martedì 13 dicembre 2016

Zombi e porcellini d'india - racconto


C’era riuscito! Prese l’ipodermica e si iniettò il vaccino. Ebbe un capogiro e si sedette. Davanti a lui, i porcellini d’india lo guardavano con i loro occhi luccicanti di giaietto. Lui tirò fuori il cellulare e diede uno sguardo all’orologio. Vide la scritta “rete assente” e sospirò.

Poi rovesciò gli occhi all’indietro e cadde.

Le grida dei porcellini e un ringhio lo svegliarono. Aprì gli occhi e si trovò davanti una scena raccapricciante: la dottoressa Di Lillo stava leccando le viscere di un porcellino d’india dalla pelle, come se fosse un caco e la pelle fosse la buccia, mentre ne teneva in mano un altro, che si agitava e squittiva.


La Di Lillo non era mai stata una bellezza, col suo naso a becco e gli occhiali dalla montatura pesante (c’era da dire che aveva due tette enormi) ma adesso era un Picasso di sangue, saliva e interiora di porcellino, un Picasso dal naso rotto e dal labbro superiore strappato. Sì, era come se qualcuno l’avesse sbucciata in quel punto, come se la sua pelle fosse stata la carta di un pacco regalo che ora pendeva in lembi gocciolanti di chissà che schifezza.

Lui si alzò e la Di Lillo fece scattare il collo. I suoi occhi morti lo guardarono e la sua mano sinistra strinse ancora di più il porcellino vivo, facendolo squittire. Lui, pur spaventato a morte, corrugò la fronte.

«Non mi attacchi?» mormorò. Ricevette un ringhio in risposta. La Di Lillo fece un passo indietro e riportò l’attenzione sul porcellino squartato, leccandone la pelle. Finito con esso, avrebbe mangiato anche quello vivo.

L’uomo guardò negli occhi il porcellino, che si agitava e squittiva. Guardò le sue zampine rosa, con dita così simili a quelle umane da fare tenerezza, poi prese fiato e si avvicinò alla Di Lillo. Lei girò la testa e ringhiò, mentre lui chiudeva la mano sinistra a pugno, un dito per volta, e prendeva coraggio. Non le chiese scusa, non disse niente: le sparò un pugno in faccia e la mandò a rovesciarsi contro un tavolino, addosso ai becchi di Bunsen. Il porcellino volò e finì a terra, in mezzo a una pozza di sangue.

L’uomo guardò le gabbie, piegate e aperte, degli animaletti, guardò i suoi preziosi strumenti buttati a terra, i microscopi elettronici, la centrifuga e… il suo braccio. Il sinistro, quello con cui aveva tirato il pugno: il camice era stracciato, in quel punto, la camicia in jeans era intrisa di sangue. La ferita gli pulsava di un dolore sordo. Mentre il porcellino se ne scappava in giro, l’uomo raccolse delle forbici e tagliò camice e tessuto jeans. Un orologio di pelle gli mancava dall’avambraccio e sotto di esso c’era un pezzo di carne sanguinolento e bluastro.

La Di Lillo si agitò e ringhiò, finché non riuscì ad alzarsi. Con la testa inclinata e la bava alla bocca, gli lanciò un ringhio. Lui non se ne curò, impegnato a guardarsi la ferita. Gli venne un conato, si piegò e sparse il tramezzino al tonno per terra. Sputò e imprecò. Prese un fazzoletto dalla tasca e si asciugò la bocca. La Di Lillo gli ringhiò a un centimetro dalla faccia; lui non fece altro che scostarla. Recuperò la sedia, la tirò su e si sedette. Sentì un rumore e si girò: il porcellino era scivolato sulla pozza di sangue. La Di Lillo se ne accorse e si fiondò per prenderlo. L’uomo le fece lo sgambetto e quella cadde a piombo, rovinando sui frammenti metallici di un becco di Bunsen. Il bruciatore le bucò un occhio come fosse tuorlo d’uovo, s’infilò nell’orbita, bucò il cervello e uscì dall’altra parte, strappando la pelle come fosse cotica croccante. E la Di Lillo smise di agitarsi; il suo peso tirò giù il tavolino e scardinò il bruciatore dalla base, con un fracasso del diavolo.

