martedì 22 gennaio 2013

Missione ad Arcangelo



B-669 Dracul
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Nota:
in questo racconto appare un super di nome Drago. Drago è stato creato da Moreno Pavanello per il racconto "I fili del destino" che potete leggere qui.


*


E mi trovo a fissare la canna di una pistola.
L’inglese mi spara un paio di colpi. Li prendo in pieno e scivolo sulla neve. Lui si avvicina e spara di nuovo.
Sobbalzo. Questa volta mi ha fatto male.
Ma andiamo con ordine.

Al-di-qua. 2 novembre 2012.
Novecento chilometri da Mosca a Severodvisnk, nella Russia subartica.
Quei gelati mi costano cari.
Regione d’Arcangelo a nordest di San Pietroburgo. I miei anfibi fanno scrocchiare la neve sulla piazza, mentre un Lenin di bronzo indica un futuro che non c’è.

" ... un Lenin di bronzo indica un futuro che non c'è ... "

Vedo un albero di natale e due statue abbigliate di pellicce: le prendo per Re Magi, anche se i Magi sono tre e siamo nella Russia ortodossa.
E sono ignorante in fatto di religioni.
Due uomini passeggiano. Hanno cappotto e colbacco.
Io rimango lì fermo e credo siano loro: gli agenti dell’FSB che dobbiamo incontrare per questo casino.
Perché mi sembra d’essere in un libro di Tom Clancy.
Accanto a me c’è Sniega: tacco dodici, cappotto e colbacco di pelliccia con la stella comunista. Siamo agenti dell’ultimo erede del KGB, il servizio d’intelligence delle Repubbliche Socialiste di Ucraina e Bielorussia.
Si chiama KBS Komitet bezopasnosti soyuz. Comitato per la sicurezza dell’unione.
Sniega è il nome in codice di Irina Petrova, l’agente che mi ha reclutato in Italia, strappandomi a un’anonima vita di indagini e sguardi nelle pozzanghere.
Perché io sono Rainman, colui che guarda dopo la pioggia.

«Capitano di Corvetta Igor Ranko.» dice il primo uomo, tendendomi la mano. La stringo forte. Guardo negli occhi Igor. Ha pronunciato il suo nome con un mucchio di “a” al posto delle “o”. Quel che ho sentito è simile a “Igar Rankav”. I russi fanno così.
Il capitano ha la faccia triangolare, il mento piccolo, la bocca scolpita da un’ascia e gli occhi da lupo. Azzurri. Potrebbe essere il cattivo in un film di James Bond.
Si presenta anche il secondo uomo e dice: «Capitano di Corvetta Arkady Karpov.»
Capisco subito chi tra i due comanda: è come nelle mute di cani. Ranko è il maschio Beta che va in avanscoperta. L’Alfa è Karpov. Questo Arkady è piccolo e ha in generale l’aspetto di uno gnomo felice. Sorride, ma io non mi lascio ingannare. E nemmeno si lascia ingannare Sniega, che getta un solo sguardo a Ranko e rivolge tutta la sua attenzione ad Arkady.
Si presentano come capitani di corvetta – non so che diavolo sia una corvetta – ma è chiaro che sono agenti dell’FSB.
Noi siamo più pragmatici e diamo le nostre identità.
«Flavio Sabini,» dico io, «KBS.»
«Irina Petrova, KBS.» dice Sniega.

Una Volga nera lambisce la piazza sotto lo sguardo di Lenin. Si apre uno sportello. Arkady Karpov guarda prima Sniega, poi me e chiede: «Vogliamo andare?»
Non c’è ostilità nel gesto. Lavoriamo quasi per lo stesso paese, dopotutto. I nostri governi sono amici. Dico “nostri” perché volente o nolente, sono cittadino delle Repubbliche.
Il lupo Ranko si avvia prima di noi assicurandosi che sia tutto a posto, quindi fa cenno di salire. Annuso l’aria.
«Niente odore di panno di daino?» fa Karpov.
Non riesco a non fare un’espressione stupita. E la vecchia volpe russa sa d’aver fatto centro. Sniega mi tira le orecchie a suo modo: «A quanto pare abbiamo dato conferma di una voce sul tuo dossier, eh?»
«Via! Dopotutto siamo dalla stessa parte.» Karpov apre le braccia e ci regala una leggera pacca sulla spalla.
Così m’incammino verso l’auto: faccio il maschio Beta, insomma.
Forse Ranko lo capisce e mi sorride.
È un sorriso solidale.
Sniega e Karpov siedono vicini, al centro. Ranko siede al lato, accanto ad Irina.
«Lei stia qui,» mi dice Arkady Karpov, «accanto a me.»
Capisco subito il gioco: “se tu ammazzi Karpov, io ammazzo Irina” mi dice lo sguardo di Igor Ranko. Ho una Glock-17 che mi porto dietro dall’Italia. E sono sicuro che Ranko abbia una qualche arma nascosta nel cappotto.
Non vedo l’autista: è separato da noi da una lastra nera. Sarà una qualche diavoleria antiproiettile.
L’auto lascia la piazza e si immette nello scarso traffico. E Arkady comincia a parlare.
«Non ci sono microfoni,» dice, indicando l’abitacolo. «La macchina è a prova di bomba. Neanche un missile riuscirebbe ad ammazzarci qua dentro. Ha anche un sistema di rilevamento radar, come quello dei MiG e qualche altro gadget.»
Poi Arkady si concede una battuta: «Ma voi versate un po’ d’acqua da una bottiglietta, poi ci guardate dentro e voilà! Ve ne andate lasciandoci qui ad arrostire. Saremmo dei bei polli alla Kiev, non crede?» domanda a Sniega.
Né io né lei replichiamo. Allora Karpov tira fuori l’asso nella manica: l’asso ha la forma di uno smartphone e la manica è in realtà la tasca interna del cappotto. Karpov dice: «Collegamento.» in russo.
Nell’abitacolo sentiamo una scarica elettrostatica.
«Drago metti un po’ di musica.» ordina Karpov. Mi verrebbe da chiedergli se Drago di nome fa Ivan.
Poi con mia sorpresa scorgo Ranko buttare gli occhi al cielo.
E dalle casse dell’auto partono Albano e Romina.
«Bliat’!» mi scappa. Bliat’ in russo è più o meno “porca puttana”.
«Non le piace?» domanda Karpov. Sniega sorride. Anch’io sorrido e dico: «Sì, è che non m’aspettavo di sentire Albano e Romina a Severodvisnk.»

