giovedì 5 gennaio 2012

Lo Spirito Gramo

Un esercito di disperati ondeggiava sulle colline di fronte alla Roccia del Drago, oltre la steppa di Gorodsz. Erano in gran parte umani, anche se fra i loro ranghi si vedevano elfi e piccoli gnomi dalle barbe lunghe e dal cranio massiccio.
Caprone di Corvazia si trovava là in mezzo, ubriaco dalla sera prima, a impugnare uno scudo senza emblemi e reggere una lancia di metallo scheggiato.
Il vento gli scompigliava i capelli in onde d’alga marina e il sole polare lo costringeva a tenere gli occhi chiusi innanzi alla morte.
Aveva sulla bocca e sulla guancia il rossetto di una signora e sul collo, segni di baci ardenti. I calzoni erano legati alla meno peggio, stretti da una corda sotto i rotoli della pancia. All’altezza del cavallo aveva un piccolo strappo di cui non s’era accorto. Il membro virile gli doleva in modo furioso, tradendo l’opera d’una qualche meretrice.
Alla sua destra, con uno scudo, un’armatura di maglia e la cotta nera, Simmaco di Agriculum stringeva la spada; più in là, Coclite di Varna masticava una bestemmia.
«Il loro modo di combattere non mi piace;» disse Coclite, «si schierano fuori dalle mura e ci attendono.»
«È la sola cosa che sanno fare; la palizzata della Roccia non resisterebbe a un assedio.» replicò Simmaco. L’altro fece spallucce: «Un assedio! E con che assediamo, me lo spieghi?»
«Arcadio ha pagato un illusionista perché creasse un trabucco fatto d’aria, non lo vedi avanzare da oriente?»
«Grande Bianco! Certo che sì!» esclamò l’uomo di Varna, «Vuoi dire che quella roba è tutta una finzione? Eppure sento cigolare le ruote e vibrare le corde.»
Il guerriero di Agriculum sorrise.
«E gli uomini che la spingono?» domandò Coclite.
«Sono veri, come pure gli scudi a torre; tanto per dare un tocco di realtà alla cosa.» disse Simmaco.
L’uomo di Varna si rabbuiò lanciando uno sguardo alle pendici della Roccia. Lì protetti da scudi, e vestiti d’elmi a punta, stavano gli uomini del principe Ivan.
«Sono in forma.» annotò Coclite. Simmaco sorrise: «Anche noi,» disse, «guarda Caprone, per esempio.»
Richiamato da quelle parole, il guerriero di Corvazia cercò di aprire gli occhi. Coclite vide che reggeva lo scudo con la destra e impugnava la lancia con la sinistra.
«Il nostro amico qui è mancino.» disse l’uomo di Varna. Simmaco scosse la testa: «No che non lo è.»
Diede una piccola spinta a Caprone: «Hai la lancia nella mano sbagliata.» gli fece notare. Quello ondeggiò, aprì la bocca, sparse un rutto e cadde nell’attimo in cui i corni ululavano la carica.

Le cronache di Gorodsz non riportano chi vinse o chi fu sconfitto; per la verità non riportano neanche la battaglia stessa, limitandosi a questa annotazione: “Centododicesimo anno: scaramucce al confine”. Cinque parole non dovrebbero mai esser sufficienti a descrivere i morti, i mutilati, gli annegati che tornano in superficie ancora dopo settimane, coi corpi gonfi il doppio del normale e le teste molli, piene d’acqua e un odore più putrido di qualsiasi carogna.
I corvi rimasero per molto tempo sulla Roccia del Drago, scendendo a riempirsi le pance e zampettando pigri, pieni come uova, a crogiolarsi con gli ultimi sprazzi di sole.
Furono dimenticati il principe Ivan e la sua bandiera col drago scarlatto dalla coda ingarbugliata; furono dimenticati il motivo della battaglia e l’armata di mercenari che si batté sotto le insegne di Gorodsz. Il Poloty, il piccolo fiume che divide l’ultima lingua d’oriente czarnowiano dalle terre dei principi del Drago, contribuì a lavare via ogni ricordo con lo scorrere d’acque d’argento.

Dai cadaveri ammassati sulla vetta di un colle, dov’era avvenuto l’ultimo, terribile scontro, uscì un uomo, bestemmiando e strofinandosi le tempie, come dopo un grande mal di testa.
Caprone di Corvazia si mise a sedere sui cadaveri di quei compagni con cui aveva diviso il vino, la tenda, le risate.
La morte degli altri non lo turbava più di tanto: il primo assaggio lo aveva avuto da ragazzo, quando aveva visto il padre cadere sotto i colpi di un chierico malvagio. Gli s’ammucchiavano, i cadaveri, in un angolo recondito della memoria, con le loro pance aperte, le loro teste gonfie per i colpi di mazza-ferrata, le espressioni di chi non s’aspetta di morire e viene stroncato da un proiettile, da un colpo d’ascia.
Non ricordava da quanto e perché fosse lì; non gliene importava granché del resto. Sapeva solo d’esser nudo dalla cintola in su e di doversi proteggere in qualche maniera. Imprecando, rivoltò uno dei corpi, cercando di sfilargli l’armatura di maglia dalla testa, un lavoro terribile, perché le membra del poveretto erano divenute nere e s’erano irrigidite dal freddo. Dopo un lungo attimo, abbandonò l’impresa, trasse un sospiro, si sedette sulla pancia di un cadavere ed estrasse una lunga spada a doppio taglio dal corpo di un elfo. Si passò la mano sulla faccia e si mise in piedi, ghermì un fodero adatto e se lo allacciò alla cintura. Aveva fame e in quel dannato posto non c’era niente di commestibile… escludendo i cadaveri.
Pose via la spada, si mise a cercare: frugava le borse, le sacche sui muli morti, le tende dell’accampamento distrutto, senza trovare alcunché.
Improvvisamente, oltrepassando un mucchio di cadaveri, ne vide uno fare un sussulto e alzarsi come a sedere. Bestemmiò Zorgon, il dio dalla testa di narvalo, ed estrasse la spada, pronto a colpire.
Si trovò davanti agli occhi Simmaco. La faccia dell’uomo era bianca e sembrava aver la consistenza della gomma; un taglio partiva dalla fronte e terminava all’altezza del mento. Era profondo e aveva i lembi aperti, color vaiolo.
Il morto ricadde, che già Caprone aveva alzato la spada sul capo. Dalla pancia, di Simmaco, uscì un ratto grosso, nero, con la coda spelacchiata. Non aveva avuto difficoltà a lacerare la cotta di stoffa, che ricopriva il torace del morto, e ad uscire fuori. I suoi piccoli occhi sembravano voler domandare a Caprone come diavolo gli fosse venuto in mente di guastargli la cena.
L’uomo lo guardò e fece per sferrare un calcio. La bestia rimase un momento, poi scuotendo l’enorme deretano, tornò a infilarsi nel mucchio di cadaveri.

Trovò Coclite più in basso, appeso a una lancia che gli aveva perforato la gola. Con la spada, tagliò le estremità del manico, poi tolse l’elmo al mercenario e, lentamente, gli sfilò la maglia di ferro. Se la mise, sotto una tunica di cotone imbottito, e ne aggiustò bene il peso sulle spalle e attorno alla vita. Chiuse le cinghiette ai polsi e sputò un grumo di saliva.
Ghermì una daga ancora nel fodero, ne controllò l’affilatura, quindi se la mise alla cintola; poi completò l’equipaggiamento con un piccolo arco da caccia e una faretra di frecce sporche di sangue.

Camminava già da ore, masticando l’ennesima radice, quando vide, incassata tra due lastroni, una sottile colonna di fumo. La mente di Caprone evocò un fuoco, un bivacco, del cibo. Lo stomaco prese a gorgogliare e al naso arrivò l’inesistente aroma di cervogia calda spruzzata con erbe.
Sorrise, rinvigorendo il passo, e pensando a Calpurnia, la meretrice di due sere prima. Nello stato d’animo solare in cui galleggiava, il ricordo del sudore di lei gli tornò quasi come fragranza di mughetto.

