise a fare il suo lavoro con un sibilo.
La neve in quel punto era sporca e nerastra. I solchi degli pneumatici sembravano bassorilievi di fango.
Continuò a seguirli, fino a che vide un’alta torre di tralicci di legno su cui stava appollaiato il casotto di una guardia.
Proprio in quell’attimo, gli sembrò di vedere un oggetto venir lanciato dalla torre. Udì un breve urlo.
Adagio, scese dall’asino e s’incamminò col fucile in pugno. Il respiro nella maschera divenne accelerato.
Sentì il crac degli stivali sulla neve, sentì il tintinnare dei ganci dello zaino e dell’elmetto.
Avanzò, aggirando un albero bruciato, poi si mise quatto in una macchia di rododendri.
Attraverso il cannocchiale, la pianura si presentava spoglia, interrotta solo dai tralicci e dalla sagoma di un grande container. Vide del filo spinato rotto in più punti.
Sentì il ragliare di un asino, sentì delle pecore belare.
Fece un passo e poi un altro. Al terzo, lo stivale venne risucchiato da un vortice d’acqua marrone. S’allargava dal buco su una lastra di ghiaccio. Ghiaccio sottile.
Più in là, fra gli arbusti, vide sporgere la carcassa di un cavallo con ancora, sul petto e sul muso, una bardatura di lega e ceramica.
Si vedeva, chiaro, il buco di un laser, proprio sotto la mascella.
Nikolaj imprecò. Il sudore gli bruciava gli occhi.
Cercò di togliersi dall’acqua e di avanzare verso la struttura metallica. Non appena raggiunse il filo spinato, sfilò lo zaino, si mise prono e ci passò sotto. Le punte di ferro grattarono sull’armatura e lacerarono il mantello.
Rotolò di lato e si rimise in piedi lentamente.
Fece alcuni passi e si poggiò contro il muro più vicino. Udiva dei cavalli e le risate di uomini.
Superò con lo sguardo il davanzale di una finestra e trattenne il respiro. C’erano due uomini che si scaldavano davanti a un bidone; indossavano uniformi militari rattoppate e stivali. Il petto, era rivestito da piastre in lega color kaki. Avevano dei giubbotti con le tasche laterali piene di batterie per fucili-laser.
Un terzo uomo lavorava dietro una specie di meccanismo tremolante: qualcosa di metallico, simile a una scatola.
C’era un cono di luce (a Nikolaj parve scaturire dal meccanismo) che inondava la parete di fronte.
Nikolaj sentì una musica, una musica che ben conosceva. Vide un uomo, seduto su un bidone d’olio. Ascoltava la canzone, tenendosi in grembo un aggeggio piatto, simile a quello che Nadia odiava tanto. Da lì, la voce di una ragazza tedesca chiamava un nome, “Lili Marleen”.
E le immagini dei morti danzavano sullo schermo in una sequenza armonica con gli alti e bassi della musica. Tutti avevano un grembiule a fiori e una parrucca bionda, piena di boccoli. Attorno a ciascuno c’era come un’aura rossa: lo schizzo di sangue che impregnava il punto dove s’erano sfracellati.
«Bravo maestro!» disse uno degli uomini, applaudendo. L’altro spense una sigaretta sotto lo stivale.
Poco prima che finisse la musica, l’ultima immagine lasciò il suo ricordo e il muro ridivenne bianco come la pelle di un cadavere.
L’uomo sulla sedia spense il registratore e batté un piede a terra.
Quando si girò e si alzò, appoggiando il peso su un bastone, Nikolaj chiuse gli occhi.
«Ce ne servono altri, mancano immagini!» disse l’uomo, parlando come se avesse una patata in bocca.
«Si va a caccia?» chiese uno dei due accanto al fuoco. «E se arrostissimo una pecora?»
«Lo faremo, Aleksej!» urlò l’uomo appoggiato al bastone, «ma ora andate a prepararvi.»
Il tizio che aveva spento la sigaretta, grugnì, poi diede uno spintone all’uomo dietro la macchina.
«Fa’ scendere Maksim dalla torre e spegni il proiettore: noi prepariamo il fuoristrada.»