ci saaaarà
Proseguiamo il viaggio col sottofondo del duo canoro.
«Perché ci ha fatto venire qui, capitano Karpov?» domanda Sniega, mettendo l’accento sulla parola capitano. Sa benissimo che Arkady non è della Marina Militare, come sa per quale motivo ci troviamo nella Russia subartica.
Ranko tira fuori una fotografia dal cappotto e la porge a Sniega. Allungo il collo e guardo anch’io. Mi immergo nell’odore d’acqua di colonia scadente che passa l’FSB.
È la foto di un sottomarino. Sembra piccolo e ha la punta arrotondata. Mi da l’aria di un giocattolo con quella sua bandierina rossa che batte a prua.
«B-669 Dracul appartenente alla Flotta Nord di Polyarny.» esordisce Arkady.
«Dracul,» faccio, «bel nome.»
«Era in riparazione qui a Severodvisnk.» aggiunse Karpov.
«Qualcosa mi dice,» fa Sniega, «che non c’è più “qui a Severodvisnk”.»
Allora ha ragione lei, penso. A Mosca mi aveva detto che la faccenda riguardava un casino successo con un sommergibile russo.
Frattanto noto l’apparizione di un bosco. Fa capolino dai vetri scuri ed è come se stessimo entrando nella taiga. Il bosco cede il passo ad una strada fiancheggiata da casermoni stalinisti enormi, massicci e scrostati. Su di essi sventola la bandiera della federazione.
La macchina rallenta e si ferma. Vedo un uomo dell’FSB con mimetica e giubbotto antiproiettile. Ha un fucile mitragliatore. Un passamontagna gli copre la faccia.
C’è un secondo agente: è enorme e tarchiato; indossa un basco verde scuro e un giubbotto antiproiettile.
I finestrini dell’auto si abbassano.
Ranko allunga il braccio e tira su la manica. L’agente dell’FSB gli afferra il polso, chiude gli occhi, li riapre e annuisce. Poi fa lo stesso con Sniega e con Karpov.
Ma chi è questo? Un mago? Mi chiedo per quale ragione non sento odore di panno di daino.
Poi tocca a me.
Mi tolgo il guanto – sempre proteggersi le estremità nei climi freddi – e alzò la manica. Il gelo punge le dita, il palmo, il polso. Poi una mano morbida come il pane mi afferra e mi stringe.
Sento come una lieve pressione in mezzo agli occhi e una piccola vertigine. L’agente mi lascia il polso e annuisce.
Viene alzata una sbarra. La nostra auto comincia a procedere a zigzag lungo un sentiero tracciato da barriere protettive. Poi c’è un secondo controllo.
Due uomini in mimetica e faccia coperta. Uno si avvicina e chiede: «Documenti.»
«I vostri passaporti, prego.» fa Karpov rivolgendosi a me e Sniega. Facciamo vedere i documenti. La guardia li esamina, ce li restituisce e ci fa il saluto.
La macchina procede.
Entriamo in una sorta di cantiere a cielo aperto. Un cantiere dove non lavora nessuno.
La macchina si muove attraverso un luogo piatto, gelido, con enormi bacini di carenaggio dove galleggiano pezzi di ghiaccio.

" ... un luogo piatto, gelido, con enormi bacini di carenaggio dove galleggiano pezzi di ghiaccio ... "

La sorveglianza è affidata ai marine russi, armati fino ai denti.
Non vedo altro che capannoni e gente che cerca d’accendere una sigaretta facendosi scudo dal vento.
Poi una gigantesca, futuristica nave appare sopra le strutture. È coperta da pannelli metallici color arancio e circondata fino alla linea di galleggiamento da impalcature.