Arrivò alla capanna senza vederla, tanto era simile alla roccia circostante. I mattoni di fango avevano assunto un colore grigiastro e si mischiavano ai blocchi di pietra usati per rinforzare la struttura. Il tetto era di piccole lastre di roccia, simili a quelle che si potevano trovare più giù, alla foce del Poloty, quando il fiume attraversa la foresta pietrificata.
Caprone non vide nessuno. Il fumo usciva da un buco nel tetto e la zona era permeata da quella tranquillità sgradevole che appartiene alla morte.
L’uomo di Corvazia si sentiva osservato da qualcuno o qualcosa. Spostando la mano destra al fianco, afferrò l’impugnatura della daga e cominciò a sguainarla adagio.
Chiuse gli occhi a fessura, scandagliando la zona.
Non sembrava esserci nulla più della capanna, di una provvista di legno e di una grezza cisterna in cui veniva convogliata l’acqua di una cascatella tra le rocce.
Sbuffò e fece un passo, accorgendosi solo allora di un ragazzino sporco, vestito di stracci, che lo guardava.
«Tu; c’è del cibo?» chiese Caprone. Il bimbo fece un gran sorriso e annuì. In quell’istante, l’uomo di Corvazia fu stordito da un urlo e vide qualcosa uscire dalla capanna e gettarsi nella sua direzione. Il cervello registrò un vecchio scarno, con la barba bianca e lunga; la mano si chiuse a pugno e il bicipite fece uno scatto. Le nocche di Caprone baciarono il vecchio in pieno volto, impregnandosi di sangue. L’uomo finì a terra con un gemito. Il bambino rise e scappò.
Caprone fu lesto ad avvicinarsi al vecchio e mettergli la daga alla gola.
«Che diavolo credi di fare?» disse una voce. Il corvaziano levò il capo e vide una donna. Aveva gli zigomi alti, tipici dei popoli a est di Czarnowia, e gli occhi neri, schiacciati, obliqui come quelli dei gatti o degli elfi. Vestiva una tunica grezza, trattenuta da strisce di cuoio proprio sotto il seno. Le gambe erano piene di graffi e i piedi erano scalzi. Al lato del collo, il corvaziano vide i segni lasciati da unghie o da artigli.
«Lascia perdere mio padre.» disse la donna. «Che ha, la rabbia?» domandò Caprone. Lei si accigliò: «Non sei di Czarnowia!» disse, come se la cosa la interessasse particolarmente. Egli scosse la testa: «Vengo da sudovest, da una terra vicino alle Curie Lavoniche.»
«Singolare,» fece la donna, «non vediamo uno straniero da anni, qui.»
Caprone indicò alle sue spalle: «Il letto del Poloty ne è pieno.»
«Ho notato i corvi.» fu il commento d’altra, «C’è stata battaglia?»
«Hai cibo?» disse Caprone, sembrando non udirla. Lei si rabbuiò: «Spero almeno che quel bastardo di Ivan della Roccia del Drago abbia tirato le cuoia; ad ogni modo, vieni, dammi una mano a portare mio padre a letto, e ti preparerò qualcosa.»
Caprone annuì.
Il vecchio non pesava nulla: era tutt’ossa e carne grinzosa. Si agitava debolmente e apriva la bocca, chiedendo che gli dessero acqua. Era quasi senza denti e aveva le gengive asciutte e le rughe del volto profonde come solchi d’aratro e coperte di sporco.
Caprone e la donna lo adagiarono su un letto di pelli d’animale e lo coprirono con un mantello pulcioso, quindi ravvivarono il fuoco e si sedettero ognuno su di un ceppo di legno con una tazza di zuppa in mano.
La donna passò qualche attimo a squadrare lo straniero: Caprone aveva gli occhi piccoli come bottoni del colore dell’onice; i capelli erano lunghi e, divisi da una scriminatura al centro della fronte, cadevano giù sino alle spalle poderose, rivestite di maglia di ferro. Il naso era dritto e tagliente; s’incuneava fin quasi sulle labbra triangolari, spaccandole in due.
Al contrario della donna, che sedeva inclinata in avanti, con la tazza di zuppa fra le mani; Caprone era a gambe aperte, con la schiena appoggiata alla parete della casa e la pancia quasi parallela al suolo.
Trangugiò la zuppa in un colpo, badando che i pochi pezzi di carne che vi nuotavano, gli finissero dritti in gola; poi mise la scodella sul tavolo e ruttò.
«Non ci sono guerrieri in questa casa,» disse, «come fate a difendervi dagli uomini di Ivan o da quelli di Gorodsz?»
La donna fece un gesto desolato col capo: «E che abbiamo che ci possano prendere?»
Per tutta risposta, il corvaziano si allungò e le diede una pacca sulle natiche: «Questo bel culo, ad esempio.» disse. La donna fece uno strano sorriso, si alzò, la tazza della zuppa ancora in mano: «Ho avuto tre mariti, un anno… e uno solo quello dopo, fino a che non l’ho seppellito.»
Caprone ammiccò e fece un rutto.
«Il bambino lì fuori,» chiese, «è tuo?»
Lei annuì e bevve un altro sorso.
«Avevo anche una figlia,» disse, «puoi vedere la sua tomba dietro la capanna.»
Il corvaziano annuì: dopotutto, qualcosa glie l’avevano presa i soldati a quella donna.
«È allora vuoi il principe morto?» le domandò. «Sì, per questa ed altre cose.» disse lei.
Caprone corrugò la fronte e cercò di piantare i suoi occhi in quelli della donna; aveva la sensazione che gli stesse mentendo, che stesse recitando la parte della vittima apposta; tuttavia non fece, ne disse niente, limitandosi a scuotere la testa.
«Birra, ne hai?» domandò. «Che tipo sei!» fece la donna, «Ti ho appena parlato di mia figlia morta e mi chiedi birra.»
«Tua figlia è morta, io sono vivo.» disse Caprone. In quell’attimo, il vecchio si agitò e riuscì ad afferrargli il braccio. Disse qualcosa che il corvaziano non capì, poi roteando gli occhi all’indietro, si torse e ricadde fra le pelli del lettuccio.
Caprone ruttò: «Sta tirando le cuoia?»
Lei non rispose, limitandosi ad avvicinarsi al giaciglio e carezzare i capelli del padre.
Quell’uomo sembrava abbastanza stupido; non sarebbe stata necessaria neppure la solita rete di sorrisi per guidarlo verso a lei. Era come un piccolo animale pronto a finire tra gli artigli di una leonessa.
Gli diede uno sguardo ammiccante con i suoi occhi inclinati, poi fece un ghigno di denti bianchi.
«Questa birra?» domandò il corvaziano. Sapeva che ce n’era almeno un barile da qualche parte; ne aveva sentito l’odore. La donna uscì fuori e tornò con un barilotto già aperto, ne vuotò un po’ del contenuto sul paiolo di rame e mise tutto sul fuoco.
Il corvaziano, con la tazza tesa, ascoltava sornione la ridda delle fiamme sui ceppi di legno.
La donna era accovacciata sul suo sedile, con le gambe tirate in grembo e lo sguardo perso su Caprone. Quando lui se ne accorse, fece un sorriso; sentiva un’erezione gonfiargli le brache. La donna ricambiò il sorriso.
«Mamma?» il bimbetto sudicio entrò in quel momento, correndo sul terreno gelato. Gli occhi dardeggiavano da Caprone alla donna, dalla donna al vecchio. Guardandoli, il corvaziano intercettò qualcosa di strano, come se le pagliuzze dorate nelle iridi scure fossero tanti pugnali pronti a bucargli il cuore.
«Che hai da guardare?» fece Caprone. Il bambino corrugò le sopracciglia: «Niente.» disse.
Per la prima volta, l’uomo di Corvazia notò che le manine dell’altro stringevano qualcosa: un bastone, un pezzo di betulla accuratamente lisciato e intagliato con simboli che non aveva mai visto, consunti come da mille anni.
Lo indicò con la tazza: «Che roba è?»
«Niente,» disse la donna, «lo abbiamo trovato nella piana, mentre scavavamo le tombe.»
Mente, pensò Caprone. Aveva risposto troppo in fretta e con troppa sicurezza. L’uomo non sapeva nulla di magia, ma, ai suoi occhi, quei simboli erano troppo uguali a rune magiche per esser definiti “niente”.
«Da’ qua, fa’ vedere.» sbottò, allungando la mano. Il bambino non ebbe una reazione che Caprone avrebbe definito “normale” (per quanto poco ne sapesse di ragazzi), e invece di nascondere il bastone dietro la schiena, lo strinse fino a farsi sbiancare le nocche e tremare il pugno. Gli occhi trasudavano una rabbia strana, un sentimento fuori posto nel cuore di un uomo così piccolo, per quanto abituato agli stenti e alle scorribande dei soldati.
Caprone si sentì costretto ad impugnare la daga. «Ti sei ammattito?» urlò la donna, allungandogli un mestolo di birra. Era calda e gli scottò la mano; Caprone bestemmiò e la daga gli cadde per terra, con un clangore metallico. «Maledetta puttana!» disse, «Sta’ più attenta.»
«E tu non tirare fuori armi in casa di mio padre.» replicò lei. «Bevi la birra.» aggiunse.
Borbottando qualcosa, il corvaziano afferrò la scodella e se la portò alla bocca. Il naso già gustava l’aroma del cumino e di qualche altra strana erba. Caprone mandò giù un sorso, quindi, posata la scodella sul tavolo, si chinò a raccogliere la sua arma.
Poco prima di raggiungere l’impugnatura, fu costretto a voltarsi da un urlo del vecchio. Si agitava di nuovo fra le pellicce. Caprone vide una gamba scarna balzare oltre il bordo e piantarsi sul pavimento e vide i simboli, le inequivocabili rune, incise sul fondo di pietra, in mezzo al terriccio e all’ultima neve. Ghermendo la daga, smontò dal ceppo e si mise accosto al lettino. Erano proprio simboli magici quelli che stava guardando; occupavano tutta la superficie sotto il letto e, per quanto li avesse guardati di sfuggita, sembravano uguali a quelli sul bastone.
«E questo che cazzo è?» sbottò, alzandosi di corsa e indicando per terra. La donna rispose con un sorriso. «Sei una maga?» domandò Caprone. Lei scosse la testa: «Mia madre lo era, beh, non proprio; sapeva qualche runa. Mi ha insegnato le più facili: possono aiutare a guarire.» indicò il letto del malato, «Ne ho tracciate alcune per mio padre, per farlo stare meglio.»
Caprone grugnì, quindi si avventò sulla donna: «Non ti credo.» disse. Le mise la daga alla gola, avvicinando la bocca a quella carnosa di lei… e poi crollò a terra come un peso inanimato.
Si teneva i genitali con entrambe le mani; il dolore gli martellava la testa e sembrava voler fargli esplodere le tempie.
Cercò di girarsi di pancia, per puntellarsi coi gomiti, ma la donna fu più lesta. Con il piede nudo, lo tenne inchiodato al suolo, poi il bambino lo colpì di nuovo col bastone, stavolta alla testa.
Caprone non svenne, ma il terreno cominciò a girargli davanti agli occhi. Era appena cosciente dei lamenti del vecchio, che si mescolavano ai suoi.
La donna e il ragazzo cercarono di aprirgli la bocca e di fargli bere qualcosa. Sulle labbra sentì il calore della birra; il naso riconobbe l’odore d’erba strana.
Ebbe un conato di vomito, rastrellò le proprie forze e diede un urlo. Finalmente, riuscì a girarsi di schiena; assestò un calcio al bambino e diede un pugno alla cieca. La donna gridava e così il piccolo mostro, agitando il bastone.
L’uomo di Corvazia riuscì a impadronirsi della spada e a sguainarla. Puntellandosi con essa, si mise in piedi, proprio mentre il bambino ghermiva il bastone a due mani e chiudeva gli occhi, per recitare una preghiera.
La lama sibilò, ma venne deviata da una forza invisibile, scivolando a qualche centimetro dalla testa del bimbo, come acqua su un riparo spiovente. S’abbatté sul letto, spaccandone una delle gambe. Il vecchio cadde a terra.
L’uomo di Corvazia ruggì, buttandosi fuori dalla capanna, mentre già il bambino mormorava un altro incantesimo.
Raccogliendo la daga, la madre lo inseguì.
Caprone tentò di fuggire.
Gli mancava il fiato e il terreno continuava a sembrargli un mare in tempesta. Sentiva le voci dei maghi parlare in maniera strana, come se, dopotutto, non fossero madre e figlia.
«Non voglio più vederti fare la puttana col primo che capita!» ruggì il bambino. «Risparmia il fiato; pensa a prenderlo, piuttosto!» replicò lei.
«Sei stata maldestra, Althaea; tutte quelle rune così visibili!»
«Pensa a correre!»
Caprone incespicò e cadde. Riuscì a girarsi di schiena e a fendere l’aria con la spada.
La lama sfiorò qualcosa, lacerandola, poi concluse il suo arco sul terreno indurito dal ghiaccio. Il taglio metallico era dipinto di sangue.
L’uomo di Corvazia ebbe appena il tempo d’accorgersi che il bastone runico gli stava rotolando accanto, non più stretto dalla presa del bambino, che la donna gli fu addosso. Miagolava come un gatto furioso. Volle di pugnalarlo, ma la daga sgusciò sugli anelli di ferro. Caprone la respinse con un piede, quindi ghermì la verga runica, rotolò di lato e, alzandosi, corse come non aveva mai fatto in vita sua.