L’uomo vide le zampe del porcellino sgusciare sotto il mobile in acciaio della centrifuga.

«Ma cazzo! Vieni qua!» gli disse, alzandosi e piegandosi sul mobile. Dietro di lui sentì urla e ringhi. Si girò. Il dottor Càzzaro e l’assistente Guida se ne stavano in piedi a ringhiare, assieme al filippino Mel, delle pulizie. L’uomo li guardò, poi tornò a fissare l’attenzione sotto il mobile.

«Anche voi a cercare il porcellino?» chiese.

«… trasmettiamo su tutte le frequenze… se c’è qualcuno in ascolto… rispondete…»

L’uomo sgranò gli occhi. In quel momento, il porcellino apparve da sotto il mobile e lo guardò, scrollandosi i baffi. Rapidissimo, lui lo prese, quello squittì, ma lui se lo ficcò nella tasca del camice. Càzzaro, Guida e Mel si animarono e gli vennero incontro; man mano che si avvicinavano, la voce alla radio si faceva più forte, tanto che lui ne individuò la sorgente: era la radio di Mel.

Il dottor Càzzaro («L’accento va sulla prima “a”, mi raccomando!» diceva sempre ai colleghi) allungò una mano con quattro dita (il pollice era stato staccato da un morso). L’uomo lo scostò e si avvicinò a Mel. Quello gli ringhiò. L’uomo gli staccò la radio dalla cintura e se l’avvicinò alla bocca. Mel cercò di azzannare il porcellino.

«E sta’ buono!» disse l’uomo, mettendogli una mano sulla fronte e spingendolo via. Si girò di schiena e i tre gli furono addosso, cominciando a graffiarlo e strattonarlo. Col tacco, pestò il piede a uno (il dottor Càzzaro), poi si girò e spinse via Guida. Mel, nel tentativo di prendere il porcellino, gli affondò i denti nel bicipite. Prima che potesse staccargli un pezzo di carne, lui lo picchiò sulla testa con la radio. Guida cercò di artigliarlo, ma lui lo allontanò con un calcio. Mel cadde, con il sangue che gli usciva dalla tempia. L’uomo si portò la radio alla bocca e schiacciò un tasto.

«Mi sentite?» disse.

«Forte e chiaro. Chi è e dove si trova?» disse la voce.

«Dottor Sam Rue, sono a Milano, al reparto neurologico del CMI.»

«Al centro malattie infettive?»

«Sì, esatto.»

«Com’è la situazione? Ci sono zombi?»

«Uh… zombi?»

«Ha visto persone mostrare aggressività estrema e attaccarne altre?»

«Sì, sì, capisco cosa vuole dire. Qui è pieno, pieno di persone del genere. I miei colleghi mi hanno appena attaccato.»

«È ferito? L’hanno morsa?»

«Uhm, no… cioè, sì… attenda un attimo… e basta con ‘sto porcellino!» Sam prese il dottor Càzzaro per il collo e lo scaraventò addosso alla centrifuga.

«Ci sono problemi?» chiese la voce.

«Uhm, no, no.»

«Quanto è passato?»

«Come?»

«L’hanno morsa, ha detto. Quanto tempo è passato?»

Sam guardò il cellulare e scosse la testa.

«Non so… una, due ore» disse.

«Okay, ascolti cosa deve fare: deve raggiungere il tetto del palazzo.»

«Come?»

«Il tetto del palazzo. Verremo a prenderla in elicottero.»

Sam stava per replicare, quando gli sorse un dubbio. Ma chi era questa gente? Governo, forse; militari?

«Saremo lì fra quindici minuti. Si porti dietro la radio» disse la voce, prima di chiudere il canale. Sam ficcò la radio nella tasca dei jeans. Càzzaro gli graffiò la faccia, per arrivare al porcellino, e lui lo spinse via.

Cominciò a guardare fra gli strumenti, mormorando qualcosa.