 "... è coperta da pannelli metallici color arancio ... "

La guardo.
Passiamo oltre. Scorgo le ciminiere biancorosse di una fabbrica. Ancora edifici squadrati e gru meccaniche, bracci metallici, navi militari: questo posto è immenso.
Poi vedo una cosa strana, sta da solo di fronte al mare e le sue cupole d’oro si specchiano nell’acqua.
Karpov nota il mio sguardo e dice: «È un monastero. Molto antico.»
«Bellissimo.» dico.
La macchina volta a sinistra e ci immergiamo in un panorama di nebbia e neve. Vedo da questo mare sorgere isole metalliche e gru protese come giganteschi uccelli rapaci per beccare la terra.
Dal ritmico battere degli pneumatici sulle campate capisco che stiamo attraversando un ponte.
Vedo grossi blocchi di ghiaccio galleggiare sull’acqua alla mia destra.
Poi arriviamo. La macchina si ferma e un uomo dell’FSB apre lo sportello.
Scendiamo.
L’autista rimane in macchina.
Un ufficiale ci fa il saluto. Dietro di lui stanno marine con fucili automatici.
L’ufficiale ha il viso molto fine. È più alto di me e anche lui, come molti russi, ha gli occhi azzurri.
«Sono il comandante Pavel Kazakov,» dice, stringendoci la mano. La sua stretta è salda e franca.
Camminiamo mentre ci parla.
«È successo stamattina alle 0300 ora di Mosca,» dice. E io penso: quindi in Italia era mezzanotte.
«Il Dracul ha preso il mare.» spiega Kazakov.
«Che c’è di strano?» dice Sniega, «da quando avete tradito il comunismo, regalate sottomarini come fossero caramelle.»
Pavel incassa bene il colpo: «Certo, capisco il suo punto di vista, ma il Dracul è ancora in forza alla marina russa e se n’è andato da Severodvisnk senza autorizzazione.»
«E adesso,» intervengo, «mi dirà che ha pure qualche missile nucleare a bordo.»
«Non missili, mister Sabini, ma siluri. Questo tipo di sottomarino ne imbarca ventiquattro di cui due nucleari.» spiega Kazakov.
«Avete detto che era in riparazione.» puntualizzo, «Non disarmate i battelli da riparare?»
«Chi s’è portato via il sottomarino ha caricato un siluro nucleare, nove siluri a testata esplosiva e una batteria di missili superficie-aria.» dice Kazakov.
«Chi l’ha fatto,» dice Sniega, «doveva conoscere molto bene la sua preda.»
«Ceceni?» azzardo.
Pavel fa spallucce e dice: «Potrebbe darsi, ma - »
«Pensate a una talpa nella marina?» ribatto.
«Pensiamo a un super.» dice Pavel.
«Ecco perché avete chiamato me.» dico. «Ecco perché abbiamo chiamato lei.» ripete Kazakov.
Sniega mi punta addosso gli occhi: sono sua proprietà e Pavel Kazakov, prima di avermi, dovrà fare i conti con lei.  
«Comandante,» interviene Karpov, «ci dica di più sul sommergibile.»
«Sottomarino.» puntualizza Kazakov.
Decido di stuzzicare Arkady e dico: «Lei non è sommergibilista, visto che non capisce niente di sottomarini, giusto?»
Sniega sorride. Karpov mi guarda e fa: «Gliel’ho detto, sono Capitano di Corvetta, esattamente come lei è comunista.»
È navigato Arkady Karpov perché segna un gol. Io non sono comunista, anche se lavoro per il KBS. Sniega lo sa e sa anche che questa rappresenta una grande insanabile frattura tra di noi.
Pavel Kazakov sorride e comincia a spiegare:
«Il Dracul è un sottomarino d’attacco di classe Kilo. È lungo settantadue metri – quindi piuttosto piccolo per i nostri standard – e molto veloce. Può arrivare a diciassette nodi marini, ma la sua arma segreta – e il motivo per cui va a ruba sul mercato – sono i due motori diesel-elettrici che lo rendono silenzioso. Ora, quando un sottomarino è silenzioso è invisibile ai sonar. Non può essere individuato. Capite cosa significa?» domanda.
«Sì,» rispondo, «che è un’arma letale.»
«E che,» interviene Karpov, «quest’arma letale è finita nelle mani sbagliate.»
«Parlate voi di mani sbagliate!» fa Sniega, «Avete venduto i Kilo all’Iran, all’India - »
«Signorina Petrova, non siamo qui per discutere la politica della federazione russa.» taglia corto Karpov.
S’intromette Ranko e ha la voce fredda come il ghiaccio: «Dobbiamo trovare i responsabili.» dice.
«Portatemi al suo attracco.» intervengo.