Iulia avrebbe voluto andare a scuola, come le altre bambine. La scuola, che poi era il tempio del villaggio, sembrava così bella da fuori: aveva le pareti dipinte di rosso e di blu e decorazioni intrecciate, tanto simili ai rami dei pini e delle betulle, ché ogni volta si stupiva di non vederci appollaiati gli uccelli. Doveva essere calda, la scuola e i tavoli fatti di legno odoroso. Quelle che ci andavano, le figlie dei cavalieri vicini al principe, dicevano che il chierico insegnava stando in piedi accanto all’icona di San Boris. Dicevano anche che San Boris assomigliava al principe Ivan, con quella sua testa piena di boccoli, gli occhi azzurri come il cielo della prima neve e le mani grandi, giunte davanti al petto, in preghiera.
Avrebbe voluto andarci a scuola, Iulia, e invece doveva far pascolare le capre, sentirne la puzza e udirne i belati.
Maledette capre! Non facevano altro che scampanellare come stupide, mangiando le foglioline d’erba e, in mancanza di quelle, cercando di morderle l’orlo della gonna, l’unica che aveva, quella ricamata col bordo rosso e i fiorellini azzurri.
Pensò al principe Ivan e all’unica volta che l’aveva visto, col suo cappello di pelliccia e la lunga veste rossa piena d’alamari d’oro, uscire dal tempio fra due ali di cavalieri con gli elmi sotto braccio e gli scudi piantati a terra. Gli era sembrato bellissimo; i suoi capelli avevano il colore delle fronde di betulla alla vigilia d’autunno.
Sì, doveva smetterla con quelle dannate capre; sarebbe andata a scuola, avrebbe imparato le lezioni di Padre Kuznya, sarebbe diventata una gran dama, molto pia e avrebbe sposato il principe. L’avrebbe fatto!
Poi c’era la questione del sangue.
Una notte, lune prima, aveva sentito le coperte bagnarsi ed era scesa dal letto, preoccupata. Pensava che Yev, il vecchio cane, avesse fatto la pipì; stava per pentirsi di averlo fatto dormire con lei, quando s’accorse che anche le sue gambe erano bagnate, anzi, il liquido usciva proprio da lei, da in mezzo.
Iulia non strillava facilmente, né cedeva subito al panico. Anche quella volta, si terse, al buio, con l’acqua gelata, poi rivoltò le pellicce su cui dormiva, si tolse la veste, si coprì e cercò di prendere sonno.
Il giorno dopo, vedendo che tardava ad alzarsi, la mamma andò a pungolarla e le tolse le coperte.
«Bambina mia.» le disse.
Iulia la guardò a lungo, poi aprì bocca: «Non l’ho fatto apposta.»
La mamma le diede una carezza: «Lo so, piccola, lo so.»
Ancora, Iulia le diede un lungo sguardo.
«È per questo sangue che non posso andare a scuola?» chiese.
La mamma scosse la testa e fece un sorriso: «No piccola,» disse, «è per le capre che non puoi: senza i tuoi fratelli, e con papà che deve sempre appoggiarsi al bastone, chi si occupa di loro? Sai che sono l’unica ricchezza che abbiamo.»
«Lo so.»
I fratelli avevano trovato la morte e il padre di Iulia aveva perso una gamba nella “scaramuccia al confine” di tanti anni prima.
Sì, pensò Iulia, mentre l’odore pungente delle bestie la riportava nella selva di pini; bisogna avere solo un po’ di coraggio e cambiare le cose: bisogna abbandonare le capre, ad esempio.
Però la questione del sangue era fastidiosa. Ad ogni termine di luna, era costretta a tenere una grande pezza sterilizzata da sbuffi di vapore, appuntata con spille metalliche: una tortura.
Anche adesso, camminando, sentì qualcosa di bagnato farsi strada fra le cosce.
«Che diavolo!» farfugliò, segnandosi, subito dopo.
Si spinse più in là del solito, mentre il muricciolo di legno del villaggio affogava fra i tronchi bianchicci degli alberi. Arrivò sino alla palizzata che delimitava le lande della Roccia del Drago dai domini orientali di Czarnowia, dove il Poloty forma un’ansa e s’ingrandisce, nutrito da due piccoli affluenti.
Lì i pini erano enormi e oscuravano i raggi del sole, dandogli libertà di percorrere unicamente certe vie, che si tramutavano in fasci di raggi color grano o, di notte, quand’era la luna a farsi viva, di liquido argento.
Erano così grandi, quei pini, da aver visto San Boris calcare quel suolo col suo piede sacro. Al pensiero, Iulia si segnò da destra verso sinistra e chinò il capo. Fu allora che l’occhio le cadde su una buca, una di quelle trappole per lupi che venivano approntate dai cacciatori da questa o da quella parte della palizzata.
Dorina, una piccola capra dalla punta delle orecchie nere, aveva brucato i lunghi fili d’erba che spuntavano tra i mucchietti di neve gelata, scoprendo alla vista la buca.
Iulia trattenne il fiato; doveva fare qualcosa o le capre ci si sarebbero catapultate dentro, stupide com’erano. In quel momento desiderò che Yev non fosse così antico e così sordo da risultare inutile. Non sapeva neanche perché papà la lasciasse uscire con Yev e non si procurasse un cane da pastore nuovo, magari alla fiera annuale di Bazarov o a quella della capitale, Groden; ci sarebbe andata, Iulia, e magari avrebbe conosciuto qualche principe o qualche bel cavaliere dai gambali di cuoio decorato e dall’elmo scintillante.
Le capre, si disse. Spostando il bastone, cercò di cacciarne via alcune e si avvicinò alla buca. Le bestie presero a belare più forte. Qualcuna cercò di morderle la gonna. Iulia si mise ad agitare il bastone, poi fece un passo e un altro, finché non raggiunse l’orlo della buca.
Guardò giù, in quella specie di pozzo d’ombra da cui, ora lo udì, ribolliva una specie di verso simile al grugnire dei maiali selvatici. C’era una bestia là sotto, ma di che genere potesse essere, non ne aveva idea.
Allungò il bastone e fece per calarlo nel buco.
E, con una bestemmia, apparve un uomo. Era sporco e aveva la faccia colorata di sangue. L’occhio sinistro sembrava pesto e gonfio, la barba non era curata come quella di papà o del principe e ricordava più il pelo di Yev che altro.
Dalle labbra spaccate uscivano parole in lingua straniera, frasi aspre e dure, scevre della musicalità da liuto della lingua degli strzelev. Impugnava un bastone di legno nero, su cui erano incisi dei simboli che non aveva mai visto e sulla cui estremità riposava il volto di un uomo, scolpito, dalla barba lunga e da un occhio solo.
Non era San Boris, non era neanche una delle icone sacre; aveva una faccia antica e un’espressione in qualche modo astuta. Iulia pensò che dovesse rappresentare qualcosa di proibito, forse uno spirito dei varigi o degli svervegi, nemici del Drago, dediti a strani culti.

