lunedì 9 gennaio 2012

In cammino - 2

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Due anni dopo l’ora delle “decisioni irrevocabili”, Fausto si trovava a dirigere i tiri di mortaio fra le colline di Menton, accanto a una bellissima villa settecentesca coronata dagli alberi. Era il 22 di Giugno e faceva un caldo secco, mitigato dalla brezza del mare che portava odori tanto simili a quelli della Sicilia, da far sorridere ad occhi chiusi il sergente. C’era il profumo dei limoni, anche se quelli erano striminziti in confronto ai giganti siculi; c’era l’aroma del gelsomino e delle more. Mancavano i fichi d’india e la zagara odorosa che tanto piaceva a quel ventenne alto e biondo come un tedesco.

Fausto guardava la spiaggia sottostante in mano al nemico e dirigeva la squadra con brevi comandi, spesso in dialetto. I componenti del plotone erano tutti siciliani e a molti riusciva difficile parlare un buon italiano. Se il sergente voleva esser sicuro di venire capito, faceva ricorso, senza indugio, al dialetto.
«Statti bonu, Mimmu!» disse Iaco al mulo porta-mortaio: una bestia grande e rossiccia.
«Chi avi, Iachinu?» domandò Fausto, scuotendo la testa e socchiudendo gli occhi azzurri.
«Nenti, si scanta! (si spaventa)» rispose il conduttore, prendendo Mimmo (il mulo) per le briglie.
«Portalu dda rarrieri.» ordinò Fausto, indicando la grande dimora che li ospitava.
Frattanto, i serventi al pezzo lavoravano per sparare l’ennesimo colpo di mortaio: il capo-arma gridava gli ordini, il puntatore calcolava l’alzo e il caricatore e l’artificiere facevano il resto.
Col rumore di un sasso che cade in acqua, la granata venne espulsa dall’affusto e schizzò in alto, ripiegando verso la spiaggia.
L’esplosione fu tremenda e fece spaventare i muli della seconda squadra.
«Caporale!» Fausto chiamò il capo del gruppo munizioni e gli disse di portare via le bestie.
Quando l’ultimo mulo sparì dietro la villa, Menton s’era già avvolta nella coperta della notte e del silenzio. I tiri di mortaio cessarono e così le salve di fucileria.
Si udivano il raglio dei muli e il fruscio sommesso degli alberi. La città era oscurata. Il mare danzava sulla spiaggia in un gioco di luna.
«Sergente!» la voce di Iaco colpì Fausto come una coltellata. Si alzò da terra, dove si era steso e seguì il conduttore. «Cchi fù, Iachinu?» domandò.
«Sta arrivannu nu trienu!» disse l’altro, indicando qualcosa sopra le loro teste.
«Macari hannu cosi di manciari.» commentò Salvo, il capo-arma: il rancio era poco e di qualità pessima, perciò i soldati lo integravano con qualsiasi cosa riuscissero a procurarsi dai locali, taluni pagando, taluni rubando.
Il treno arrivava lento, passando fra le colline di Menton, nascosto dagli alberi e dal buio. Non si capiva che genere di convoglio fosse, ne da dove venisse.
«Amuni’!» ordinò Fausto, agitando la mano. S’inerpicò lungo un pendio, seguito da Iaco, Salvo e Mimmo, il puntatore della squadra.
Iaco aveva lasciato le scarpe alla villa e camminava a piedi scalzi.
«Dda!» disse, indicando i vagoni di ferro.
«Vitti ’a cruci nivura!» esclamò Mimmo. «Treno tedesco è!» aggiunse.
Fausto annuì e tirò fuori la pistola, poi disse: «Iachinu, tu che sei il più veloce… »
Iaco partì con un rumore di fogliame calpestato; Fausto lo vide aggrapparsi al vagone e salire. Lui stesso era ora a tre metri dal treno. Il convoglio si snodava con gemiti d’acciaio sui binari, in una nube di liquido per freni.
Fausto, Mimmo e Salvo gli corsero paralleli finché non videro spuntare di nuovo Iaco: tra le mani reggeva un’enorme cassa di legno.
«Scinni!» gli ordinò il sergente. Iaco buttò la cassa e poi rotolò giù dal treno. Nel contatto, il coperchio di legno si ruppe e il contenuto uscì e si sparpagliò per terra.
Fausto si avvicinò al conduttore e gli chiese: «Comu sii?»
«Bonu!» rispose Iaco, sorridendo. Fausto annuì, poi mise via la pistola ed esaminò la cassa.
Era piena di pacchetti e pacchettini, boccette e bottiglie: medicinali.
«Oddiosantomio!» disse, d’un fiato.
«Ma cchi era? Treno della croce rossa forse?» domandò Mimmo.
Fausto guardò che in giro non ci fosse nessuno.
«Lassamu tuttu cca’ e amuninni.» ordinò.

Più tardi, mentre era da solo nella notte e sentiva l’occasionale muoversi dei muli, Fausto ripensò al treno. Quei medicinali servivano a qualcuno: forse ai feriti francesi, negli ospedali da campo. Lui, sottraendo la cassa, avrebbe fatto arrivare meno cure ai bisognosi e il pensiero lo tormentava. Magari un ragazzo francese sarebbe morto senza le medicine contenute nei pacchetti; un ragazzo come lui, precipitato per caso in guerra. Quel ragazzo aveva una madre come la sua, che sarebbe morta di dolore vedendolo soffrire e spegnersi.
Nel buio, si passò una mano fra i riccioli biondi, da cherubino. Avrebbe voluto rimettere le cose a posto, ma ormai era troppo tardi: il treno della Croce Rossa aveva fatto l’ultima curva ed era scomparso dentro la notte.
Fausto ripensò a quando, in quinta elementare, aveva trovato nel cortile della scuola, una moneta d’oro da venti lire. L’aveva portata al direttore, dicendo che qualcuno doveva averla persa e si era guadagnato il titolo di “alunno più onesto della scuola”.
Tutta la sua vita si era snodata all’ombra di quel gesto: Fausto era onesto, sincero, gentile, corretto con tutti, col nemico perfino.
E ora? Perché aveva fatto una cosa del genere?
Sospirò e scosse la testa. Era la guerra: la guerra ti cambia, pensò.

continua

1 commento:

  1. Questo è un pezzo della storia di mio nonno, F. Nicolini. Storia vera, come me l'ha raccontata lui. Evidenzio questo passaggio, più degli altri, perché mi è rimasto impresso, mi sono rimasti impressi i suoi pensieri e il suono tono di voce quando me l'ha raccontato.

    Saludos!

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