«Non ho ancora dato l’autorizzazione per un intervento di Rainman.» taglia corto Sniega.
Karpov la guarda, ma non replica.
Intanto camminiamo.
«Il motori del Kilo possono funzionare per circa quattrocento miglia prima che sia necessario alimentare nuovamente le batterie.» dice Pavel.
«Come si ricaricano?» domando.
«I due generatori a combustione interna necessitano d’aria e per procurarsela, il Kilo effettua un’emersione portandosi a quota periscopio. In questo modo, fa affiorare il tubo di aerazione e scarico dei fumi diesel. In acque ostili, il Kilo affiora solo quando deve ricaricare le batterie. Preferisce farlo di notte, in modo da non essere avvistato. Quando è in superficie, può essere beccato dai radar e fiutato dai rilevatori elettronici a causa degli ioni dello scarico.» spiega Kazakov.
«Che autonomia ha?» domando.
«Come dicevo, quattrocento miglia prima di una ricarica e seimila prima di rifornirsi di carburante.» dice Pavel.
Annuisco, poi domando: «E l’equipaggio?»
Pavel Kazakov annuisce e dice: «Cinquantaquattro uomini di cui tredici sono ufficiali.»
«Avete avuto, diciamo, diserzioni nel personale della flotta ultimamente?» chiedo.
Pavel fa un sorriso stanco e guarda Karpov che annuisce, poi apre bocca e dice:
«Il comandante in seconda e due ufficiali del suo gemello Beluga, di stanza qui a Severodvisnk, più sei guardiamarina.»
«I guardiamarina erano del Beluga?» domanda Sniega.
«No. Facevano parte di un altro battello ancora: lo Yuri.» spiega Pavel.
«Nessun uomo del Dracul è a bordo?» domando.
«No. Il battello era in riparazione e l’equipaggio in licenza.» spiega Kazakov.
A questo punto, mi rendo conto di essere dentro all’indagine. Sniega non è contenta, ma sta zitta. Vuole che ci facciamo vedere in disaccordo il minimo possibile dagli amici-rivali dell’FSB.
«Gli uomini del Beluga e quelli dello Yuri: che ha da dirmi? Erano scontenti per qualcosa? Anche piccoli dettagli.» domando.
«Sui ragazzi dello Yuri non le posso dire nulla: non li conosco. Ma il Beluga è il mio battello.» dice Pavel.
«E … ?» faccio, gettando alle ortiche i complicati riti d’etichetta propri ai russi.
«Il mio secondo, Ustinov, sta per diventare padre.» spiega Kazakov.
«Magari è sommerso dai debiti.» azzardo.
«Abbiamo già controllato,» interviene Karpov, «e non è così.»
«Voi sapevate l’identità degli uomini scomparsi?» domando, «Non potevate ragguagliarmi in macchina?»
«Lo sta facendo adesso il comandante Kazakov.» s’intromette, gelido, Ranko. Il lupo snuda le zanne.
Va bene piccolo, sta buono, buono.
«Ecco,» Pavel Kazakov si ferma, «questo è il molo d’attracco.» dice.
Gru rosse, navi anonime e arrugginite, edifici di colore indefinibile. Camminiamo su uno stretto pontile per raggiungere una piattaforma di cemento su cui sorgono casotti squadrati. A me sembra tutto un covo di ruggine.
E il vento ti taglia la faccia.
Vedo neve sciolta. Pozze d’acqua gelida.
Niente tracce, impronte. Niente.
«È sparito da qui?» domando. Pavel Kazakov annuisce.
Io fisso il mio sguardo nell’acqua. È quella che cade, è pioggia. Ma nelle regioni subartiche diventa neve. Poi si scioglie.
Mi concentro sulle tre del mattino.
Vedo il Dracul. È come una enorme balena nera. La sua pelle sembra fatta di tanti quadrati metallici imbullonati sullo scafo.
Poi uno stivale calpesta la pozza dall’altra parte. Vedo un pastrano scarlatto e il luccichio di una sciabola. Poi la figura si china e guarda dentro l’acqua. Vede me e sorride con la bocca priva di labbra, mentre i bianchi vermi che si trovano sulle tombe gli entrano ed escono dalla faccia. La sua barba è straordinariamente lunga e nera. E la testa è coperta da un vecchio tricorno.
«Cristo! Ma che cazzo è?» urlo. Come ha fatto ad accorgersi che lo stavo guardando? In tanti anni non m’è mai successo.
Lo vedo allungare un artiglio. Poi sento una stretta d’acciaio attorno al polso.
Ranko mi guarda: è lui che mi ha afferrato e tirato indietro dalla pozzanghera.
«Cosa ha visto?» domanda. Non rispondo.
Guardo Sniega e chiedo: «Ci crediamo ai morti viventi?»