Caprone vide la bambina con la cuffietta bianca e la gonna rossa, bordata di azzurro, spuntare da una coltre di capre sporche. Si tirò su alla meno peggio e la guardò dall’alto in basso, con quei suoi occhi neri, piccoli, che sembravano contemplare eternamente il preludio del sonno.
«Sei una maga pure tu?» domandò, nella lingua di lei. «Nossignore, io prego San Boris, come facciamo tutti al villaggio.» s’affrettò a rispondere la bambina.
«Allora non mi sbagliavo,» disse Caprone, «c’è un villaggio qui.»
Ella annuì.
«Chi sei, signore?» aggiunse.
«Un cavaliere.» rispose Caprone.
Iulia corrugò la fronte. Un cavaliere? Non aveva i capelli corti in una piccola cascata di boccoli, né gli occhi cerulei o la barba curata a sembrar tanti piccoli fili di grano. Non aveva la veste d’alamari d’oro, ne la sciabola al fianco… solo quello stupido bastone zeppo di simboli tribali.
«Non hai… la spada.» cercò di obiettare lei, debolmente.
Caprone la vide che dondolava ora su un piede, ora sull’altro, tenendo ogni tanto a bada le bestie.
«Non ce l’ho nel fodero di carne in mezzo alle chiappe, quindi vuol dire che sono riuscito a perderla ieri notte, inseguito da quella baldracca e da suo figlio.» disse.
No, decisamente non poteva essere un cavaliere. Un nobile strzelev non avrebbe mai detto quelle cose.
«Hai una spada, tu?» le domandò.
«Ti pare che possa averne una?» fece Iulia.
«Hai da bere? Acquavite, latte di capra fermentato? Roba simile; insomma, ce l’hai?»
«Non sei un cavaliere!»
«Come ti permetti, puttanella?» ruggì Caprone, facendo un passo in avanti. Solo allora Yev ritenne onesto correre verso la padroncina e mettersi a ringhiare.
«Toglimi ’sto cane rincoglionito da davanti prima che lo mangi.» disse il corvaziano.
La bambina fu percorsa da un tremito. Yev cominciò ad abbaiare.
Era quasi senza denti e aveva il muso spruzzato di bianco. Sì, doveva bastare come deterrente per quelle quattro capre malaticce, ma non per un mercenario segnato dalle cicatrici e affamato come lui.
Anche la bambina dovette capirlo, perché mise una mano sulla nuca del cane e cominciò a carezzarlo adagio. «Buono Yev.» disse.
Caprone grugnì, poi si mise il pezzo di legno scolpito alla cintura.
«Dove siamo?» chiese, «Che terre sono queste?»
«Là,» Iulia indicò un punto alle sue spalle, «c’è il mio villaggio,» e aggiunse, a mo’ di spiegazione, «preghiamo San Boris e il principe Ivan.»
«Ivan di Roccia del Drago.» commentò il corvaziano. «Proprio lui.» disse Iulia.
Caprone grugnì, poi s’incamminò oscillando verso la direzione indicata dalla bambina.
«Dove vai?» chiese lei. «Al villaggio.» rispose l’uomo di Corvazia, senza girarsi. Le capre, come attirate dall’odore e dai ciuffi d’erba che gli s’erano attaccati alle brache, presero a sciamare attorno a Caprone, belando e scampanellando.
«Cazzo, levatevi!» ruggì questi, cercando di allontanarle coi piedi.
Iulia lo seguì, strillando. «Non puoi andare al villaggio! Non puoi; daranno la colpa a me!»
Caprone si fermò e si piegò verso di lei: «Voglio solo mangiare e sapere se qualcuno può dirmi qualcosa di questo bastone; non ho intenzione di violentare i culi grassi delle vostre vecchiette adoratrici di icone, chiaro?»
Iulia, che non aveva assolutamente chiaro nulla, continuò a trotterellargli accanto, agitando il bastone. Yev poi, pensando fosse tutto un gioco, scodinzolava e saltellava, abbaiando.
«Non puoi, ti dico che non puoi!» disse la bimba. Caprone ne aveva abbastanza: come stesse sollevando un prosciutto, l’afferrò e se la mise in spalla.
«Andiamo.» disse, forse rivolto alle capre. Belando, quelle rimasero dov’erano, infastidite solo dagli occasionali morsi del povero Yev.

