martedì 17 gennaio 2012

Impermanenza

Horen Van Berg bussò alla porta di legno e attese.
La Terra era ancora bassa nel cielo e la metà superiore pareva coperta da una palpebra di buio. Le stelle vibravano in quel villaggio sperduto nel Mare di Cydonia.
Horen controllò che sulla cartella i fogli fossero ben posizionati, si aggiustò il tesserino sul risvolto della giacca e bussò. Di nuovo.
Finalmente qualcuno venne ad aprire. Una mano raggrinzita galleggiò dal buio, portandosi un odore di tulipani leggero, leggero.
Horen si scoprì a fissare due occhi del tono del brandy che fremevano, incavati, in orbite profonde su un cranio piccolo come un palloncino da bimbi.
«Su, entri!» ciangottò l’uomo, prima che Van Berg potesse parlare. Si girò, curvo, di schiena, e camminò all’interno della casa.
Arrivando con l’auto, Horen l’aveva vista ergersi solitaria sulla pianura rossa, lontana dalle altre abitazioni, quasi ai limiti del villaggio. Dietro di lei, a un quarto di miglio, c’era una sorta di montagnola con qualche croce sbilenca.
Faceva caldo. Horen allentò la cravatta e seguì l’uomo dentro casa.
Non c’erano oggetti alla rinfusa, come in altre abitazioni di persone anziane che aveva visto: al vecchio sembravano piacere i fiori, i tulipani, in particolare, perché ne scorse molti che ondeggiavano al soffio del vento marziano, adagio.
«Sono belli, vero?» disse il vecchio.
«Sì, signor Niles, belli.»
«Mi piace stare a guardarli, sfiorarne i petali.» disse l’uomo.
Horen annuì e corrugò la fronte. «Signor Niles, sono qui da parte del governo… come lei sa ho un ordine espropriazione… uhm, ecco, deve firmare sotto il segno rosso… il governo le accrediterà un cospicuo indennizzo e… »
«È per l’autostrada, vero?» domandò Niles, ridacchiando. «È sempre per un’autostrada.»
«Signor Niles, se vuol firmare… mi dispiace essere così diretto, ma ho altri ordini d’esproprio da evadere questa sera.»
«Evadere?» Niles si girò, sfiorando col pollice uno dei tulipani all’ingresso. «Sì, ha usato una parola che mi piaceva… un tempo… sa, quando non ne conoscevo alcuna.»
Il vecchio lasciò la frase così, in sospeso per alcuni istanti e poi sorrise.
Horen corrugò la fronte e cercò di sorridere anche lui, ma sul viso gli venne una smorfia tirata. Cominciò a sudare.
«Fa’ caldo, signor Niles.» disse.
L’altro continuò a ridacchiare e ciabattò a sinistra, dove si apriva la cucina. Sfiorò con la mano un tavolo rotondo, di legno, poi andò ai fornelli color panna, prese due tazze dalla credenza, prese una teiera rossa con disegni a fiori. Dalla finestra ammiccavano le stelle.
«Un po’ di tè?» domandò, cominciando a prepararlo.
«Uhm, no grazie, io… » Horen fece per protestare.
«Suvvia, accontenti un povero vecchio! Si sieda, si sieda e mi ascolti, ascolti quel che ho da dirle, perché non lo ripeterò e forse, mio caro signore, le servirà da lezione.» il vecchio fece un gesto verso la sedia e sorrise, mentre le zampe di gallina gli scavavano il lato degli occhi.
«Beh, certo… » Horen posò la cartelletta sul tavolo, si aggiustò la cravatta e si sedette. Il suo enorme corpo di due metri cadde letteralmente sulla sedia, strappandole un rumore sinistro.
Niles aveva messo l’acqua sul fuoco e si fregava le mani e ci soffiava sopra, nonostante facesse caldo.
Quando volse il viso verso Horen, gli occhi brillavano come per la luce di mille soli.
«Conosce le storie sugli antichi déi di Marte, vero?» cominciò.
«Uh, sì, credo di sì.» disse Horen, a disagio. Che diavolo aveva in mente il vecchio? Era sciroccato?
«Ebbene… gli dèi di questo mondo avevano un corpo ed erano esili e alti e portavano abiti leggeri come le ali di una farfalla… solcavano i canali con le loro navi della sabbia e vivevano felici… » disse Niles, chiudendo gli occhi.