"Ci crediamo ai morti viventi?"

* * *

«Crediamo ai morti viventi?» ripeto la domanda. Siamo in uno degli uffici del porto. Il perimetro è circondato da uomini in assetto di guerra.
«Sì, se a crearli è Bokor.» dice Sniega. Karpov annuisce, mentre Pavel Kazakov fa una faccia stupita. Solo Igor Ranko non ha emozioni a sentire quel nome.
Nello spazio angusto, quasi mi viene da vomitare annusando la sua terribile acqua di colonia.

Bokor. E chi diavolo è?
A quanto ne so, si tratta di una figura del voodoo. Un specie di prete. Un prete in grado di creare gli zombi, almeno nel folclore haitiano.
«Bokor è un super. Detenuto, fino a qualche tempo fa, al quinto livello, sezione speciale, della nave EUS Resolution.» dice Sniega.
«Abbiamo il nostro super, allora.» faccio.
«Possediamo anche noi un file su di lui,» interviene Karpov, «e sappiamo che è pericoloso.»
«E che combina quest’uomo pericoloso?» domando.
Karpov fa un gesto teatrale: «Può rianimare i cadaveri. Corpi privi d’intelletto che rispondono ai suoi ordini.»
«Come gli zombi della cultura haitiana.» replico.
«Sì, veri e propri robot di carne.» fa Karpov.
«Bokor può evocare anche fantasmi.» aggiunge Sniega.
«Ma non le due cose assieme,» interviene Arkady. «Cioè, o evoca l’anima o rianima il corpo, ma non può fare entrambe le cose.» aggiunge.
«Quindi,» commento, «o un robot stupido o un fantasma.»
Karpov annuisce.
«Però continuo a non capire,» dico, «Bokor rianima i morti, ma quegli ufficiali e quei marinai non erano morti, a meno che non li abbia prima uccisi lui.»
«Nessuno ci capisce granché, mister Sabini, perciò la Russia ha bisogno di lei.» fa Karpov.
«Sì, eh? E io invece avrei bisogno d’essere ai Caraibi.» faccio. «Davvero riuscite a vivere in queste condizioni? Freddo, neve, gelo?»
«Non è il momento per le stronzate.» interviene Ranko.
Mi alzo, guardo Sniega e dico: «Allora, padrona, mi permetti di dare un’occhiata?»
Indico la porta.
Sniega coglie la palla al balzo e si gira verso Karpov.
«Prima ci sono delle questioni in sospeso tra il vostro governo e il nostro che sarebbe meglio trattare - » dice.
La interrompo ed esco dalla porta. Le guardie si girano. Mi puntano addosso i fucili.
Uno di loro grida: «Alt!»

E io sono già dall’altra parte. Senza giubbotto antiproiettile.
Nell’al-di-là. Ho questo potere, cioè posso – attraverso una pozzanghera – cambiare dimensione e spostarmi lungo una linea temporale. Non ce l’ho nemmeno io ben chiaro in testa. Non so se effettivamente viaggio nel tempo – e quindi mi muovo lungo una stessa linea temporale – o vado in quella che si dice “dimensione parallela”. Io chiamo la realtà “al-di-qua” ed il resto “al-di-là”.
Mi ha dato questo potere la teleforce liberatasi a causa dello scoppio della centrale di Rho dove lavoravo nel 1973.
La teleforce è una forma d’energia pulita e rinnovabile creata a partire dagli studi di Nicola Tesla. Era il cavallo di battaglia della Salazar, la compagnia che l’aveva portata nel mondo.
A causa delle simultanee esplosioni delle centrali Salazar, nel ’73, sono nati i sovrumani o super. Tra cui Bokor.
E io.

Quando sono in pericolo di vita – con una canna d’Ak puntata addosso, per esempio – riesco ad essere molto preciso.
E così capito nell’al-di-là all’ora dell’attacco. Anzi, un poco prima.
Vedo la luce d’una torcia nel buio. Sento voci che parlano in russo.
Vedo le sagome di alcuni uomini. Sono nove.
Tre di loro stanno in disparte a formare un cuneo. Il centro del cuneo è un tizio alto, coi galloni sul cappello. Gli altri sei uomini hanno un berretto da marinaio.
L’uomo col cappello snuda una pistola e dice: «Ho sentito un rumore! C’è qualcuno!»
Il vento, che fino a prima mi schiaffeggiava il viso, ora cambia direzione.
Mi avvicino. La nebbia e la notte portano il suono dei miei passi alle loro orecchie. La torcia mi abbaglia. Ho appena il tempo di sentire lo sparo.