«Una siringa… mi serve una siringa… e levatevi!» Spinse via Mel (che perdeva ancora sangue dalla tempia) e fece cadere becher graduati, che si schiantarono a terra. Vide una siringa proprio lì. Era una di quelle da prelievo, col serbatoio bello grande e l’ago largo. La prese, ma si tagliò con i pezzi di vetro. Mel gli finì addosso, sulla schiena e gli morse la nuca, per arrivare al porcellino. Sam si alzò e se lo scrollò di dosso, si girò. Le porte erano spalancate e in corridoio sostava un quintetto di dottori infetti. Sam prese la sedia e chiuse le porte, schiacciando il naso a uno dei dottori. Incastrò la sedia sotto la maniglia, poi andò al tastierino numerico e provò la combinazione per chiuderla del tutto. 5-7-5-3-9-0. Schiacciò “enter”, ma la porta non si chiuse. I tasselli a espansione fremettero quando qualcosa esplose giù, nelle fondamenta del palazzo.  

«Madonna! Le caldaie!» disse. «La sedia basterà» aggiunse.

Mel gli si buttò addosso, ringhiando, ma lui lo spinse via; fu il turno di Guida, che gli impattò contro e lo scaraventò contro un banco di lavoro pieno di provette. Sam sbatté la testa e la vista gli si annebbiò. Si riprese proprio mentre Guida gli strappava il taschino e cercava di afferrare il porcellino d’india. Esso cadde, si appiattì a terra, prima di svirgolare e catapultarsi sotto la centrifuga.

«Eh cazzo!» sbottò Sam. Guida, perso interesse per lui, si girò e caricò la centrifuga. Tirò una testata così forte, che Sam sentì le ossa del cranio cedere. Il dottore rimase lì, con la testa incastrata nei frammenti d’acciaio e polietilene del macchinario. I liquidi delle provette gli colarono sulla nuca e sul camice sporco di sangue.

Disgustato, Sam si spostò verso la siringa, a cui tolse il cappuccio. Cercò e trovò un laccio emostatico, se lo mise sotto il bicipite sinistro, stringendolo bene. Con la siringa in bocca, diede due colpi all’avambraccio e fece apparire le vene. Non erano blu, come si sarebbe aspettato, ma di uno strano colore grigio: sembrava quasi che avesse delle corde di chitarra sotto la pelle.

Mentre Càzzaro e il filippino si scagliavano contro la centrifuga, Sam si ficcò l’ago in vena e tirò lo stantuffo. Quando il serbatoio fu pieno, tolse l’ago e slacciò l’emostatico. Sganciato l’ago, cercò una provetta, la trovò e vi trasfuse il proprio sangue, poi la chiuse con un tappo.

Rimase affascinato dal colore del liquido: grigio. Era come se tutto, dal plasma alle piastrine, si fosse dato al bianco e nero. Lo distrasse uno schianto alla porta. Si girò e vide gli infetti premere contro il vetro, guardando la centrifuga. Sam roteò gli occhi, poi, finalmente si risolse ad agire: mise la provetta nell’unica tasca buona, prese le forbici e si avvicinò a Càzzaro; con una mano gli afferrò i pochi capelli e, con l’altra, gli appoggiò le forbici alla tempia. Poi premette. Fu come bucare un grosso uovo di cioccolato, un uovo ripieno di petti di pollo. La sensazione fu quella. Ebbe il risultato di far bloccare Càzzaro di colpo e di farlo cadere a terra. totalmente disinteressato alla cosa, Mel ficcò una mano sotto la centrifuga e spazzò il pavimento, per cercare il porcellino. Sam lo allontanò e quello si girò verso di lui e fece per dargli un morso; Sam gli tenne la gola, poi gli appoggiò le forbici su un occhio e, voltando la testa, spinse. Tuorlo d’uovo e carne trita, la mano sentì questo. E Mel cadde, senza pensare più al porcellino.

Sam era esausto e sporco di sangue e chissà cos’altro. si sedette contro la scrivania e guardò l’animaletto uscire dal nascondiglio.

«Tutto ‘sto casino per te» gli disse. Quello squittì e agitò i baffi. Ora Sam doveva solo cercare il suo portatile; dentro c’erano i log degli esperimenti che non era riuscito a caricare sul cloud. Con delicatezza, afferrò il porcellino; sentì il pancino peloso contro il pollice. Mise l’animaletto nel taschino buono e trasferì la provetta in quello posteriore dei jeans per evitare “incidenti”. Prese il suo zaino, ci ficcò dentro il portatile, chiuse tutto e se lo mise in spalla. Guardò il cellulare.