Nikolaj si abbassò e spostò il peso di lato. Teneva la canna del fucile in su. Lungo il collo gli scese una goccia di sudore gelido.
Ebbe l’impulso di andarsene, di oltrepassare il filo spinato, prendere Erwin e trottare sino casa. Si morse un labbro e lo fece sanguinare, poi controllò il tremito delle mani. Fece un respiro.
Alle orecchie gli giunse lo sbattere di una porta e il rumore di stivali sull’erba.
Rimase lì finché non fu certo che anche l’uomo del proiettore fosse uscito, poi, raccogliendo ogni grammo di coraggio, entrò.
L’uomo lo vide e rimase come in trance. Davanti a lui c’era uno sconosciuto con la faccia coperta da una maschera antigas e con un lungo fucile tra le mani.
«Non sei uno dei miei… »
Nikolaj scosse la testa.
«Che vuoi? Olio? Benzina? Batterie laser?»
Adagio, l’altro sganciò l’elmetto e tolse la maschera. L’uomo sotto tiro corrugò la fronte.
«Chi sei? Dovrei conoscerti?»
Per tutta risposta, Nikolaj prese il libro che teneva alla cintura e glielo gettò ai piedi. L’uomo lo raccolse e lo aprì. Rimase a leggerne una pagina, in silenzio. Ogni tanto si massaggiava gli occhi, dietro le lenti rettangolari.
«Vai a pagina sette,» ordinò Nikolaj, «e guarda le righe sottolineate.»
Quello deglutì, poi fece frusciare le pagine.
«Sette… sette… ecco: “Nei villaggi della foresta nera, dentro casette colorate, i ragazzi ascoltano musica rock e i genitori guardano film alla televisione”.»
La frase ebbe come il potere di mungere la vita da quella stanza. Nikolaj rimase fermo, senza muovere un muscolo, mentre negli occhi dell’altro, di Erwin, si accese una luce. Rivedeva l’isba persa nella neve e Nikolaj, bambino, curvo ad ascoltare i suoi racconti.
Da fuori, giunsero la risata di un uomo e il rombo d’una turbina.
«E se invece di sprecare una pecora, recuperassimo il cavallo del bastardo?» disse una voce.
«Chi, quello che cercava di tagliare la corda?»
«Aha.»

Nikolaj succhiò l’aria fra i denti. «Hai ucciso tu quegli uomini: Artem Jurevich e la sua famiglia?»
«Uccisi? Li ho resi immortali, invece. Le loro immagini sono ancora qui, mentre i corpi vengono divorati dai corvi.»
«Perché?» domandò Nikolaj.
L’uomo scrollò le spalle, poi mise un indice sul muro. «Non sai cosa ho realizzato? Hai visto il film?»
L’altro chiuse gli occhi, li riaprì e vide Erwin com’era trentaquattro inverni prima. Nelle orecchie gli ronzarono i suoi racconti, storie di tedeschi e di polacchi che si aiutavano l’un l’altro, storie di uomini.
Poi la voce di Nadia fermò ogni cosa.
Viviamo in un mondo di lupi, si disse Nikolaj prima di schiacciare il grilletto.
Ci fu una silente esplosione di luce. La testa di Erwin ricadde in avanti.

«Kolja!»
Aprì gli occhi e inalò odore di cavolo. Aveva la sua pipa in grembo; la stringeva col pugno.
«Debbo essermi addormentato.»
Fuori era sera, il vento fischiava.
Nikolaj si alzò, ripose la pipa su una mensola, poi diede uno sguardo alla finestra. Turbini di neve rotolavano sulla gobba del mastodonte che ruminava, calmo come sempre.
Sbuffò, spostando gli occhi al grande letto su cui Ilija già dormiva.
«Sei molto stanco.» disse Nadia. Lui annuì e le diede un bacio.
«Vengo a letto,» disse.
Guardò ancora il mastodonte e la sua groppa robusta, che riusciva trasportare uomini e bagagli. Avrebbe potuto condurre Nikolaj in Germania. Da morto, avrebbe potuto sfamare la famiglia per un intero, lungo, anno.
«Kolja?»
«Bisogna che faccia una cosa.» disse lui.
In silenzio, andò dove riposavano le armi. Prese la “lince”, il fucile del padre, quello con cui s’abbattevano le bestie più grandi.


FINE

Nessun commento:

Posta un commento