Sono già nell’al-di-qua col cappotto strappato all’altezza del braccio. La pallottola dell’ufficiale si è conficcata nel muro sette ore prima.
Vedo i marine russi girati a guardare l’ingresso dell’edificio: gli Ak premuti contro la spalla.
Si accorgono di me – sono dietro di loro – e mi prendono di mira. Impugno la Glock e metto un piede dentro la pozzanghera.
Ritorno a quella notte.
I nove uomini si sono appena incontrati e cominciano a parlare. Devo essere arrivato cinque o dieci minuti prima della volta precedente.
Così mi acquatto nel buio e osservo.
Li sento parlare. Uno dice: «Signor Ustinov, abbiamo visto qualcosa vicino al molo.»
«Lo so,» replica Ustinov – è il tizio coi galloni sul cappello.
C’è un odore strano, come di immobilità. Il vento fischia fra le strutture, mentre a sinistra, il sottomarino dorme.
Passa l’istante in cui Ustinov dovrebbe scoprirmi. Ma io sono fermo, silenzioso e nessuno mi vede.
Il vento cambia e mi staffila la nuca.
Poi sento un rumore. È uno sciacquio. E vedo gli zombi arrampicarsi sulla banchina. I loro occhi brillano nel buio.
Al naso mi arriva un odore terribile, come d’amputazione. Stringo la Glock in pugno.
«Gesù!» urla Ustinov. Alza la pistola e fa per sparare. Ma quelli gli sono addosso. Vedo uno zombi morderlo al collo e strappargli un lungo pezzo di carne. Sento l’odore ferroso del sangue.
Quei cadaveri bagnati sono orribili, ma ancora più orribile è chi li comanda. La torcia di Ustinov, cadendo, lo illumina per una frazione di secondo. Quel che vedo io sono due occhi rossi e una barba nera.
Gli zombi assalgono marinai e ufficiali. Sento imprecazioni in russo. Vedo gli uomini sopraffatti e uccisi.
Ora sono a terra. Gli zombi divorano gli intestini e i cervelli.
Poi sento come un tuono:
«Basta!»
Gli zombi continuano a divorare i morti.
«Basta! Cani rognosi!» continua la voce. Parla in inglese con accento britannico. È una voce antica e arrochita.
«Voi uomini, tiratevi su! Avanti! Basta poltrire e fare i morti! In piedi!» urla l’inglese.
E i cadaveri si alzano. Li vedo puntellarsi sulle braccia. Gli intestini che pendono di fuori.
«Avanti bastardi! Saliamo sulla bagnarola e andiamo in cerca dello stregone!» dice l’inglese.
Stringo la Glock. Devo vederci chiaro. Perciò mi alzo e mi avvicino.
Gli zombi si avviano sulla stretta passerella che separa questa zona dall’attracco del Dracul. E penso che si siano scelti proprio il sottomarino col nome giusto.
Ora sono dodici più il loro capo. Lo vedo trascinare una sciabola: cammina con boria e ha un tricorno sulla testa.
Mi avvicino. Poi raccolgo la torcia di Ustinov. La pistola non c’è.
Trattengo il respiro, quindi punto la torcia sull’inglese.
E mi trovo a fissare la canna di un’automatica.
L’inglese mi spara un paio di colpi. Li prendo in pieno e scivolo sulla neve. Lui si avvicina e spara di nuovo.
Sobbalzo. Questa volta mi ha fatto male.
Ho una modesta invulnerabilità data dall’esposizione ai raggi di teleforce. Dovrebbero colpirmi con un missile anticarro per mandarmi al cimitero. Comunque mi sento come se m’avessero dato un gran calcio nelle palle.
Mi punta la pistola alla testa. E io scompaio.

Sono nell’al-di-qua, dolorante, con tre pallottole in corpo. Sniega si china su di me. Credo sia preoccupata e voglia abbracciarmi, chiedere come sto, ma invece mi strappa la Glock di mano e me la punta addosso.
«Hai disobbedito.» sibila.
«Ho informazioni.» balbetto.
Karpov, Ranko e Kazakov sono lì attorno. Ranko si abbassa, mi afferra e mi tira su senza sforzo. Dopodiché mi trascina dentro.

«Mi serve un medico.» dico. Sono seduto sulla sedia e stringo i denti per il dolore.
«Ho visto chi ha preso il sottomarino.» dico.
«Chi?» domanda Karpov.
«Una specie di stronzo vestito da pirata,» rispondo, «uno stronzo non-morto, intendo.»
«E Ustinov?» interviene Kazakov.
«Andato,» dico, «fottuto. Lui, gli altri ufficiali e i sei marinai. Gli zombi se li sono mangiati, li hanno uccisi, poi il pirata li ha fatti risorgere. Si sono uniti a lui.» spiego.
Karpov medita sul mio racconto.
«Hai detto che è un inglese ed è vestito da pirata.» fa Sniega.
«Bisognerebbe avere qualche dettaglio in più.» fa Karpov.
Io scuoto la testa, perduto nei miei pensieri.
«Cristo! Pure gli zombi.» dico.
«Mi porti di là.» se ne esce fuori Ranko. «Può farlo?» aggiunge.
Annuisco. Igor Ranko mi solleva di peso e fa per trascinarmi fuori.
«Rainman è proprietà del KBS.» lo avverte Sniega.
«Ho un caricatore con diciassette colpi,» intervengo, «ce la posso fare.» poi mando un cenno a Ranko.
Lui mi accompagna fuori.
Scegliamo una pozzanghera dietro all’edificio più vicino. Ci mettiamo in modo da avere una buona vista sul molo.
Sento il respiro di Ranko. Dall’uscio, Arkady, Sniega e Pavel Kazakov ci guardano.
I marine stanno pronti attorno a loro con i fucili spianati. Forse hanno paura di dover respingere un’invasione di morti.
Viventi.

