lunedì 27 ottobre 2014

Plancton - racconto a puntate - 4





Pochi centimetri d’acqua brillavano al primo sole sui dorsi degli squali nutrice. Queste piccole bestie se ne stavano le une attaccate alle altre, immerse nei canali vicinissimi alla costa e sulle spiagge, fra labirinti di mangrovie e piante acquatiche.
Verso l’abisso, sull’orlo della barriera, un gruppo di squali grigi piuttosto piccoli aveva fatto fuori una lampuga di due metri e se ne stava spartendo la carne bianca, sfilacciosa. Tre di questi squali calarono in picchiata lungo la parete, fino a raggiungere una bio-costruzione multicolore di piccole canne pietrificate e ombrelli di funghi sottomarini. Mentre gli squali se ne stavano lì a ciondolare, le loro ampolle di Lorenzini captarono qualcosa. L’enorme femmina di squalo toro era uscita dalla tana, disturbata dagli intrusi. Gli squali grigi non riuscivano a distinguerne la forma, coi loro piccoli occhi dalla fessura verticale, ma sapevano che era lì e esattamente a che distanza. Erano profondamente seccati. Il più grosso – superava di poco il metro e mezzo – cominciò la danza d’allarme. Buttò le pinne pettorali in basso, assunse una posa ingobbita e cominciò a nuotare esageratamente da destra a sinistra e viceversa. Lo squalo toro prese a nuotare in un modo più fluido, tenendo d’occhio il grigio. Scivolò via, lasciando il campo ai tre grigi. Era una femmina grossa, certo, ma gli squali grigi, col loro carattere particolarmente aggressivo, riuscivano spesso a intimidire bestie ben più grandi.

La grande aragosta aveva visto tutto, affacciata dalla sua tana, e ora, mentre piluccava un gustosissimo riccio, era interessata a guardare la reazione delle figlie dello squalo toro. Una di queste era uscita e s’era messa a combattere con gli squali grigi. Uno squalo le strappò una pinna, e gli altri la attaccarono da sotto e dai fianchi. La fecero a pezzi e sparsero una grande nube di sangue. Il sangue richiamò tutti gli squali grigi. Scesero giù lungo la parete. L’altra femmina uscì, cercando d’inseguire la madre. Ingoiò qualche boccone della sorellastra morta. Gli squali grigi si precipitarono su di lei, dopo aver fatto la danza d’allarme. Erano presi da una tremenda frenesia e non avrebbero risparmiato nessuno, nemmeno i loro cugini della barriera dalle pinne nere, che se ne stavano alla larga. Gli squali puntarono al naso: con un morso, uno di loro le distrusse le ampolle di Lorenzini e la disorientò. Con quei suoi strani occhi a spirale, la femmina non riusciva a vedere niente. Sentì scoppiare le ampolle e i canali di muco fremettero. I denti dei grigi affondarono, dilaniandola, strappandole le pinne e le branchie. Pezzi di squalo galleggiavano nell’acqua. Uno arrivò perfino alla grande aragosta che, non vista, ne approfittò per assaggiarlo.
Con quella sua forma tozza da vecchio bombardiere, l’enorme femmina di toro se n’era andata ben oltre la barriera, proprio sopra l’abisso. Aveva gettato la sua ombra sui due palazzi delle tribù d’aragoste e piegato a destra. Aveva costeggiato un po’ una formazione di coralli e s’era lasciata trasportare da una corrente calda. Ora dormiva.
Il pesce pappagallo assopito, immerso nel muco, aveva aperto gli occhi e s’era messo a girare con un gruppo di suoi simili. S’era spinto quasi a riva, lungo l’altopiano sottomarino, dove altri gruppi di coloratissimi pesci pappagallo passavano la vita a filtrare coralli in cerca di cibo. Aspiravano e sminuzzavano questi coralli, mangiando tutto ciò che trovavano all’interno e restituendo al mare una sabbia bianca e finissima. Avevano eroso già una buona fetta della barriera e continuavano, triturando coralli e cagando sabbia.
Non aveva nome, né gli sarebbe servito, ma era l’ultimo della sua specie in quella zona. Si spostava per cacciare dalle acque basse, vicino alle mangrovie, all’orlo della barriera, fino a raggiungere i primi passi dell’abisso. Non era vecchio come la grande aragosta – aveva trent’anni contro i quaranta di essa – ma pesava mille chili ed era lungo sei metri. Il coccodrillo d’acqua salata si tuffò in mare e si spinse con le zampe lungo uno dei canali. In quella zona non c’era niente, né squali, né pesci. Nessuno era così idiota da dormirci di giorno. Così lui si spinse fino ai canali usati dagli squali nutrice. Ci arrivò a pelo d’acqua, col corpo lungo che sembrava un tronco portato da un uragano. Il coccodrillo era in piena fase di crescita e doveva mangiare parecchi chili di carne, quel giorno. Navigando lungo i canali, sfociò presso uno dov’erano impilati molti corpi lucidi e scuri. Gli squali nutrice dormivano della grossa, lasciandosi muovere dalle correnti. Quando le loro ampolle di Lorenzini captarono il rettile, i pesci si sparpagliarono, nuotando alla massima velocità. Ma erano bestie pigre e poco abituate agli scatti improvvisi. Il coccodrillo, invece, sapeva aspettare e fare la mossa giusta al momento giusto. Scattò e chiuse le mascelle attorno a uno squalo nutrice.

continua...

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