Cos’era? Una lezione di storia? Una favola per bimbi? Horen fece per alzarsi: doveva proprio ottenere la firma di Niles e andare dal proprietario successivo.
«Gli déi, signor mio, un giorno abbandonarono i loro corpi e divennero permanenti: si trasformarono in quel che voi potreste chiamare un fascio d’elettroni. Erano liberi di durare al pari dell’universo: ora non conoscevano più il concetto del tempo, perché erano eterni. Questi fasci d’elettroni potevano librarsi in cielo, loro erano il cielo… potevano infilarsi nella terra, perché erano la terra… » il vecchio aprì gli occhi.
Horen si alzò. «Io, signore, io devo proprio… »
E a quelle parole, il tono di Niles cambiò: la sua voce divenne profonda come il rombo del mare di Cydonia in una caverna e i suoi occhi furono lo spazio vibrante di stelle.
«Io sono uno degli déi di Marte… io fui è meglio dire. E vissi per eoni, per tanto di quel tempo che la tua mente non potrebbe concepire… vidi Marte com’era e vidi le navi terrestri giungere qui sganciando palloni pieni di gas serra… e la superficie del pianeta, da rossa, divenne verde e blu… portaste gli alberi, creaste gli oceani… e i coloni atterrarono con le loro navi e Cydonia si popolò di villaggi, di città, di strade, di negozi.»
Horen vacillò e strinse forte la cartella, come se fosse la sua ancora di salvezza in un mare in tempesta.
«Ma io… mio caro agente del governo… io volli una vita da uomo e scesi sulla superficie di Marte, in questo corpo che tu vedi corrotto, ma che una volta era giovane e forte.
«Sperimentai il più grande dono dell’umanità, quello stesso dono che anche noi avevamo e che abbiamo gettato al vento… esso è al tempo medesimo, il più grande dolore… sì, uomo, dolore, dolore.»
Niles scosse la testa, gli occhi gli si inumidirono, li velò con le palpebre, li riaprì.
«Sperimentai l’impermanenza… io, che avevo vissuto miliardi di anni allo stesso modo, nello stesso corpo che non era un corpo… io che avrei potuto vivere altri milioni di miliardi di anni! Abituato alle cose immutabili, m’innamorai.»
Il vecchio lasciò che le parole galleggiassero nell’aria.
«Io ebbi dei genitori e li guardai sorridere, invecchiare, divenire dementi, capricciosi come bimbi… e morire.
«Io ebbi dei figli e li vidi neonati, li vidi fanciulli, li vidi crescere, sposarsi, li vidi andare per altri mondi, li vidi combattere, essere uccisi in guerra…
«Io m’innamorai e sì, avrei voluto fosse per sempre… avrei tanto voluto la sicurezza che da questa parola immaginaria: “sempre”.»
Le spalle di Niles si afflosciarono.
«Lei mi lasciò e andò a viaggiare per altri lidi… sarà morta ora, signor mio… e io non comprendo l’impermanenza che mi fa soffrire e non la comprende neanche lei che adesso si vede alto, forte, con occhi blu penetranti e sa di avere la vita lì ad aspettarlo… lei che in un tempo per me infinitesimo sarà vecchio e si appoggerà al bastone e vivrà di ricordi… lei che, signor mio, non ci pensa, ma prima di spegnersi sarà solo in qualche letto, a sperimentare un viaggio di cui nessuno parla con sé stesso, ma che tutti, tutti temono.»
Gli occhi di Niles si appuntarono verso le stelle.
Horen Van Berg ricadde sulla sedia; la cartelletta finì per terra.
Quando Niles tornò a guardarlo, aveva l’espressione di un padre bonario, un po’ malinconico, forse.
Versò il tè nelle tazze e le mise sul tavolo.
«Due zollette.» disse Horen.


FINE

1 commento:

  1. L'ho scritto adesso, in dodici minuti. L'idea m'è venuta non appena ho messo giù lo zaino, a casa.

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