Facciamo il salto.
Chiudo gli occhi e li riapro.
Ustinov e gli altri stanno parlando. L’ufficiale prende la torcia. Sembra tutto tranquillo. Non c’è traccia di zombi.
Mi sento strano e non è solo per il dolore, che mi mozza il fiato. È come se qualcuno mi stesse osservando.
Forse avrei dovuto prendere un giubbotto antiproiettile. Ora è tardi.
Poi il vento cessa e cambia.
E m’arriva l’odore di carogna. Degli zombi.
Mi giro, urlo. L’inglese sorride con la sciabola in pugno. Tiro fuori la Glock e sparo.
Ustinov e i suoi reagiscono al clamore. Corrono verso di noi.
«Allarme!» urla l’ufficiale.
E io mi chiedo come abbia fatto.
Come cazzo ha fatto l’inglese a prenderci alle spalle?
Gli zombi del pirata sono in due. Vestono uniformi blu scuro con un simbolo sul petto: due strisce di cui una con un nodo.
Hanno unghie lunghe e facce gonfie come quelle degli annegati. Dai lembi bianchi delle ferite esce una specie di pus. I loro corpi sono grotteschi.
Ranko snuda la pistola e comincia a sparare.
E l’inglese ride, con le mani sui fianchi e la testa gettata all’indietro: i colpi non gli fanno niente.
Miro ad uno zombi: nei film gli si spara alla testa. Così mi sento Woody Harrelson mentre gli faccio esplodere il cranio.
L’altro s’avventa sul lupo e cerca di morderlo. Ranko fa un passo indietro e schiaccia il grilletto: la testa dello zombi scoppia come un melone.
Sopraggiungono Ustinov e gli altri. Vedono lo spettacolo e non capiscono: glielo leggo in faccia.
Il pirata ride, poi ci oltrepassa con una velocità incredibile. Squarcia il petto di un ufficiale e ne morde un altro. Ustinov gli spara, ma il pirata devia il colpo con la sciabola.
L’allarme, finalmente, suona nella base di Severodvisnk. Si sentono ordini abbaiati in russo. Rumore di anfibi.
Mi avvicino all’inglese. Ho il respiro mozzato dal dolore dei tre colpi che m’avrebbe sparato in un altro tempo e che giacciono nella mia carne.
Sento un freddo del diavolo.
Premo il grilletto quattro volte di seguito. La palandrana scarlatta si colora di nuovi buchi attraverso cui passa il vento gelido.
Nel frattempo, i primi morti risorgono. Un ufficiale azzanna Ustinov. Il secondo zombi si avventa sui guardiamarina. Li sento urlare, ma non vedo bene.
L’inglese si gira verso di noi. Ranko gli spara.
Sparo anch’io. Ma il bastardo devia entrambe le pallottole con la sua sciabola.
Mi rimangono dieci colpi. Così non va.
Afferro Ranko e lo riporto indietro.

La pistola del lupo è puntata su Arkady Karpov. Arkady tira fuori la sua automatica. Poi sento una voce urlare: «Fermi!»
Sniega impugna una pistola e prende di mira Ranko.
«È un malinteso,» intervengo, «siamo stati coinvolti in una sparatoria sette ore fa.»
Sniega non abbassa l’arma.
«Ho fatto il salto senza avvisare Igor, tutto qui.» spiego.
Poi cado in ginocchio per il dolore: i tre colpi mi fanno ancora male.
Rankov sbuffa e abbassa l’arma. Poi fa lo stesso Arkady. L’ultima è Sniega.
Mi pinzo la radice del naso con l’indice e il pollice.
«Cazzo, qui è un casino.» dico.
Interviene Kazakov: «Che è successo?» domanda.
«Il tizio, l’inglese, sapeva che saremmo arrivati. Anche la prima volta, quando guardavo nella pozzanghera … lui, insomma, mi ha visto, capite?» aggiungo.
«Come se fosse in grado di aprire un canale con me nell’al-di-qua. Come se - »