«Otto minuti» disse. Staccò le forbici dal cranio di Mel e si avvicinò alla porta. Gli infetti diedero testate contro il vetro; Sam li guardò e fece un sospiro, poi tolse la sedia.

Gli infetti gli si scagliarono addosso e lui affondò le forbici. Quei dottori li conosceva, aveva lavorato con ognuno di loro: ucciderli non fu semplice.

Mi dispiace, ragazzi, pensò, mentre dalla sua bocca usciva un «Aaanff» per lo sforzo. Uno lo morse al braccio, ma lui lo abbatté; uno lo morse alla gamba, uno gli lasciò i denti sul cuoio della scarpa, uno gli morse il pollice fino all’osso e tutti per arrivare al porcellino d’india.

Lui scattò verso la rampa antincendio, aprì la tagliafuoco e cominciò a salire. Dall’alto sentì dei ringhi echeggiare per la tromba delle scale.

Gli venne incontro una donna in camice. Le mancavano il naso, una guancia e un orecchio e i capelli erano tutti aggrovigliati nel sangue. Sam non riuscì a non provare pietà, neanche quando si spostò di lato e le fece lo sgambetto, lanciandola giù dalle scale.

Riuscì a raggiungere il piano successivo e rallentò. Era strano: una volta si sarebbe dovuto fermare a riprendere fiato, ma adesso il suo corpo sembrava rispondere bene agli sforzi. Continuò a salire e scoprì di poterlo fare agilmente, addirittura due gradini alla volta e di corsa.

Fu in questo stato di stupefatta trance che arrivò sul tetto. Spalancò la porta e si ritrovò sul terrazzo dalle guglie ottocentesche.

Vide il cielo limpido e senza una nuvola. Era stato troppo tempo in laboratorio, nelle ultime settimane.

Allora gli venne un dubbio. Adagio, con due dita, si tastò i battiti: non ne sentì. Tastò meglio: niente. Provò a mettersi una mano sul cuore: niente. Il suo corpo era una cassa armonica senza rumori, senza note. Si tolse la provetta dalla tasca e la guardò: lì dentro non c’era una cura, perché ciò che aveva inventato era solo una protezione. Sam Rue era uno zombi: l’avevano morso e al morso non c’è scampo. Era morto e risorto ma, grazie a quel siero, aveva conservato tutte le funzioni cerebrali. Sapeva già cos’avrebbero trovato i neurologi, esaminandolo: una sottile pellicola organica che avvolgeva il cervello, impedendo all’infezione di raggiungerlo. A cosa sarebbe servito il suo sangue? Si sporse e aprì la mano.

Mentre lasciava cadere la provetta, guardò l’orizzonte. Da lontano arrivava un elicottero. Sam guardò l’orologio: erano passati quindici minuti precisi.

«Dottor Rue, è lì?» gracchiò la radio. Lui la prese e schiacciò il bottone.

«Sono qui, mi vedete?» Agitò un braccio.

«La vediamo… vediamo anche degli infetti…» La voce tacque. Sam si girò e vide alcuni dottori correre verso di lui, mulinando le braccia e ringhiando. Si preparò con le forbici, prima di sbuffare.

«Madonna! Ma quanti sono?»

Dall’elicottero, qualcuno centrò la testa di un dottore, che rovinò al suolo. Un secondo dottore fu beccato all’occhio, un terzo, in fronte; un quarto, alla tempia. Al quinto saltò il braccio, senza che egli rallentasse o se ne preoccupasse. Il sesto fu beccato alla tempia e così il settimo e l’ottavo. Ma il quinto avanzava ancora. Cadde a pochi passi da Sam, con la testa bucata dal cecchino.

«Sta bene, Rue?» gracchiò la radio.

«Sì, sto bene. Grazie.»

«Di niente. Si allontani: atterriamo.»

Sam obbedì e aspettò. Vide l’elicottero inclinarsi, poi ingrandirsi. Gli venne in mente qualcosa. Tirò fuori dalla tasca il porcellino d’india. Quello lo fissò con gli occhietti.

Sam gli sorrise, poi aprì la bocca e vi calò dentro il porcellino. Se lo mangiò con soddisfazione e cacciò un rutto.



fine

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