Padre Kuznya aveva una gran barba nera, lunga sino al petto e capelli che gli sfioravano le spalle.
In gioventù, avvolto nel fervore tipico degli strzelev, s’era ricoperto d’armatura e aveva combattuto per il principe Aleksej, padre di Ivan. Attorno al collo, portava ancora la grande, metallica, icona di San Boris, con cui aveva più volte distrutto i pagani e scacciato coloro che tornano dalla morte.
L’armatura, la spada e l’ascia, erano ancora nella sua cella, dentro il tempio, montate su due pali robusti che formavano una croce. Si diceva fossero state immerse alle sorgenti del Poloty, che il Grande Bianco aveva benedetto alla fine della Prima Alba, e che ancora dispensavano miracoli a chiunque vi si bagnasse e fosse puro di cuore.
Conosceva a memoria i nomi dei centoottantuno santi di Roccia del Drago e sapeva recitare molte delle loro leggende. Conosceva il potere delle erbe e dei malefici folletti dei boschi.
Avrebbe saputo individuare le impronte degli immondi orsi delle pulci o il preludio all’arrivo di un drago.
Insegnava ai bambini a diffidare d’ogni segno pagano degli spiriti di tribù che sopravvivevano a nord e ad est. Era guardingo e sospettoso.
Perciò fu con paura che accolse l’arrivo di quel soldato straniero e della cosa che portava alla cintura.
Lo bloccò poco fuori dal muricciolo s’assi, accanto alla piccola edicola in legno, a forma di casetta, che conteneva un’icona di San Boris.
«Porti sventura, soldato.» tuonò, con gli occhi azzurri, accesi come da un terribile fuoco.
«Sventura? Date nomi strani alle bambine, qui.» rispose Caprone, gettandogli Iulia tra le braccia e oltrepassando il muricciolo.
Mentre si liberava della bimba, vide del sangue, che prima non c’era, sul braccio destro. Imprecò.
Subito, alcuni uomini gli si pararono innanzi, tendendo piccoli archi. Erano apparsi dal nulla, come se lo stessero aspettando. Dovevano essere i guardiani delle “mura”; se mura si potevano definire semplici assi di legno.
«Chi sei, straniero, tu che vieni a Pogost non invitato?» disse un uomo. Era arrivato per ultimo e non portava l’arco. Caprone vide che indossava una di quelle tuniche rosse, chiuse da alamari di metallo, che tanto piacciono ai nobili strzelev.
«Osserva, Bogdan, egli porta con sé la verga dello Spirito Gramo!» disse Kuznya al nobile.
«È così che chiamate l’uccello?» fece Caprone toccandosi il proprio.
«Sei uno di quei barbari che hanno attaccato il santo principe Ivan.» affermò Bogdan, tirando su il mento. Il corvaziano si massaggiò la pancia ed emise un rutto.
«Sono uno di quegli idioti che hanno combattuto gratis per Gorodsz.»
«Allora è vero!» disse il nobile.
«Potete levarmi queste capre dalle palle?» fece l’altro, dando un calcio a Dorina. Essa belò ed ebbe vendetta con un morso.
«Porca puttana!» imprecò Caprone. Bogdan fu scosso da una risata: «Dovresti trovarti bene, visto che puzzi come loro.»
Frattanto, Kuznya aveva allungato la mano verso il bastone: «Dammelo!» disse.
Caprone parve accorgersi solo allora di averlo alla cintura; lo prese, lo soppesò e disse: «Stavo rischiando di finire ucciso da due pervertiti più a ovest per questa roba.» disse.
Il chierico spalancò gli occhi, mormorando qualcosa nella sua lingua.
«Beh? Che ti prende?» fece Caprone.
«Si trattava di un uomo e una donna molto vecchi?» domandò Kuznya.
«No,» fece il corvaziano, «c’erano solo: un bimbo di cinque o sei inverni, un vecchio malandato e una meretrice del cazzo.»
Gli strzelev si scambiarono qualche parola fra loro, poi il chierico tornò a parlare a Caprone.
Lo fece con un tono amichevole, quasi come un padre che voglia rincuorare un figlio.
«Voi al di là del fiume siete dei barbari e adorate il Grande Bianco con riti pagani, ma comunque lo adorate, perciò posso considerarti, straniero, come un fratello e ti dico che hai corso un grande pericolo, perché quelli che ti hanno quasi ucciso erano sicuramente Kalydan e Althaea, due astuti e vecchi pijavica.»
«Se non sbaglio, sono stregoni.» fece il corvaziano, attingendo alle sue scarse conoscenze della lingua locale.
Kuznya annuì. «Sono i bevitori d’anima,» aggiunse, «maghi a cui la sete di potere chiede più d’una vita per apprendere le file di liturgie malvagie concepite dall’uomo; essi, perciò, sono sempre alla ricerca di corpi giovani e robusti per poter continuare lo studio.»
Il chierico indicò la verga lignea: «Grazie al bastone dello Spirito Gramo, scolpito dalle tribù di Svervegia, Kalydan e Althaea scacciano la vita, l’anima, dal corpo prescelto e vi inoculano la loro.»
Caprone sgranò gli occhi e masticò una bestemmia. «Non offendere il nome degli dei, poiché sono gli unici a proteggerti in questa landa!» tuonò Kuznya.
Caprone bestemmiò ancora. Gli ovini belarono. Iulia, rapita dal racconto, cominciò a tirare la barba del chierico, «Continua, continua!» diceva.
«Senti un po’,» fece il corvaziano, «e dov’è che finiscono le anime dei malcapitati?»
Gli occhi di Kuznya parvero bruciarlo: «Nel precedente corpo del pijavica, che spesso è vecchio e malato.»
Caprone sbiancò, fece in tempo a sfilarsi il bastone dalla cintura e a scaraventarlo in mano al chierico, che sentì le gambe vacillare e s’appoggiò al muro di legno.
«Bastardi.» gli sentirono dire.
«Vieni, figlio.» disse il chierico, toccandogli una spalla. Caprone lo guardò, stralunato. «Vieni.» quello disse. Il corvaziano si stropicciò gli occhi, dalla sclera iniettata di sangue: «Per un momento,» replicò, «ho pensato che tu fossi quel bastardo di Coclite, che mi invitava a puttane.»
«Non ti senti bene, figlio, vieni al tempio.»
«Vengo al tempio.» ripeté Caprone.

Come tutte le costruzioni di Pogost, il tempio di San Boris era in legno e si elevava sfiorando, col suo campanile, le fronde delle betulle più alte.
L’interno era spoglio, fatta eccezione per le panche dei fedeli e la stanza di Kuznya, separata da una grande tenda di pelli d’animale, e aveva un’acustica impressionante, capace di elevare il più flebile sussurro alle orecchie d’ogni ascoltatore.
Quest’ultima caratteristica, Caprone ebbe modo di sperimentarla bene durante la degenza. Il chierico gli fece bere delle pozioni a base di latte di capra acido, che gli gonfiavano lo stomaco obbligandolo a ruttare di continuo. Il tempio veniva così invaso da rumori d’orso di caverna, spaventosi per chi stava fuori e insostenibili per coloro che erano tanto stupidi da avventurarsi all’interno.
Rimase due giorni in quello stato, con l’unico conforto di una candela e della voce di Iulia, che interrompeva, di tanto in tanto, il salmodiare monotono del prete.
«Tu sei strano, sai?» gli disse una volta, dopo averlo guardato a lungo. Caprone aveva gli zigomi tirati e la faccia lucida di sudore. I capelli gli s’appiccicavano al capo, quasi sciolti nel gran caldo del tempio.
«Vattene e smettila di darmi fastidio.» le rispose.
Il giorno dopo, Kuznya venne e gli toccò la pelle, poi prese a mormorare nella sua lingua. «Che hai da dire?» fece l’uomo di Corvazia.
«La febbre è passata.»
«Ma se non avevo febbre!» obiettò Caprone.
«Te l’ho provocata io, per lasciare che delirassi.»
Il corvaziano cercò allora di mettersi a sedere: «Vecchio stronzo, se ti metto le mani addosso… »
«Animo, figlio! Era necessario che lasciassi parlare il tuo spirito nel delirio, per comprendere se Kalydan e sua moglie ti avessero contaminato.»
Caprone grugnì e gli sferrò un pugno. Kuznya fece un passo all’indietro, poi perdette l’equilibrio e cadde sulla vecchia armatura.
«Boje!» ruggì, «Sei pazzo!»
«Senti, vecchio, ho tremendamente fame e sete… e voglia di una puttana ed è inutile che ti segni e baci l’icona del santo, perché… »
Caprone ebbe un capogiro e finì a gambe all’aria, sbattendo la testa contro il bordo del letto.
La veste da notte che gli aveva dato Kuznya si era alzata al di sopra della cintola, rivelando un fallo moscio e solcato come da morsi di denti umani.
Segnandosi, il chierico coprì gli occhi di Iulia, che vegliava lì accanto.