Un rombo di motore. Pneumatici che stridono.
La Volga nera s’arresta a qualche metro da noi. Gli sportelli si aprono tutti automaticamente, poi da quello del guidatore fa la sua comparsa un gigante con la mascella quadrata. Non parla: fa cenno d’entrare. E io sento una grande puzza di panno di daino.
Karpov urla: «Dentro!»
Ci catapultiamo in macchina.
Nell’abitacolo si ode un bip incassante.
Poi l’automobile viene sollevata. Vedo il mondo girare. Sbatto la testa e il collo mi si piega. Ho visto una luce incredibile.
Sento urlare.
Poi partono Albano e Romina.
Vedo gli occhi di Sniega fissi su di me. Una ipsilon di sangue le solca la fronte.
«Sniega!» dico. Le tocco il braccio. Lei chiude gli occhi, li riapre, tossisce.
«Igor?» è Arkady.
«Qui.» dice Ranko.
«Comandante?» domanda Karpov.
«Vivo.» risponde Pavel Kazakov.
«Ma che cazzo è successo?» domando. Nessuno risponde.
Albano e Romina cantano “Ci sarà”.
Provo ad aprire lo sportello, ma è bloccato.
E a giudicare dalla rabbia di Ranko, è bloccato pure il suo.
Karpov afferra lo smartphone e dice: «Collegamento.»
Scarica elettrostatica.
Karpov parla: «Drago, se sei vivo facci uscire.» [Drago è un super creato da Moreno Pavanello; appare ne "I fili del destino" che potete leggere qui. N.d.A.]
«Karpov, se anche il suo sportello è bloccato col cazzo che ci fa uscire.» obietto.
Ma l’uomo dell’FSB non replica.
Poi sento un rumore. Inizia come un sussurro e si trasforma nel rombo di un jet. Dopodiché finisce. Odo dei passi. Poi di nuovo il rumore. È molto forte.
Copre Albano e Romina.
La temperatura nell’abitacolo cambia. Ora avverto puzza di panno di daino.
«Ma che cazzo succede?» domando.
«Drago.» risponde Arkady.
Sento caldo. È come se il tubo di scappamento di un autobus mi soffiasse sul viso. Poi comincio a sudare.
Non respiro.
E “Ci sarà” si spegne, di colpo.
Vedo lo sportello di Ranko diventare incandescente. La radica delle decorazioni prende fuoco. La plastica e la pelle si sciolgono. Il metallo diventa bianco. E si fonde.
Poi appare la faccia di Drago. Dalla bocca gli esce del fumo. E la puzza di panno di daino è tremenda.
Uno ad uno, ci tira fuori. Quando è il mio turno, cerco e afferro la Glock.
Poi cado sulla neve sciolta e l’asfalto bruciato.
Ci sono fiamme ovunque. L’ufficio portuale non esiste più. Vedo pezzi metallici contorti. La Volga stessa giace ribaltata: è un rottame.
Mi alzo in piedi. Sniega è già attaccata al cellulare. Chiamerà il quartier generale del KBS. Guardo Drago. È un super. Mi lancia un’occhiata. Ha una bottiglietta d’acqua da cui continua a bere. Mi giro verso Arkady.
«Che cazzo è successo?» urlo.
«Quel bastardo ci ha colpito con un missile.» interviene Ranko.
Il pirata. Dunque la mia teoria è valida. Quel non-morto conosce tutte le nostre mosse. Mi ha studiato.
Probabilmente gli do fastidio e ha deciso di eliminarmi con un cazzo di missile.
Sniega chiude la chiamata e mette il cellulare in tasca.
Comincia a suonare l’allarme della base.
«Kazakov?» faccio.
Il comandante capisce al volo e dice:
«Il Dracul monta missili igla,» spiega, «gittata massima: cinque chilometri.»
«È vicinissimo,» fa Sniega, «non sarà neanche uscito dalla baia.» aggiunge.
«Di sicuro è diretto ad est.»aggiunge Arkady.
«Cosa c’è a est?» domando.
«Il Mare di Barents. La Norvegia.» interviene Kazakov.
Sniega mi guarda, mi afferra il braccio e dice: «Missione annullata, torniamo a Minsk.»
Né Karpov né Ranko fiatano.
Odo dei passi. Anfibi sul selciato.
Ci raggiunge una squadra di marine e uomini dell’FSB.
Poi lo smartphone di Karpov squilla.
Con la musica di Star Trek.
Vedo il “capitano di corvetta” fissare il display e impallidire.
«Buongiorno signore.» dice.
«No, signore.» dice.
«Un … pirata inglese zombi, signore.» dice.
«Ehm, sì, un pirata inglese zombi, signore.» dice.
«Niente vodka, signore.» dice.
«Sissignore.» dice.
Clic. Karpov ha chiuso la chiamata. È ancora più pallido. Quasi non respira.

" ... sento un rombo e due MiG ci passano sopra la testa ... "

Pochi minuti dopo, sento un rombo e due MiG ci passano sopra la testa.
Karpov ci guarda e non dice nulla.

Ranko è in piedi sul molo. Tira fuori una Marlboro e l’accende. Faccio qualche passo e mi avvicino.
Ranko non mi guarda, fa un tiro e dice: «Quelle uniformi - »
«I primi due non-morti?» chiedo.
Annuisce e fa: «Sommergibilisti inglesi.»
«Grazie.» dico.
«Vi chiamo un taxi.» fa lui.

FINE  

2 commenti:

  1. E bravo...
    Non l'ho riletto tutto, ma la parte finale non era così, nella versione che avevo letto io, o mi sbaglio?
    Ti ringrazio per l'utilizzo del mio Drago. Dovrei provare ad approfondire questo personaggio, potente ma condannato dal suo stesso potere.
    Per il progetto crossover, anche io ho pronti i primi capitoli per lo Scorpione e Blackjack. Magari in futuro si riuscirà a farne una storia completa...

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  2. Hey Moro!
    sì, devo andare a ripescare le vecchie mail, ma ricordo che ne avevamo parlato e che avevo deciso su tuo consiglio di modificare la parte finale. Ricordo anche d'averlo fatto! boh. Forse ho usato allora un file antecedente alle nostre mail. Se ripesco quello "giusto" lo pubblico così facciamo il "director's cut" o come c***o si chiama.
    Sì, Drago è il più figo! Ma anche Albano e Romina non scherzano!

    Saludos!

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