Appena si fu ristabilito ed ebbe mangiato, Caprone volle parlare con Bogdan, che svolgeva la funzione di capo-villaggio e col religioso.
Era seduto a un lato del tavolo di quercia del nobile, nel suo palazzo che tutto faceva per non apparir dissimile dagli altri.
Sulla trave, sopra la testa di Bogdan, c’erano due elmi, ricordo del padre e del fratello, mentre le armi del nobile erano appese alla parete più lontana: un giavellotto, un arco, l’ascia, la spada. Lungo gli altri muri, c’erano degli scudi, dipinti con immagini di santi. La moglie di Bogdan, una donna alta, coi capelli lunghissimi e neri, si muoveva nel suo vestito blu, bordato di intrecci color acquamarina; i figli giocavano per terra con dei cubi di legno e con delle figurine intagliate.
Bogdan scandagliò il guerriero venuto da occidente, portandosi, nel contempo, alle labbra una tazza di birra.
Caprone sedeva con aria annoiata e un pugno a sostenere il mento.
«Allora, questo bastone, quant’è importante per quei due?» domandò, soppesando il manufatto di legno.
Bogdan mosse gli occhi verso Kuznya, come per autorizzarlo a parlare. «Infinitamente,» esordì il vecchio, «senza quello non potrebbero abbandonare i loro corpi e trasferirsi nella carne delle vittime.»
«Quindi se noi lo bruciamo… »
«Dev’essere distrutto tramite un rituale preciso.»
«E quale sarebbe?»
Il tono di Kuznya si fece cospiratorio: «Dev’essere benedetto da un vescovo, quindi immerso nel mestruo di una vergine e poi conficcato, tramite la testa del Gramo, nel cuore di un pijavica. Solo in questo modo la grande energia magica accumulata nel sangue dello stregone, può fluire e corrodere il legno!»
Caprone fece un mezzo sorriso: «E dove la troviamo una vergine? In questo buco non ho visto neanche una donna, figurarsi una vergine!»
«Le abbiamo tenute nascoste.» ammise Bogdan. Il corvaziano ghignò: «Avevate paura che io… »
«Non tu, ma i mercenari o i soldati di Gorodsz.»
«Ma c’è una vergine fra le vostre donne?»
Il nobile fece spallucce: «Non certo mia madre, che ha settanta inverni, o le pie donne che pregano ogni sera davanti all’icona di San Boris.»
«Non ci sono donne giovani, qui?» domandò Caprone.
Kuznya scosse la testa: «Le donne di Pogost hanno tutte più di trenta inverni.»
«E spero non vogliate prendere in considerazione le bambine.» aggiunse, preoccupato, Bogdan.
«Ma no,» fece Caprone, «quelle non sanguinano.»
«E comunque non abbiamo nemmeno un vescovo.» disse il nobile.
«Bah,» Caprone fece spallucce, «sono convinto che il barbagianni qui può farne benissimo le veci.» disse, indicando Kuznya. Il chierico scosse la testa, ignorando l’insulto.
«Ad ogni modo, rimane la tua questione.» intervenne Bogdan, guardando l’uomo di Corvazia.
«E sarebbe?» fece questi.
Il nobile, sollevando la tazza, la puntò sullo straniero: «Hai combattuto per Gorodsz e sei dalla parte di Czarnowia, contro il popolo libero di Roccia del Drago.»
«Ma smettila!» fece Caprone, «Sei talmente pieno di boria da esplodere!» il corvaziano si levò in piedi e mise le mani sul tavolo, «Avevo bevuto tanta di quell’acquavite da non ricordarmi come e perché fossi su quel campo di battaglia,» disse, «e vieni a raccontarmi stronzate sul popolo di Roccia del Drago? E poi sono io ad avere attaccati al culo due stregoni pervertiti che vogliono fregarsi il mio corpo!»
«Non ha torto.» disse il chierico.
«E allora, che proponete di fare?» domandò Bogdan. Caprone sorrise, poi vuotò d’un colpo la tazza di birra, facendosela scorrere sulla tunica. Un rutto, diede nuovo impulso al conclave.
«Tu pensa a fare il vescovo, che io penso al resto.» disse a Kuznya.
Il chierico lo guardò, da sotto le sopracciglia nere.

La casa di Iulia era una delle più vecchie a Pogost e aveva ancora la struttura delle abitazioni che si usavano negli insediamenti rurali di Svervegia, sul al nord. C’erano un’unica porta e una finestra alta, sotto l’incrocio delle travi spioventi. Tuttavia, a differenza dei cupi svervegesi, gli strzelev abbellivano i muri con colori pastello e incisioni elaborate per dare quel senso di calore che si trova in ogni villaggio al di qua del fiume Poloty.
La sera in cui Caprone si presentò all’uscio, questo era aperto e Iulia stava facendo rientrare le capre. Un uomo, dai capelli lunghi e gli zigomi alti, gli barcollò incontro, appeso a un bastone. Le brache, nella parte sinistra, pendevano flosce, là dove avrebbe dovuto esserci la gamba.
Caprone venne assalito da un pollo rossiccio, che iniziò a beccargli il cuoio degli stivali. Fece per sferrargli un calcio e quello si mosse, chiocciando.
Davanti alla porta, Yev osò un ringhio poco convincente.
«Sei lo straniero?» chiese l’uomo col bastone. Il corvaziano annuì. «Oh!» Iulia lanciò un trillo, non appena s’accorse di Caprone. «Devi fare una cosa per me.» le disse lui, tirando fuori dalla cintura la verga dello Spirito Gramo.
«Mia figlia… fare una cosa per te?» intervenne l’invalido. Caprone gli diede uno sguardo sonnacchioso.
«Aha,» sbuffò, «dovrebbe infilarsi questo nella sua cosina.»
Caprone non aveva mai avuto tatto.

«Boje moje! Come ti permetti?» urlò il padre. «Boje!» giunse il grido della madre, da dentro casa.
Una capra belò. Il pollo riprese a tormentare gli stivali di Caprone.
Yev, avendo fatto il suo dovere di guardia, cominciò a leccarsi le palle.
«Non sono un pervertito, è che due stregoni vogliono uccidermi e ho bisogno di intingere il bastone dello Spirito Gramo nella, come la chiamate?, nella “cosina” della ragazza, qui, e poi farlo benedire dal barbagianni del tempio, e poi… »
«Vattene, prima che ti uccida!» urlò il padre. Caprone gli diede uno sguardo: «Stavo spiegando.»
«Vattene e basta!»
«Ma è una cosa importante.» obiettò il corvaziano. Iulia gli diede uno sguardo, poi fece un mezzo sorriso: «Importante come una cosa da cavaliere?»
«Sì!» fece Caprone, con un largo sorriso sbilenco, «Te l’ho detto che sono un cavaliere, no? E fanno dannatissime cose da cavaliere, cazzo!»
«Allora sarò la tua principessa?»
«Certo, basta che t’infili ’sto bastone sul per la… »
«Da’ qua.» fece Iulia, saltellando verso il guerriero e strappandogli la verga di mano. «Signore,» intervenne la madre, una donna giunonica, i cui seni parevano sbordare dal vestito, «vattene e lascia in pace la bambina.»
«Non le voglio fare nulla, mi serve solo un po’ di sangue.»
«Vattene!» urlò il padre, barcollando malamente sul bastone. Il corvaziano gli diede appena uno sguardo: «Sennò cosa mi fai? Sbavi, barcolli e mi cadi lungo disteso ai piedi?»
«Non sei il benvenuto qui, cane di Czarnowia!» ruggì l’uomo. «Smettila.» disse calmo Caprone, «Mi fa più paura questo pollo di te.»
«Comunque, non voglio darvi fastidio: portatemi la verga del Grano, o come cazzo si chiama, al tempio del barbagianni, prima che la luna sia alta.»
Iulia lo guardò andar via. L’ampia schiena colmava tutto il suo campo visivo e affascinava la bimba, ricordandogli quella di uno dei fratelli, Ilya, nel giorno della sua partenza per la guerra. Sembrava un pesce, con quelle scaglie metalliche d’armatura che gli coprivano le spalle. Iulia ricordava di aver pregato le icone sul suo scudo, baciandole e augurando a Ilya di coprirsi di gloria. Non era forse la meta d’ogni cavaliere?
Ilya s’era sì coperto di gloria, ma ci aveva rimesso la giovane vita. A Iulia parve di rivederselo innanzi, mentre lo portavano a casa, su un asino rognoso. Aveva la faccia bianca, come il ventre di una rana, e gonfia.
Pensò al cavaliere; stava cercando la gloria? Sarebbe tornato a Pogost sulla groppa di un asino, morto?
Stringendo le labbra, evitò la madre e si chiuse dietro le tende di pelli che segnavano la sua “stanza”.
Sì tirò su la gonna e fece quello che andava fatto.

Caprone ebbe il talismano all’incirca a mezzanotte e proprio dalle mani di Iulia. Lei glielo diede mantenendo un’aria seria; segreta, in un antro del suo cuore, c’era la speranza di non dover più pascolare capre.
Il corvaziano sembrava talmente preso dall’evento, da non dar peso alle successive domande. Iulia gli domandò se stesse per uccidere uno stregone grazie al suo contributo – Caprone rispose di sì – e se dopo, lui, l’avrebbe sposata e trattata come una principessa.
«Porca puttana, sì!» fece l’uomo, tutto gongolante, preso dallo studiare il bastone. «Ora dallo a me.» disse Kuznya, uscendo dalle ombre del tempio. Caprone lo guardò, poi, sorridendo, fece il gesto d’infilargli la verga nel didietro: «Dai, vecchia troia da granaio, fammi questa benedizione.»
Il chierico gliela strappò di mano: «Madre santa!» disse, «Sei proprio un imbecille.»
Caprone ruttò.
«Ora lasciami solo.» disse Kuznya, «Mi serve concentrazione: parlerò con San Boris.»
«Parla anche col vecchio culo di tua nonna!» ribatté il corvaziano, «Io faccio un giro… non ci sono puttane qui?»

Caprone vagò per qualche ora nella calma di Pogost, fino a che, stanco, si sedette ai piedi dell’edicola di San Boris, con una tazza d’acquavite, latte acido e cervogia al cumino. Dopo averne bevuto metà, bestemmiò Zorgon, il dio dalla testa di narvalo, ed ebbe un conato di vomito.
Sentì i passi di Kuznya e lo vide, attraverso lo sguardo annebbiato, alto come una giovane betulla, con la barba che si mischiava alla terra cruda.
«Siedi qui, barbagianni, e fammi compagnia.» disse il corvaziano. «Ho compiuto l’incantesimo.» esordì l’altro, sedendosi. «Che scricchiolio d’ossa, ragazzo!» fece Caprone, porgendogli la tazza d’alcol, «Io dico che non arrivi alla fine.»
«È stato difficile, ma credo d’esserci riuscito.» disse il chierico, facendo finta di niente.
Caprone ruttò.
«Toglimi una curiosità,» disse, prima di ruttare di nuovo, «perché quegli stregoni, quei vampiri, odiano il vostro principe?»
Kuznya si lisciò i baffi: «Althaea lo odia: era la seconda moglie del padre di Ivan.»
Caprone bestemmiò.
Cercando di ignorarlo, il chierico riprese: «Credo praticasse già la stregoneria quando era a palazzo; ad ogni modo, su insistenze di Ivan, il padre la cacciò.
«All’epoca lei conosceva già Kalydan, un ambasciatore straniero a corte: figlio di una svervegia e di un conte del sud. Beh, si misero assieme, accomunati dall’amore per la magia. Vagarono e studiarono, studiarono e vagarono, cercando un modo per accrescere i propri poteri, sino a quando, tra le mura di un’antica piramide in granito nero, nelle gelide terre di Svervegia, rinvennero questo bastone maledetto e il segreto della trasmigrazione dell’anima.
«Allora, decisero di vendicarsi di Ivan e del vecchio principe… o meglio, lo decise Althaea e Kalydan la seguì.» il prete terminò con voce da vecchia gallina. «Dio, dio mio,» aggiunse, «che tempi grami, questi!»
Sollevò gli occhi ai turbini dei primi fiocchi di neve, e s’accorse che Caprone dormiva con un filo di bava sul mento.
«Prego per te, figlio.» disse.

All’alba del pallido sole, due cavalieri e quattro fanti si radunarono attorno all’edicola di San Boris, prima del rintocco delle campane.
Caprone montava una specie di pony lanoso e vestiva alla maniera degli strzelev, con l’elmo d’acciaio appuntito e un’armatura di cuoio e anelli che gli cadeva sulle spalle.
Kuznya gli aveva assicurato che la verga, trattata con sangue e acqua consacrata, si sarebbe spinta giù fino al cuore degli stregoni come una lama calda nella neve; l’idea era quella di ferirli, tenendoli però a debita distanza. Caprone aveva preso una vecchia lancia di Bogdan e ne aveva tolto la punta, sostituendola con la verga dello Spirito Gramo. S’era portato anche una spada, prestatagli da Kuznya, e un arco con frecce, nel caso fosse stato a corto di cibo e avesse dovuto cacciare selvaggina.
Bogdan era armato pressoché alla stessa maniera e aveva una grande icona di San Boris ricamata sulla cotta.
I fanti, uomini del nobile, possedevano archi, giavellotti e cappelli di pelliccia.
Furono salutati, benedetti e partirono, caracollando sui pony e trascinandosi dietro un mulo.
Ad un certo punto, Caprone fermò la propria cavalcatura e volse lo sguardo al villaggio. Pogost sembrava un dipinto fatto di neve, di icone e uomini duri come betulle.
Iulia lo guardava, incerta. Aveva la manina sul palo dell’edicola e l’altra stretta al bastone per le capre.
La madre e il padre le avevano messo una mano sulla spalla; accanto a loro c’era Kuznya, con la gran barba nera.
Caprone si trovò a ricambiare lo sguardo, stralunato dal fatto che gli occhi di una bambina potessero esprimere sentimenti da donna. Quella mezza tacca lo amava? Il mondo era talmente sottosopra dunque?
Puntò la lancia nella sua direzione e disse, quasi per scherzo: «Preparami da mangiare, donna. Torno per cena.»
La bambina s’illuminò e Caprone diede un calcio ai fianchi del pony, desiderando non rivedere più quel luogo, i suoi abitanti e la stramaledetta edicola di San Boris.

Si agitavano bizzarri sentimenti nel suo stomaco quando la colonna fu presa da un vento gelido, talmente freddo da ghiacciare le ossa e coprire di brina i volti degli uomini.
Avevano lasciato gli ultimi boschi di pini e si erano spinti oltre le mura lignee, verso una delle tante brecce.
Il vento si preannunciò in un turbine di fiocchi d’una sfumatura azzurro acciaio che sembravano danzare al ritmo del flauto degli spiriti settentrionali, felici di poter giocare al gatto col topo con quel magro campione d’umanità che varcava la soglia delle loro terre.
«È il Buran!» ululò il nobile, cercando di farsi sentire sopra i venti.
Il Buran, il soffio dell’Est; una corrente così gelida da far precipitare la temperatura a meno venti, venticinque gradi, nel giro di pochi minuti. Qualcosa di paragonabile solo all’alito di certi draghi del freddo.
«Per San Boris!» fece il nobile.
Il cavallo di Caprone scartò. «Dobbiamo toglierci di qui!» disse lui.
«Per andare dove?» domandò Bogdan. Erano su una piana aperta, senza l’ombra d’un albero.
A Ovest s’alzavano, timidi, i contrafforti delle colline di Gorodsz, ultimi lembi czarnowiani.
«Ai colli!» fece l’uomo di Corvazia. «Non ci arriveremo mai.» rispose Bogdan.
«Rimani pure lì a morire! Io sono troppo attaccato alla vita e così i tuoi uomini.»
«Che diavolo dici?»
«Forse dovremmo andare alle colline, nobile Bogdan.» azzardò uno dei fanti. «Questo vento è innaturale, adesso.» gridò un altro. Un terzo di segnò.
«Sono gli spiriti! Li hanno disturbati gli stregoni.» fece il primo.
«Piantatela e state vicino al mulo.» disse il nobile. D’un tratto, vibrò una risata vasta e fredda; sorse dalla voce del vento e le mise le briglie.
«I pijavica!» urlò uno dei fanti, «Vogliono berci l’anima.»
«Madre santa!» fece un altro, seguendo Caprone come un animale domestico. Bogdan grugnì, poi scese da cavallo, e snudò la grande spada a due tagli.
«Se sono qui, li ammazzo con le mie mani.» disse.
Caprone decise di non sprecare fiato, ma spronò il cavallo verso la sagoma dei colli. Fu preso da un accesso di tosse e cominciò a sputare e soffiare col naso. Dopo qualche minuto, il muco s’era solidificato sul viso come una specie di maschera bizzarra.
«Tornate qui!» sentì urlare il nobile. Caprone si girò e vide tre dei quattro fanti seguirlo, portandosi dietro il mulo.
Bogdan alzò la spada, mentre la barba bionda gli veniva pettinata in due dal vento. Il corvaziano lo sentì urlare e vide una mano bianca uscire dal turbine e afferrarlo alla gola.
La mano aveva un braccio e il braccio era attaccato a qualcosa di molle che, litri di sangue prima, doveva essere stato un giovane elfo. Reggeva una spada nell’altro pugno e con quella sembrava voler colpire il nobile.
A quella vista, fra i membri del gruppo si diffuse il panico.
«I morti!» urlò uno. Un secondo cadde in ginocchio, lasciò la lancia e prese a segnarsi.
Caprone grugnì. Era un mercenario, aveva viaggiato in molti paesi e quei cadaveri che camminavano non gli parvero nuovi. Li aveva visti fra le colonne spezzate di Thalassa, evocati da un negromante dai ridicoli baffi lunghi un palmo. Non erano vampiri, non contagiavano col morso: sembravano marionette di carne, esseri senza paura e con una resistenza tremenda.
Il corvaziano ebbe a notare, però, che questi erano maledettamente veloci e conservavano un barlume d’intelligenza superiore rispetto a quella inesistente del comune cadavere animato.
Sentì un fischio, come di chi provi a respirare avendo la gola occlusa, e vide la faccia bianca, simile a una luna malvagia, di Coclite, uscire dal vortice di neve. Quella bestia chiuse le dita fredde attorno alle redini e strattonò forte. Caprone perdette l’equilibrio e finì giù di sella, mentre il morto colpiva il pony inerme.
Non mi faranno uscire di qui, pensò l’uomo di Corvazia, mentre giaceva supino, cercando di arrivare alla lancia. Gli era caduta di mano e stava distesa sul ghiaccio a qualche passo di distanza.
Con la coda dell’occhio, scorse altri cadaveri avanzare su piedi malfermi, avvolti in armature che non li avevano protetti dalle spade dei nemici. Ribollivano, forse, di rabbia infinita, anelando a vuoto, un ritorno al mondo di luce.
Caprone urlò, poi riuscì a spingersi verso la lancia e ad afferrarne il manico. Gli bastò spingerla verso l’alto, perché incontrasse il volto molle di Coclite e gli sfondasse un’orbita, per raggiungere il cervello.
La creatura divenne pesante e cadde, inanimata, lungo l’asta di legno. Caprone non riuscì a svellerla e si trovò indifeso, alla misericordia dei mostri.
Grugnì, sentendo il manico della spada premergli contro il fianco. La snudò, la sollevò sul capo: la lama scintillava come il rostro di un falcone che si getta sulla preda.
Vide arrampicarsi, lungo la schiena di Coclite, un piccolo gnomo robusto, dalle mani lunghe e sottili. Voleva raggiungere la verga magica, uscita dalla nuca del morto.
Caprone lo svelse con un calcio e fece mulinare la spada. Il cranio dell’umanoide si aprì in due, senza che per questo egli rinunciasse ai suoi propositi malvagi.
«Aiutami!» disse all’unico degli uomini rimasti a portata di voce, «Dobbiamo estrarre il bastone magico!»
Diede un colpo di spada alle creature morte, poi artigliò il legno della verga. La mano dell’altro uomo si chiuse poco sotto la sua: entrambi presero a tirare.
Frattanto, dalla gola del Buran, sorse l’ombra di un bambino: era scalza e vestita di stracci; sorrideva per mezzo d’una bocca larghissima.
Caprone lasciò andare la verga dello Spirito Gramo e fece un passo; il pugno gli sudava nel guanto e rivoli gelidi gli correvano sotto l’armatura di lamelle d’acciaio.
«Che cazzo ridi?» disse al bambino. Quello si rabbuiò, come se gli avessero pulito il sorriso con un asciugamano. Puntando un dito contro l’uomo, disse: «Tu!»
«Io!» gli fece il verso Caprone, respingendo l’attacco di un’altra creatura morta.
Il bambino sollevò le braccia, come fosse il direttore d’orchestra del vento. Soffi ancor più gelidi minacciarono di staccare il corvaziano da terra e farlo ingoiare all’aria.
Caprone si girò, fu un momento, e vide che l’uomo di Bogdan aveva staccato la verga dall’asta della lancia. Un passo indietro, la mano tesa: sentì il legno premergli contro il cuoio del guanto.
Il bambino gli si gettò contro.
«Kalydan!» urlò Caprone, allungando il braccio della spada. La sentì penetrare nelle carni di quel corpo rubato e dopo un attimo si vide il muso di Kalydan a un palmo dal braccio. Di nuovo, il bimbo, sorrideva.
Mani morte gli graffiarono i gambali; altre lo fecero cadere.
La spada era un ricordo e Kalydan maledettamente vicino. Urlò, poi gl’immerse il bastone magico nel petto, sperando di centrare il cuore.
Sentì un freddo talmente esteso da lasciargli sulla pelle sensazioni opposte. Lasciò cadere la mano al fianco, lasciò che la terra gli facesse da cuscino.
Ancor lucido, colse l’istante in cui la verga parve divenire bianca e poi sfarinarsi come un castello di sabbia. Nelle orecchie gli esplose l’urlo del pijavica, di quello stregone che rubava il corpo ai vivi, imbrogliando la sorte; si portò le mani alla testa e inspirò l’aria fredda in un grido d’aiuto.
I morti tornarono morti; Caprone sentì sotto le ascelle le braccia dell’uomo di Bogdan, quello che aveva estratto il bastone. «Coraggio signore, coraggio.» riuscì a dire questi, mentre conduceva a forza il corvaziano verso il riparo offerto dal mulo.
Caprone si riscosse e si alzò, aiutato dall’uomo.
Il Buran sembrava calmarsi rapidamente e, nei buchi del suo mantello, apparvero piccoli tumuli di neve, dove i morti erano caduti la seconda volta. Doveva essercene uno anche per Bogdan e per gli altri lancieri. Montagnole più grosse indicavano le tombe dei pony.
Caprone ghermì l’arco da caccia e si mise la faretra alla cintura. Voleva andarsene da quel posto, voleva tornare alle lande civilizzate di Czarnowia, separandosi per sempre da quella desolazione polare.
Sganciando l’elmo, lo assicurò al basto del mulo, poi aprì i pacchi accuratamente chiusi con strisce di cuoio e trasse delle provviste di cibo.
«Prendi.» disse all’uomo. Quello lo guardò senza capire.
«Io vado a Ovest.» fece Caprone, «E tu, torna al villaggio. Ti servirà del cibo e dell’acquavite.» aggiunse, mettendogli in mano un otre.
«Mio signore… » disse l’uomo.
Il corvaziano non rispose nulla, ma si mise in ginocchio presso uno dei tumuli. «Aiutami ad estrarla.» disse, afferrando l’impugnatura di una spada. L’uomo annuì e tirò. La lama venne fuori, scintillando come un nuovo sole.
«Le rune sacre… » disse il lanciere, in un mormorio, «… appartiene al vecchio Kuznya.»
«Sì, ed è stata benedetta nel mestruo di qualche santo.» grugnì Caprone, osservandone la lama.
«No, non nel mestruo!» disse l’altro, «E comunque appartiene al chierico.»
«E tu non dirgli niente, al chierico.»
«Ma… mio signore… »
«Non sono il tuo signore, perciò trovatene un altro e a quelli di Pogost di’ che giaccio sotto uno dei tumuli come Bogdan.»
Senza aggiungere altro, Caprone mise la spada nel fodero, inanellò le dita attorno alla cavezza del mulo e si allontanò, seguendo il cammino per i colli d’Occidente.
Il paesano lo vide diventare più piccolo, sempre più piccolo, fino a ché un colpo di vento sembrò spazzarlo via dalla terra.


FINE

2 commenti:

  1. Metto sul blog per la prima volta uno dei racconti, scritti da me tempo fa, in cui il protagonista è Caprone di Corvazia, inventato da me sulla base vaga - oddio, vaga - di una persona ben reale.

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  2. Beh direi che è molto bello, un po' lunghetto e qualcosa mi lascia indifferente ma nell'insieme è proprio ben fatto :) . Molto bravo!

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